Il tentato colpo di stato che ha scosso la Turchia la notte del 15 luglio ha riservato numerose sorprese, specie nelle vere e proprie purghe che il Presidente Recep Tayyip Erdoğan ha avviato già dal sabato: quasi diecimila arresti ed altrettante sospensioni, non solo tra le cariche militari, ma anche tra funzionari statali, giudici e docenti universitari, bersagliando in larga parte le varie personalità politiche e culturali che si erano opposte più o meno pubblicamente al disegno di riforma costituzionale che vedrebbe la Turchia diventare una repubblica presidenziale.
Ciò che invece non suscita la minima sorpresa è l’accusa mossa direttamente da Erdoğan: nonostante la confessione del capo dell’Aviazione Turca Akin Ozturk, che si è attribuito la paternità del golpe, il Presidente non ha avuto il minimo dubbio nell’individuare il responsabile della rivolta in Fethullah Gülen, intellettuale, guida spirituale, politologo attualmente residente negli Stati Uniti.
Non è la prima volta che il leader del movimento Hizmet (letteralmente “servizio”, il movimento religioso e culturale fondato e guidato da Gülen) riceve accuse più o meno fantasiose dal suo storico avversario Erdoğan: nel corso degli anni Gülen è stato tacciato di essere, nell’ordine, una spia della CIA, un agente del Mossad, un imam dell’IS, perfino un “vescovo segreto” del Vaticano. Adesso anche un capo militare con abbastanza influenza da mobilitare gran parte dell’esercito turco.
Fethullah Gülen è indubbiamente una figura affascinante, una delle personalità islamiche più note e seguite al mondo: sunnita, predica, teorizza e insegna una forma di islam attento alle esigenze della società contemporanea, investe molto sul dialogo interreligioso e interculturale, condanna ogni forma di violenza e in modo particolare quella terroristica, lavora da anni alla formazione di un movimento culturale islamico che possa equivalere in qualche modo al Rinascimento europeo. Cosa c’è di tanto pericoloso in Gülen da portarlo costantemente nel mirino di Erdoğan? Oltre alle questioni personali (il leader religioso ha criticato più volte le palesi derive totalitariste del regime turco, avendole peraltro sperimentate in prima persona), Gülen, pur portavoce di un islam “moderato”, non si identifica in alcun modo con la concezione laicista del rapporto tra religione e vita pubblica che si è imposta in Turchia sul modello occidentale.
Gülen tenta di riportare la religione sulla scena pubblica, pur non puntando a una teocrazia: tra “laicità” e “laicismo”, tra tolleranza di ogni forma di religiosità ed esclusione di queste dalla sfera pubblica, corre una bella differenza. Per un progetto cripto-totalitario come quello di Erdoğan questo è indubbiamente pericoloso: se è vero che nella sua forma pervertita la religione è un eccellente strumento di asservimento delle masse, nella sua forma pura, slegata dai giochi di potere, è invece uno strumento unico di liberazione delle coscienze, almeno sul piano politico. Chi ha Dio come autorità suprema cui rispondere non si asservirà mai ad alcun uomo, fosse anche un dittatore (o un presidente plenipotenziario). Un islam come quello di Gülen, colto, in ricerca, che muove le coscienze e forma pensiero critico, che soprattutto è in grado di mobilitare un numero impressionante di seguaci (il movimento, transnazionale, è diffuso in 180 paesi e conta quasi otto milioni di membri), non può non essere visto come concorrenziale da parte di un potere temporale che punta all’assolutismo.
In Occidente siamo abituati a pensare lo scontro tra potere temporale e potere religioso in termini spesso manichei: da una parte il primo, baluardo della ragione e della sovranità popolare, dall’altra il secondo, cupo residuo di un medioevo della storia e delle coscienze, fatto di superstizioni che assoggettano lo spirito critico. Quello in atto in Turchia, però, è un confronto che potrebbe vedere i ruoli invertiti, con l’islam come unico baluardo di difesa alla libertà di coscienza e di pensiero. In caso le potenze occidentali pensino di agire, in un senso o nell’altro, farebbero bene a prepararsi a pensare fuori dai propri sistemi categorici.
Giacomo Mininni
[Immagine tratta da Google Immagini]