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I sofisti e i social network

Circa 2500 anni fa, in quel lembo di terra bagnato dal mediterraneo famoso per aver dato alla luce i padri della filosofia occidentale, si aggirava una particolare risma di intellettuali. Da molti riconosciuti come sapienti, eppure non da tutti stimati, per via delle idee che professavano e del loro rapporto tutto particolare con la ricerca e con la condivisione della conoscenza.

Erano chiamati sofisti.

Si proponevano come maestri a pagamento, e insegnavano l’arte di ragionare.
“Sofista” era un termine che stava spesso contrapposto a quello di “filosofo”: quest’ultimo infatti praticava il suo amore del sapere attraverso la ricerca della verità. Questa ricerca per i sofisti era del tutto vana. Vana dato che, a detta loro, non c’è nessuna verità da scoprire. Nessuna conoscenza certa, solo prospettive soggettive, ad ognuno la sua. Il mio parere, il tuo, il suo. Nessuno più vero degli altri. Tante verità quante sono le opinioni.

La parola, ritenuta dai filosofi il veicolo supremo del Logos, non era più riconosciuta come portatrice di un sapere affidabile e univoco. Ma non per era questo ritenuta meno potente. Anzi, al contrario: senza una verità esteriore a fare da garante alle affermazioni, l’argomentazione più forte, più convincente, era quella presentata nella maniera più persuasiva. Nelle dispute di ragionamento avrebbe avuto la meglio il discorso più seducente e ammaliante, capace di irretire la mente e il cuore degli ascoltatori.
La retorica, l’arte della parola utile alla persuasione, era quindi al centro dei loro insegnamenti. E i sofisti si proponevano come maestri insuperabili. A dispetto della logica, e con buona pace del principio di non contraddizione, affermavano che avrebbero potuto convincere una persona di una tesi, come pure del suo contrario.

Proprio nell’antica Grecia in cui il Logos aveva potuto ergersi alto e indicare la via per la storia del pensiero, dalla proiezione della sua ombra altrettanto lunga è fiorita l’anti-logica dei sofisti.

2500 anni dopo, oggi, si parla di era dell’informazione. L’informazione non è cosa nuova. Ciò che è del tutto contemporaneo e originale è la maniera travolgente e capillare con cui essa si può diffondere. E parallelamente, dare un’occasione potentissima al dilagare della dis-informazione.
Scorrendo le bacheche di Facebook, attraversando i titoli dei risultati di una ricerca fatta su Google, parrebbe che l’eredità dei sofisti sia stata raccolta, e sviluppata in nuove forme, in armonia con i tempi che corrono.
Fake news, bufale. Senza cura per logica e coerenza.
Ai tempi dei sofisti era la parola lo strumento attraverso cui esercitare il potere del convincimento, il mezzo che agiva sulle menti e di conseguenza sulle azioni, inesorabile come un veleno debilitante o come un farmaco ristoratore.
Le elaborate argomentazioni appaiono superate se si pensa alla nostra quotidianità. Più che dimostrare, basta mostrare: qualche immagine, un titolo che grida, un’etichetta risoluta. E poi è sufficiente condividere, passare ad altri l’informazione senza controllare, e sarà la diffusione di un messaggio a corroborare l’illusione della sua realtà.

“Menare per il naso come una bufala” è l’espressione che secondo la Crusca darebbe l’origine al termine “Bufala”, vale a dire farsi seguire da qualcuno trascinandolo per l’anello attaccato al naso, proprio come accade per i bovini. Cascare nell’inganno senza darsene conto.
Per quanto i sofisti rinunciassero ad una verità assoluta, conservavano ciò nonostante un’altra consapevolezza, che si può riassumere nell’espressione: “l’uomo è misura di tutte le cose”.  È uno dei loro slogan più famosi: significa che “là fuori” non c’è nessun riferimento che ci dà la garanzia e la certezza per le nostre credenze. Quello che affermiamo, dipende da noi.
Calato nella nostra quotidianità, è un po’ come dire che ognuno può essere responsabile di ciò a cui crede, e di ciò che racconta agli altri.

Prendendo ispirazione da questo aforisma, possiamo fare un passo in più: nell’assenza di una verità evidente e immediata, possiamo scegliere. Subire passivamente l’informazione che ci capita, o diventare attivi protagonisti del nostro sapere, radicandolo il più possibile in quelle fonti che perlomeno hanno l’intenzione di evitare la superficialità o l’inganno.

La formazione scolastica ci allena ad assorbire il sapere che ci viene trasmesso. A dire di “sì” ed accogliere quello che ci raccontano i libri e i professori. È faticoso a volte, ma necessario per allargare i nostri orizzonti e dare una realtà più ampia al mondo in cui viviamo.
Ma questa capacità di abbracciare positivamente nuova conoscenza non basta più. È sempre più urgente sviluppare un’altra abitudine: quella di dire “no”. E anche: “Aspetta un attimo”. Per darsi il tempo per esercitare un sano senso del dubbio, e dare sfogo al nostro spirito critico.

Come i sofisti, essere consapevoli di quanto può essere ingannevole la trasmissione del sapere. Come i filosofi, amarlo tanto da avere la pazienza di approfondire prima di diffonderlo.

 

 

P.S.: Ci vuole gusto per smascherare un inganno, come pure per crearne uno irresistibile.
Ecco un raggiro degno di un sofista 2.0: link.

 

Matteo Villa

Artista marziale incompleto, musicista dilettante, ora scrittore improvvisato. Spera e racconta a sé stesso che la somma delle competenze approssimative che coltiva, dedicandosi in maniera professionale al cazzeggio, contribuisca a raffinare la sensibilità della sua riflessione. Per giustificare alla società la collezione disordinata dei suoi interessi si laurea prima in filosofia, e poi in scienze cognitive. La passione per i processi di apprendimento ma soprattutto il complesso di inferiorità rispetto a chi ha frequentato facoltà scientifiche lo portano a lavorare in un noto museo della scienza, dove collabora allo sviluppo di progetti culturali nazionali e internazionali sul rapporto tra scienza e società.

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