Ci svegliammo che era quasi sera. Che sogni strani1, sentivamo un certo languorino.
Frugammo nelle valigie vicine, matite posate portamonete ma no, niente cibo. Cercammo allora qua e là, zigzagando tra le colline della città senza nome2, ma ancora senza successo.
Trovammo però una bambina. Le chiedemmo se poteva indicarci un posto dove cenare. Un posto c’è: oltre quella serpentina di valigie che scollina ad ovest, al bivio a destra e alla settima quercia il secondo sentiero a sinistra, quello che attraversa la faggeta, ci aveva detto. Oppure vi posso accompagnare io, ma serve un dado.
Mentre ci vedevamo già a tavola con gli occhi chinati su un misero brodino, la bambina aprì la valigia del filosofo e tirò fuori il dado, e non era esattamente il tipo di dado che avevamo immaginato.
Era un dado da gioco. Aveva trenta facce e non aveva numeri, sebbene ogni faccia riportasse una scritta.
Il gioco era una specie di gioco dell’oca: le valigie erano le caselle e noi le pedine. Quando si capitava su una valigia, bisognava aprirla e prendere almeno un oggetto, a scelta.
Tirai il dado e lessi una scritta a caratteri microscopici: valigia fucsia bordesto lillato di forma triangolare rivestita di stoffa lucida con sette ruote due maniglie grigio chiaro perlato una cerniera antracite e un sottile motivo ondulato carta da zucchero lungo le bisettrici. Quando finii di leggere la scritta avevo anche finito il fiato, tanto era lunga.
Cercai con gli occhi la valigia corrispondente alla descrizione e la bambina, vedendomi perplessa, pensò che non sapessi cosa fare. Balzò allora sulla valigia del filosofo, ne estrasse un pennarello e un foglio verde e scrisse in fretta □ A = ~ ◊ ~ A , spiegando che era proprio necessario che raggiungessi quella sola valigia che aveva quel colore e quella forma: se qualcosa è necessario, non è possibile il suo contrario.
Raggiunsi la mia casella e aprii con una certa curiosità la cerniera antracite. Era la valigia dei bicchieri preziosi, per cui presi tre calici di cristallo: sarebbero potuti servire per la cena.
Toccò alla mia amica, il dado trottolò poi traballò poi si fermò. Lei si chinò prendendo moltissimo fiato, ma quello che lesse fu semplicemente: valigia blu. Quale?, chiese. Quella che preferisci, rispose la bambina, basta che sia blu.
La mia amica scelse la valigia blu più lontana nel percorso, e fu una scelta astuta perché si avvicinò non di poco alla meta. Dentro, pile di piatti.
Mentre la mia amica ne prendeva qualcuno, la bambina commentò che eravamo state fortunate a trovare oggetti che sarebbero serviti per la cena. Osservò, poi, che in questo secondo caso era uscita una faccia particolare: la scritta non dava l’obbligo di scegliere una determinata valigia blu, ma dava la possibilità di sceglierne una tra le tante blu presenti. Insomma, a differenza del mio caso, non sarebbe stato necessario che la mia amica avesse scelto proprio la casella che di fatto aveva scelto.
Continuammo con questo gioco talvolta avanzando di molte caselle e trovando degli oggetti utilizzabili alla cena, altre volte traendo pochi vantaggi dalle sentenze del dado.
Alla fine del percorso la mia amica aveva recuperato una pila di piatti, qualche forchetta di plastica e una tovaglia da pic-nic ricamata a mano, la bambina una bottiglia di aranciata e un mestolo, e io tre calici di cristallo e qualche cucchiaio. Dei bulbi di tulipano, la neve istantanea e il seggiolino – che pure ci eravamo portate dietro, rispettose delle regole del gioco – non sapevamo ancora bene cosa farne.
La valigia del filosofo
NOTE:
1. Cfr. Credenze uguali, opinioni diverse.