Recensione de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Luis Sepulveda
C’è una foresta senza limiti a El Idilio, di quelle con l’aria calda e pesante che ti si appiccica alla pelle come una pellicola, di quelle il cui cielo coperto pare una pancia d’asino rigonfia e si sa che da un momento all’altro si apriranno le cataratte del cielo. Lì, a bordo di una canoa, ci arriva Antonio José Bolivar Proaño, un colono bianco. Il suo passato è un ritratto di coppia con assenza: si sposa a tredici anni con una ragazzina che ama molto ma dalla quale non riesce ad avere un figlio, motivo questo che costringe la coppia ad allontanarsi dal loro paese natio. Si trasferiscono così ai margini della foresta ecuadoriana ma quando la donna resta finalmente incinta muore di parto e Antonio José Bolivar Proaño prosegue la sua vita, solo, accanto agli indios. Sono loro che gli insegneranno i modi per sopravvivere nella foresta. Un giorno, tuttavia, andando a caccia, viene morso da un serpente chiamato IX e arriva moribondo al villaggio shuar più vicino: essi lo curarono, lo accudiscono, gli salvano la vita. Presso di loro conosce il suo compagno di battute di caccia che però un giorno viene ucciso per errore da alcuni coloni bianchi giunti lì in esplorazione. Antonio José Bolivar Proaño si trasforma rapidamente in un assassino per vendicare l’uccisione dell’amico ma lo fa alla “maniera dei bianchi”, causando cioè la morte del nemico con un fucile e non con dei dardi velenosi come gli avevano insegnato gli indigeni shuar. Da quel luogo verrà dunque cacciato, esiliato dagli stessi indios che non riescono più a riconoscerlo come parte integrante della loro famiglia. Antonio José Bolivar Proaño vivrà quindi i restanti anni della sua vita a El Idilio, leggendo romanzi d’amore che pensa possano riempire il vuoto lasciato dalla morte della moglie e mettendo a disposizione degli abitanti del posto le sue conoscenze sulla foresta nella caccia ad un animale pericoloso.
Scritto con una semplicità naïve in memoria dell’attivista ecologico assassinato Chico Mendes, la struttura narrativa di questo romanzo si arena con determinazione in quegli spazi vitali propri dei nativi indiani Shuar che sanno scuotere la coscienza del lettore come dardi velenosi conficcati in cuori pulsanti. La foresta rigogliosa dell’Ecuador, infatti, di fronte alla costante minaccia di essere trasformata in terra desolata per colpa di cacciatori d’oro o squallidi avventurieri lotta e si ribella. Solo chi sa interiorizzare il linguaggio segreto della terra ed entrare in armonia con essa si salva e vive. Antonio José Bolivar Proaño si fa dunque simbolo della resistenza, resistenza contro le macellazioni anti-ecologiste dei bianchi, resistenza contro la furia e la cattiveria umana come a dire che opporsi alla barbarie in-naturali è ancora possibile. Non sa solo resistere però, ai ricordi e alla vecchiaia, a quei tafani che rodono miserabilmente le nostre solitudini, a quelle leggi immutabili proprie degli uomini. Leggere romanzi d’amore pare dunque essere l’unico antidoto efficace, perché nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono. Come a dimostrare che non resta che continuare meravigliosamente a respirare.
Luzia Ribeiro da Costa
[immagini tratte da Google Immagini]