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Stirpe e vergogna e ritorno all’amore: intervista a Michela Marzano

In un nuovo incontro letterario alla libreria Lovat di Villorba ritroviamo Michela Marzano, personalmente una delle mie filosofe contemporanee “guida” e sempre un piacere da ascoltare. Questa volta ci ha presentato il libro Stirpe e vergogna (Rizzoli 2021) e noi ne abbiamo approfittato anche per chiederle qualcosa su uno dei suoi temi cardine: l’amore. Ne abbiamo parlato a lungo nella prima parte dell’intervista, che potete leggere comodamente nella nostra rivista La chiave di Sophia #18 – Pensare l’amore.

Giorgia Favero – Non a caso uno dei tuoi libri s’intitola proprio L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore, facendo eco ai bellissimi versi di Emily Dickinson: Che sia l’amore tutto ciò che esiste/ è ciò che noi sappiamo dell’amore/ e può bastare che il suo peso sia/ uguale al solco che lascia nel cuore. In tutti questi anni, diciamo dal Simposio di Platone in poi, abbiamo scritto, cantato e parlato dell’amore in tutti i modi, in tutte le salse. Ma secondo te ci abbiamo capito finalmente qualcosa?

Michela Marzano – E infatti a me piaceva molto questo paradosso del titolo del libro, nel senso che da un lato si lancia l’idea (a cui io sono molto legata) secondo la quale l’amore rappresenta il sentimento fondamentale, come diceva Freud, il “sentimento oceanico dell’esistenza” tanto è vero che solo quando noi riusciamo ad amare e lavorare possiamo considerarci in salute ma, al tempo stesso, ogni qualvolta si scrive dell’amore si dice tutto quello che ognuno di noi riesce a vivere, a sperimentare, a indagare, a capire, a approfondire, talvolta smettere di capire, quindi c’è sempre una dimensione sempre molto soggettiva.

GF – I tuoi libri sembrano percorsi da tanti fili rossi e il tema della memoria ci porta anche a Stirpe e vergogna, l’ultima tua pubblicazione per Rizzoli, in cui la storia personale della tua famiglia s’intreccia a una riflessione sociopolitica sul nostro Paese. In quali modi pensi che la storia di tuo nonno abbia influenzato la tua?

MM – Sì, però è stato anche un sollievo togliere di mezzo quello che era stato il segreto di famiglia, perché in realtà io sistematicamente dico a chi non l’ha letto: “no, il problema non è stata la scoperta e quindi la vergogna ma la vergogna precedeva la scoperta e quindi precedeva la conoscenza”. La storia di mio nonno era stata rimossa da mio padre per vari motivi: da un lato perché c’era “il rimosso” dal nostro paese, il fatto di non voler conoscere ciò che era stato e dall’altro lato perché mio padre era ancora giovane quando il nonno ha avuto questi ictus ed è rimasto poi per 18 anni su una sedia a rotelle, paraplegico, senza nemmeno poter più parlare. Era il 1958, prima del 1961, data del processo contro Eichmann a Gerusalemme, cioè quando si è riaperto il capitolo Shoah, quindi nazismo, e quindi poi in alcuni ambienti anche fascismo. Ciò detto, nulla toglie al fatto che questo segreto di famiglia è diventato (come spesso accade con i segreti di famiglia) una cripta con all’origine un sentimento di vergogna per cui la scoperta ha permesso anche di spiegare il perché però poi è stata una conoscenza dolorosa perché ho cercato di capire, di contestualizzare, di analizzare, di mettere in prospettiva e però il risultato alla fine è stato l’amore, ancora una volta. Mio fratello ha finito di leggere il libro e ha detto: “ancora una lettera d’amore a tuo padre”. Perché poi mio fratello è molto presente nel libro, mio fratello si chiama Arturo Marzano come nonno Arturo, mio fratello omosessuale, mio nonno fascista, ci sono parecchi intrecci complicati. Poi io ho sempre voluto capire, ho sempre voluto conoscere, quindi a me piace molto questo legame tra conoscenza e amore perché per me è evidente. Conoscere è una forma d’amore. Io per amare devo conoscere. E per conoscere devo amare.

Giorgia Favero – Il tema della censura evidentemente accomuna allora tanto la storia personale quanto la storia in senso globale e sociale. Prendendo questa volta in considerazione il secondo punto, che cosa ha provocato secondo te la censura del Ventennio nell’Italia di oggi?

Michela Marzano – Per me è all’origine di tantissime situazioni di conflitto, di conflittualità, di rabbia, di tensione e di violenza che ci sono oggi. Perché il problema è che noi siamo soprattutto agiti dal rimorso, perché uno può far finta che nulla sia accaduto, il problema è che siccome le cose invece nel momento in cui sono accadute hanno bisogno di trovare le parole per essere nominate e essere riattraversate, se tutto ciò non viene fatto, c’è comunque un problema. La difficoltà è che, una volta finita la Seconda Guerra Mondiale, la scelta di mettere un punto e andare a capo è stata fatta in modo unanime praticamente da tutto il mondo. Era una situazione complicata, c’era la Guerra Fredda, c’erano altre preoccupazioni, si pensava che mettendo un punto e andando a capo si sarebbe riappacificato il Paese e i Paesi. Invece no. Tanto è vero che a partire dal 1961 si riapre il capitolo, poi lì la reazione è stata diversa a seconda dei paesi: la Germania è stato il paese dove i conti si sono cercati di fare prima della Francia, dell’Italia, della Spagna, quasi paradossalmente. Nel libro cito un bellissimo discorso del Presidente della Repubblica tedesco del 1985: “ricordiamo nel lutto i milioni di morti ebrei, sinti, rom, omosessuali” assumendosi la responsabilità come parte del popolo tedesco. Negli anni 90, Chirac, Presidente della Repubblica in Francia, che sgretola il mito della Francia come Paese di resistenti: no, Vichy è stata collaborazionista. Nel 2018, Mattarella in occasione del Giorno della Memoria, in cui si commemoravano le vittime del nazismo, dice che sono le vittime del “nazifascismo”. Basta col mito “italiani brava gente”, e qui si vede come siamo arrivati in ritardo. In Spagna, ancora i conti non si stanno facendo, quindi l’Italia non è un’eccezione. Ora, tu dirai: “che c’entra la Russia, l’Ucraina…”, eh però anche lì i conti con il passato non sono stati fatti, con un altro passato, ma anche qui usciamo dell’ideologico. Qui finché non si mettono le cose una dopo l’altra, finché non ci raccontiamo la nostra storia, noi faremo fatica a immaginare un futuro, perché come dice Paul Ricouer: “l’identità è identità narrativa, identità personale, identità collettiva”. Io so verso dove voglio andare se so chi sono e se so chi sono so da dove vengo e sono capace di raccontare la mia storia, e a livello collettivo è la stessa storia.

GF – È opinione condivisa dagli scrittori che per scrivere bene bisogna scrivere di qualcosa che si conosce. I tuoi libri però vanno oltre, attingendo dalle tue esperienze personali ed emotive delle storie universali. Per Duccio Demetrio (Educare è narrare, 2012) l’autobiografia è una forma di educazione di sé stessi e addirittura svolge un ruolo di natura catartica. Che cosa significa per te lasciare dei pezzetti di te stessa nei tuoi libri?

MM – Né l’uno né l’altro, non userei il termine catartico. Il ruolo per me fondamentale, centrale, strutturante è la ricerca, l’operazione di scrittura è altro, è un “vi apro le porte di casa mia, vi faccio entrare in casa mia, affinché voi entrate in casa vostra”. Per cui non è né educazione, né catarsi: è letteratura, è quello che fanno tutti gli scrittori quando scrivono. Dopo di che io penso che per aprire un armadio, entrare in una casa e far entrare in quella casa, la strada che ho trovato io è quella di aprire casa mia direttamente.

Grazie Michela Marzano per questa ultima intervista! Trovate il nostro primo incontro a questo link.

 

 

[Immagine di copertina tratta da Instagram]

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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