Sentirsi soli pur avendo un sacco di persone attorno. A chi non è mai successo? Tutti noi siamo inclini al rapporto umano e all’interazione, necessitiamo di costruirci una sorta di cerchio attorno che possa garantirci un’apparente serenità. Non che sia sbagliato, anche perché è forse inevitabile. Può anzi risultare un sistema efficace per darci la forza di andare avanti in questo mondo controcorrente. Ogni sistema, però ha un suo difetto, una falla che rischia di far crollare tutto il castello di carte costruito fino a quel momento.
Nel caso del sistema di rapporti che erigiamo, puntiamo ad una posizione pacifista. Nessun conflitto, nessuno squilibrio che possa danneggiarci e la nostra mini-società procede di pari passo in una quiete imperturbabile. Il principio fin qui può dunque risultare assai azzeccato e conveniente per tutti. Tutti, tranne noi. L’ inconscio sentimento di autodifesa generato da questo metodo rischia infatti di isolare la nostra persona. Isolare sentimentalmente sia chiaro, ben lontano dall’isolamento sociale. Infatti, obbedendo ai canoni della società, al super-io freudiano, ci limitiamo e appunto rinchiudiamo il nostro spirito, il nostro io in una bolla sociale ma sterile sotto qualsiasi altro punto di vista. “Bolla” e “isolare” sono i termini appropriati in questo caso, dato che, si prenda come semplice esempio l’isolazionismo storico applicato dagli USA dopo la Grande Guerra, o ancora, in fisica l’esempio di un sistema isolato, possiamo notare come una proiezione di questo fenomeno sia dannoso spiritualmente se applicato all’animo umano. La società o qualsiasi altro ente non si preoccupa di questo nostro aspetto, non se ne cura e mai lo farà. Sta a noi l’arduo compito dell’autodeterminazione spirituale che, se posta in secondo piano rispetto al super-io, morirà in se stessa, nella staticità data dall’attesa di un nostro intervento. Ne conseguirà dunque un’esistenza sterile, meccanica e banale, paragonabile ad una lista di attività da svolgere. È come decidere di pianificarsi l’intera vita nello stesso modo in cui pianifichiamo la giornata, abbandonandoci alla regola, all’ordine esistenziale che ci porta al non vivere.
L’uomo di oggi, o meglio, il ragazzo, assoggettato alle norme scolastiche prima e lavorative poi, cresce in un ambiente povero di emozioni e povero di soggettivazione della vita. Non si sta parlando della creazione di un modello da seguire, di un’alienazione dell’essere umano convertito in un semplice esecutore, ma bensì di un uomo ignorante, ingannato ogni giorno sempre più da una realtà oggettiva che oggettiva non dev’essere. La scuola, gli studi e addirittura i rapporti che ne conseguono fanno tutti parte di una cerchia di decisioni involontarie e convenienti che pietrificano la capacità d’espressione e di giudizio umano.
Un sistema del genere, in cui la massa è sovrana nella sua collettività e nel suo successo di continuo reclutamento di individui, si ha la creazione di minoranze di pensiero e la loro inevitabile sottomissione. L’infelicità umana che si viene a creare da questo gioco perverso è generata dall’infelicità inconscia del singolo che, per convenienza ha difatti barattato un po’ della sua felicità per un po’ di sicurezza (Sigmund Freud), sopprimendo la sua unicità nella teoria di Hobbes homo homini lupus, secondo la quale ogni uomo per natura sarebbe incline ai suoi istinti naturali, alle sue pulsioni più animalesche ma per gli altri uomini, per convenienza ed equilibrio decide di frenare questi istinti fondando le basi per la costruzione di una società. Questo è il riflesso della condizione umana, proiettata su di uno specchio, appannato appositamente da noi stessi che temiamo l’orrore della verità data dalla realtà delle cose che confondiamo con la sola apparenza.
Alvise Gasparini