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La danza di Paul Valéry: l’arte come agire danzante

Se si rimane ancorati al tradizionale significato del termine estetica, ogni forma artistica, dalla pittura alla musica, dall’architettura alla danza, è tale in quanto produttrice di opere. Le opere d’arte formano il mondo estetico e attorno a esso ruotano critici, artisti, interpreti, più o meno concordi sui diversi significati che esse esprimono.

Nel pensiero del poeta e filosofo francese Paul Valéry, questo tipo di estetica è destinato a perire per lasciare il posto a quella che Trione ha definito estetica della mente¹. Valéry ha scavalcato completamente l’idea di arte, arrivando addirittura a negarla per sostituirvi la poiesis, intesa come la materia stessa delle possibili operazioni dell’intelletto. Termini come imitazione, riproduzione più o meno fedele al modello, non hanno più alcun senso nel pensiero dell’autore, perché l’unica via di accesso all’arte è il fare. L’artista, sotto questo aspetto, non si distingue molto dallo scienziato, poiché entrambi mirano al potenziamento delle proprie facoltà, all’acquisizione di un potere. Ma, mentre lo scienziato contribuisce a un incessante avanzamento collettivo, l’artista è solo. Egli rappresenta l’uomo che si cerca e si scopre lungo il suo cammino in un susseguirsi di atti e movimenti continui. È il movimento, in definitiva, l’essenza di ogni essere vivente; ogni opera, ogni legge da esso elaborata, lungi dall’essere inutile, è comunque sempre superabile, dal momento che rappresenta un arresto temporaneo di un processo in fieri.

In una concezione dell’arte che sposta il baricentro dall’opera all’artista, la danza acquista un posto d’onore poiché, a differenza della poesia che si serve del linguaggio, essa unisce in sé i movimenti fisici con le rigide regole intellettuali, accorciando quella distanza ancora presente tra anima e corpo, tra materia e spirito. Non appena i nostri movimenti in dissipazione vengono afferrati dalle leggi ritmiche della mente, si assiste a una danza. L’arte tutta è danza. Per Valéry essa è la metafora perfetta per rappresentare la possibile guarigione dall’abuso del linguaggio intellettuale, perché fa parlare il corpo e l’intelletto insieme, mentre agiscono².  Un codice espressivo di gran lunga più libero perché staccato dai limiti che il bisogno di significati impone alla parola. Nessun significato per l’agire estetico, solo suoni, movimenti, musicalità.

Siamo a un livello di pura forma. Il contenuto è sempre temporaneo, vale solamente nel suo contesto, perciò nessuna generalizzazione è possibile. Ogni elaborazione artistica, ogni affermazione positiva deve essere paragonata a una posa della danzatrice. Per quanto bella e affascinante, ciò che conta è che non può durare più di un istante, poiché nell’istante successivo molti parametri sono cambiati. Non esiste alcuna verità da scoprire proprio perché la natura umana è instabile, è mutevole. Ciò che in questo momento può apparire vero, potrebbe non esserlo fra una decina d’anni. Mutano i parametri di riferimento, come mutano i tempi, le cose.

Cos’è allora che non muta? È questa la domanda fondamentale che Valéry si è posto lungo tutta la sua esistenza. Egli mirava a scoprire le leggi costanti del funzionamento della macchina umana e non quelle specialistiche e settoriali delle singole scienze. Contro la sterilità di un sapere nozionistico, Valéry sostenne per tutta la vita la necessità della ricerca, di un costante allenamento delle facoltà mentali per potenziare le proprie possibilità.

Ecco l’importanza dei suoi Cahiers (261 quaderni manoscritti), vera e propria danza di idee intorno alla nozione di uomo. Nessun sistema filosofico lo interessava poiché l’unico sistema possibile è l’assenza di sistema, ovvero una molteplicità di punti di vista, dove nessuno può ritenersi mai esaustivo. Valéry sembra voler dire ai filosofi: “Non cercate di capire la danza, imparate piuttosto a danzare!”. La filosofia deve essere un’arte, una danza di concetti e idee mai definitivi, ma instabili come lo sono le pose della ballerina. Solo in questo modo si capirà quant’è limitata un’unica posizione. Un filosofo che abbracci una teoria definitiva è paragonabile a una danzatrice ferma sulla stessa posa. È un mimo, non una ballerina. E l’imitazione è l’esempio concreto di qualcosa che, anziché attingere alla vita, serve solamente a bloccarla in un’unica forma.

 

Erica Pradal

 

NOTE:
1. Cfr. A. Trione, L’estetica della mente. Dopo Mallarmé, Bologna 1987.
2. P. Valery, Philosophie de la danse, conferenza pronunciata all’Università degli Annali il 5 marzo 1936.

[Immagine tratta da David Hofmann su unsplash.com]

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Erica Pradal

creativa, empatica, appassionata

Mi chiamo Erica Pradal e vivo a Barbisano, in provincia di Treviso. Laureata in Filosofia, da anni insegno Lettere alla scuola secondaria di 1° grado “G. Toniolo” di Pieve di Soligo e il contatto con i ragazzi mi arricchisce ogni giorno. Ho molte passioni, tra cui la lettura ad alta voce, che mi ha permesso […]

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