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Salvare il pianeta scrivendo storie migliori

Troppo spesso il tema cambiamento climatico è abbandonato agli scienziati, che ci dicono cosa sta succedendo, a che velocità e con quali probabili (catastrofici) risultati futuri. Manca ancora un solido coro di voci che racconti tutto questo in modo diverso, un modo che possa far breccia nella mente e nello spirito delle persone. Come scrisse Magnason ne Il tempo e l’acqua (Iperborea 2019) riportando un dialogo con uno scienziato di nome Lucht, «pubblichiamo grafici ed esiti di simulazioni computerizzate che parlano la lingua delle nostre discipline: la gente li guarda, annuisce e forse in un certo senso li assimila, ma non li capisce nel vero senso della parola […] La gente i numeri non li capisce, ma le storie sì. Tu che sai raccontare storie, devi raccontare questa»1.

Dello stesso avviso sembra essere la scrittrice americana Rebecca Solnit, che in un recente discorso all’università di Princeton e poi riportato sul “Guardian” propone una prospettiva nuova: «dobbiamo trovare storie di un futuro vivibile, storie di forza popolare, storie che motivino le persone a fare quel che serve per creare il mondo di cui abbiamo bisogno»2. L’idea è che di storie ce ne siano parecchie ma che non vengano raccontate, o almeno non con la frequenza e l’intensità di cui avremmo bisogno. La rivoluzione energetica è in crescita, il quadro generale dal lato scientifico-tecnologico (per esempio legato alle rinnovabili) è «incoraggiante e persino sorprendente» in termini di fattibilità, produzione e costo, eppure «le persone trovano fin troppo credibili le narrazioni deprimenti, che siano fondate su fatti o no», rischiando così di giungere alla profezia (catastrofica) che si autoavvera. Nel 2022 infatti “Nature” ha condotto un sondaggio dal quale emerge che la maggior parte degli statunitensi crede che solo una stretta parte di cittadini (37-43%) sia favorevole all’azione contro la crisi climatica, mentre in realtà lo è una sezione ben più ampia di popolazione (66-80%).

Questo avviene anche perché ci manca l’immaginazione. Anche se si tratta di un processo lungo, lento e faticoso, «è conquistando l’immaginazione popolare che si cambiano le regole del gioco e i suoi esiti possibili». Non siamo capaci di immaginare delle soluzioni diverse rispetto al modo in cui viviamo adesso, non siamo in grado di dipingerci un finale che non sia catastrofico – grazie anche allo zampino della cultura di massa, dal cinema alla narrativa – e quindi non ci aspettiamo altro che l’estinzione. Paradossalmente, invece, come sottolinea bene Solnit, può venirci incontro proprio la storia. La storia ci insegna quali enormi cambiamenti abbiamo fatto anche soltanto negli ultimi decenni: in termini di stile di vita ma anche di diritti civili, e anche in termini ecologici. L’autrice per esempio ricorda che fino agli anni Sessanta la produzione energetica del Regno Unito si basava quasi esclusivamente sul carbone, mentre ad oggi ne ottiene più della metà da fonti a bassa emissione di CO2.

Dobbiamo anche rivedere la storia della responsabilità individuale. Un tema stupendo che dovremmo comunque rispolverare, magari leggendo Il principio responsabilità di Hans Jonas del 1979. Però va presa con opportuni distinguo. Per esempio, diversificando la responsabilità individuale di un italiano (o di un americano) rispetto a un bengalese. Ma anche ricordando che come individui non siamo solo consumatori – quindi non basta cambiare alimentazione, lasciare a casa la macchina e abbassare di un grado il riscaldamento – ma siamo anche molto di più: cittadini, ovvero esseri che si aggregano e che insieme possono fare anche di più. L’impronta individuale è un’ansia ecologica che per convenienza hanno creato le grandi aziende, per esempio nel settore dei combustibili fossili, i maestri assoluti di greenwashing. «I soccorritori di cui abbiamo bisogno agiscono soprattutto in modo collettivo: movimenti, alleanze, campagne, società civile […] Ci mancano storie in cui sono le azioni collettive o la paziente determinazione degli attivisti a cambiare il mondo».

Un coro è più facile da sentire di una singola voce e può produrre un’eco importante. Il tema climatico viene raccontato per grandi eventi e non per piccoli passi, eppure iniziative di singole città, piccoli stati, singole aziende, nuovi cantieri, progettazioni su scale interregionali possono segnare un precedente e spingere all’emulazione a cascata. Esempi significativi e storie di speranza che meritano di essere raccontate a gran voce. Storie che non nascondono l’imbiancamento dei coralli, lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità, l’estinzione di sempre più animali e così via, però ci contestualizzano all’interno di una battaglia che – se siamo disposti a combattere con rinnovata energia – forse possiamo ancora vincere.

 

 

NOTE:
1-A. S. Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea, Milano 2019, pp. 69-70.
2-R. Solnit, If you win the popular imagination, you change the game: why we need new stories on climate, in “The Guardian”, https://www.theguardian.com/news/2023/jan/12/rebecca-solnit-climate-crisis-popular-imagination-why-we-need-new-stories. Il testo è stato riportato su “Internazionale”, n. 1500, 17-23 febbraio 2023, pp. 88-94.

[Photo credit unsplash.com]

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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