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Phronesis tra intellettuali e popolani

Era una notte chiassosa, sia fuori che dentro le mie stanze. Fuori la pioggia imperversava e dentro una riunione tra intellettuali scuoteva tutte le ragioni del mondo come tutte le mie certezze. Questi sedevano in una tavola rotonda e discutevano animatamente di come, ogni giorno, il cielo potesse essere così blu e di quanta terra ci fosse sotto ai piedi dell’umanità. Di come poter accelerare quel regolare deflusso del male attraverso l’eternità e di come poter enfatizzare un mondo umano fondato sul bene come ideale.

In questa surreale riunione, ricoprì il ruolo dello stenografo: registravo diligentemente e con pazienza i voli e le iperboli di ogni loro punto di vista. Parecchie furono le interruzioni. Ad esempio le sortite della vicina che veniva a lamentare il troppo chiasso. Bella e avvenente, ogni qual volta si presentava, riusciva a tenere le ragioni di ognuno entro un tot di decibel. Dopo udì per strada il fornaio, il pescatore ed il contadino, uno ad uno, lamentavano il clamore di quelle idee ed in ordine come note su un pentagramma, lanciavano sassi e screzi contro le finestre. Fu baraonda finché non venne anche un avvocato con dei gendarmi e così la legge richiamò all’ordine sia gli intellettuali che i popolani. Quella donna era ancora lì e la sola sua presenza bastava da deterrente ad ogni deriva: in quanto moglie dell’avvocato, desiderio del popolo, nonché prima fustigatrice degli intellettuali. Sapeva sempre come farsi ascoltare: semplicemente, alzando la gonna! Per buona pace di tutti, la facile avvenenza mise a tacere commi e schioppi.

Capì sin da subito che nonostante si parlasse di ragioni, la base da cui si partiva e il fine a cui bisognava arrivare era senz’altro l’emozione, alla Freud: l’eros. Mi venne in mente un simbolo: l’uroboro e pensai che questo roteante simbolo dovesse appartenere sia all’aristocrazia dell’intelletto che a quella dell’artefatto. Quindi pensai all’emotività di entrambe le compagini come ad un qualcosa che dovesse irrimediabilmente risiedere nel cuore e roteare, roteare, roteare senza mai fermarsi. Lo pensai come l’unica parte che non stava né dall’una né dall’altra parte; né col bene né col male. Come il sesso ed il piacere effimero d’intrecciare il proprio corpo con un altro: semplice, costante, eterno seppure stretto dai limiti di un tempo circolare.

La tempesta continuava a tuonare, il popolo del fare stava stretto stretto sotto le balconate del quartiere ed anch’esso tuonava; avvocato e gendarmi aspettavano il podestà, il governatore e persino il capo di stato ed ovviamente tuonavano anch’essi, anche se per il ritardo. Gli intellettuali presi gli uni dalle idee degli altri lanciavano fulmini e saette e scrosciavano elogi solo nel momento in cui la vicina brandiva gonna e mattarello. Che confusa bischerata!

Anche le ore continuavano a scorrere, da poco eran passate le quattro e ben presto vedemmo il cielo albeggiare e tingersi di quel blu decantato per tutta la notte dagli intellettuali e tutta la terra che ci stava sotto ai piedi, grazie alla luce del giorno, si poté minuziosamente quantificare. Ma con la luce gli intellettuali persero gli argomenti: tutto s’era compiuto, il cielo era blu, la terra era tanta e la luce rischiariva le tenebre della mente di intellettuali e compagnia bella. Con la luce, la logica si sposava perfettamente con la materia e tutti gli spiriti, così assolati, si riscoprirono cotti a puntino.

Maldestramente pensai che potessi finalmente andare a letto ed invece gli intellettuali videro il nuovo cielo ed iniziarono a dibattere sulle sfumature ed infine su di un nuovo imbrunire; della terra, che dal popolo verrà presto smossa, si ipotizzò che molta sfuggirà alla conta. Alcuni pensarono, che dopo una notte insonne avvocato, gendarmi, podestà, governatore e capo di stato fossero un tantinello stanchi e che il crimine avrebbe avuto la meglio sul popolo e sulla terra; che l’imbrunire del cielo, in realtà, fosse solo una metafora per descrivere al meglio quanto stava accadendo. Che il male fosse un bene ed il bene un male.

Ed io sbadigliavo, sbadigliavo alla grande e senza sosta. Davo il meglio di me e della mia disattenzione. Battevo errori, cambiavo verso e senso di ogni parola che udivo e così facendo, incoscientemente, rubavo dei sorrisi e del caffè alla vicina: per lei ero semplicemente un ragazzo alla mercé di quel tempo. Ero tenero.

Ben presto, tra un sorso ed un sorriso, la donna si sedette accanto a me e all’orecchio mi sussurrò:

“Sai? Sono stanca! Stanca di richiamare mio marito, l’avvocato. Egli passa più tempo con la legge e col potere che con me. Dimentica che lo richiamo all’ordine di altre leggi e di ben altro potere: quello del piacere. E che dire di questi intellettuali? Mi stimolano l’anima con i loro pensieri, il mio spirito si anela alla passione ma sarebbe sempre troppo chieder loro di toccarmi le cosce. Alcuni di loro sono carini, ma quanto discutere per una palpatina! Mentre il popolo, che mi toccherebbe volentieri e senza troppi convenevoli, non ha la grazia e nessuna parola dolce con le quali accompagnare il gesto: chiedo carne, ma ben condita. Tu invece che registri, che sbagli e che seppur nel rischio di essere ammonito dagli intellettuali o incarcerato dai gendarmi o malmenato da mio marito, strappi dal mio viso il sorriso e chiedi, senza indugio, ristoro. Sei coraggioso e meriti un premio: dimmi, adesso che tutti si son quietati dalla stanchezza, vorresti trasformare questa nuova e noiosa notte in una bellissima tempesta?”

Salvatore Musumarra

Fonte immagine: “Botticelli, pallade e il centauro 480” di Sandro Botticelli – I maestri del colore – 8 – Botticelli ; Fabbri 1963. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikipedia

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