17 maggio 2017 Federica Bonisiol

Le parole chiave dell’Adunata degli Alpini

Città di Treviso, un caldo fine settimana di maggio, strade chiuse al traffico, più di 500 mila persone disseminate nelle vie del centro storico, tricolori ovunque. È il week end dell’Adunata Nazionale degli Alpini.

Un appuntamento giunto alla sua novantesima edizione, che per tre giorni ha cristallizzato la città facendo vivere la sua gente in un’atmosfera sospesa dalla solitaria e frenetica routine che caratterizza i nostri tempi. Un evento particolarmente sentito dalla popolazione, che ha risposto all’iniziativa con una partecipazione decisamente numerosa. Una manifestazione che mi ha sorpresa e affascinata, e che vorrei raccontare attraverso tre parole chiave; quelle tre caratteristiche che più mi hanno colpita e che mi hanno aiutata a capire il senso profondo di questa adunata.

Convivialità. Il clima di profonda festa e di profonda convivialità che faceva da tela alla manifestazione lo si poteva esperire appieno già a partire dal viaggio in autobus, indubbiamente il mezzo più agevole per raggiungere la città. Durante i tre giorni dell’adunata, gli autobus sono stati sovraccarichi di persone che molto probabilmente ne facevano uso per la prima volta; persone che non esitavano a scambiarsi informazioni sulla manifestazione; persone che, a differenza dei consueti passeggeri settimanali, condividevano i minuti del tragitto chiacchierando tra loro. E persone che si riunivano ad ascoltare i racconti di qualche passeggero dall’inconfondibile cappello con la piuma nera. Ebbene sì, onnipresenti nel territorio trevigiano, gli alpini non mancavano mai all’appello di narrare le loro esperienze più importanti. Impossibile relegarli al silenzio con timidezza: gli alpini volevano e dovevano parlare al loro pubblico. Hanno partecipato all’Adunata così numerosi per noi, e noi, se volevamo assistervi con autenticità, dovevamo saperci disporre all’ascolto, accettando con disponibilità e simpatia il pacchetto all-inclusive.

Ordine. Il senso dell’ordine e della disciplina caratteristico dei valori degli alpini, come si può ben immaginare, ha trovato la sua massima espressione nella sfilata domenicale. Sono stati 80mila gli alpini che vi hanno preso parte, provenienti da ogni parte d’Italia, e in alcuni casi anche dall’estero. Impossibile non sentirsi coinvolti dai sorrisi e dall’entusiasmo di quell’ordinato scorrere di uomini (e di donne: presenti, sebbene in minoranza) che procedevano a passo di marcia, trainati dalle musiche di bande e fanfare. La maestosa compostezza del corteo rispecchiava la geometria delle camicie a quadri, che tanto hanno riempito gli occhi degli spettatori. Un fiume che ha sfilato per tutta la giornata in città, sembrando una cosa sola, tanto era forte l’unione che lo disciplinava. Valori, quelli dell’ordine e della coesione, che al giorno d’oggi risultano in molti casi superati, complice la nostra volontà di essere padroni di noi stessi senza freni inibitori e senza la disponibilità ad accettare consigli o puntualizzazioni da quanti ci stanno attorno.

Forza d’animo. Considerato il sole cocente di questo fortunato fine settimana di primavera inoltrata, la presenza di alpini di una certa età non era affatto scontata. Eppure c’erano, ritti e fieri, malgrado le rughe sul volto, i capelli bianchi, la schiena ricurva e le gambe stanche. D’altra parte, la forza d’animo e la forza di sopportazione del sacrificio che hanno temprato le scorse generazioni non trovano di certo ostacolo in qualche chilometro da percorrere a piedi. Le maniche di camicia rimboccate per loro non sono un semplice modo di dire; sono piuttosto il naturale atteggiamento nei confronti della vita e delle sue avversità. Anche in questo caso, dovremmo essere capaci di prendere esempio da quanto è stato in passato: dovremmo farci forza, imparare a sopportare, imparare a ricucire e ricostruire. Dovremmo limitare la predisposizione all’usa-e-getta che ci è stata imposta dalla contemporaneità, la quale finisce inevitabilmente per influenzare anche le nostre relazioni e il nostro rapporto con gli oggetti di cui usufruiamo.

Ciò che è accaduto in passato non legittima quanto avviene nel presente; la quotidianità deve essere in grado di autolegittimarsi, di trovare in se stessa le sue ragion d’essere. Storia e memoria non vanno confuse; ma è altrettanto vero che la storia ha bisogno di essere tramandata e di far conoscere ai posteri i valori che l’hanno plasmata. «Se dal presente non viene alcuna sollecitazione a mantenere vivo il rapporto con il passato subentra negli individui e nei gruppi quella forma particolare della memoria che è l’oblio»1. E dimenticare, in storia, è tutto fuorché un atteggiamento morale.

Federica Bonisiol

NOTE:

1. Bruno Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino, Venezia 2016, pag. 57

 

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