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Non aver paura di chiamarti filosofo

Ammettiamolo, quante volte ci è capitato di provare imbarazzo nel presentarsi studiosi di filosofia a causa dello stigma sociale, economico e professionale cui il ruolo del filosofo oggi è destinato? Ma soprattutto quante volte ci siamo morsi la lingua prima di chiamare filosofo qualcuno, perfino un intellettuale già formato? Effettivamente — ci si racconta spesso fra sé e sé — filosofo è una parola forte, categorica. D’altronde — ci si continua a raccontare — l’immagine ideale del filosofo-tipo prevede un uomo, piuttosto invecchiato, ma anche bianco e, com’è ovvio, morto, meglio se molto tempo fa. Ebbene, ciò che mi preme tematizzare, non è tanto rispondere all’agognata, irrisolvibile domanda del “che cos’è la filosofia?”, quanto semmai tematizzare le ragioni, più o meno implicite, per cui si ha spesso un timore reverenziale o una sottintesa sufficienza quando chiamiamo filosofo qualcuno. Perciò non tanto o soltanto “che cos’è la filosofia?”, ma anzitutto e soprattutto “chi è il filosofo?”.

Della filosofia si sono offerte nel corso dei millenni innumerevoli formulazioni. Alcune sono più estensive e inclusive, altre più restrittive e selettive. Alcune rimandano alla vita concreta e pratica, mentre altre associano la filosofia allo status di scienza prima, scienza della verità. Da Platone e Aristotele fino a Nietzsche e Wittgenstein, passando per Montaigne, Cartesio e Heidegger, ogni nome del discorso filosofico si è abbandonato in definizioni sull’essenza della filosofia. Ma come si è detto ciò che qui si vuole trattare, quasi volendo imitare la rivoluzione copernicana di Kant, non è l’oggetto della filosofia quanto il suo soggetto, la voce attraverso cui e a partire dalla quale nessuna definizione sarebbe stata possibile. È proprio una delle tante definizioni della filosofia a dirci qualcosa di essenziale sul filosofo. A tal riguardo, senza nessuna volontà di cadere nel già sentito, va infatti ricordato ciò che sia l’ateniese Platone sia il suo massimo allievo Aristotele hanno detto, facendo propria la lezione attivistica di Socrate. L’uno nel Teeteto1, l’altro nel primo libro della Metafisica2, fanno luce sulla radice meravigliosa della filosofia: essa nascerebbe dal sentimento (pathos) che l’uomo prova di fronte a ciò che non conosce, dallo stupore (thaumazein) per ciò che è sempre stato davanti ai suoi occhi e che finalmente si è aperto a scoprire. Splendido o spaventoso che sia, il meravigliarsi dell’ignoto è un processo così poco lontano dalle nostre vite comuni che capiamo bene come la filosofia sia contemporaneamente qualcosa che non rimanda a una mistica fuga dal mondo, un’evasione dalla realtà che ci circonda; ma anche qualcosa che non impone un’illustre carriera di studi, eccellenti risultati accademici, una statura intellettuale senza precedenti. Lungi da me sostenere che non c’è differenza tra il bambino che si chiede chi siamo e da dove veniamo e un esperto di logica modale, voglio piuttosto sostenere che per quanto differenti per grado, essi non differiscono per natura: le domande inconsapevolmente esistenziali del bambino condividono il medesimo approccio filosofico del logico, abbracciano entrambe l’amore per la conoscenza, sono entrambe espressioni del medesimo filoso-fare.

Parafrasando le parole di un grande pensatore del nostro tempo, Umberto Galimberti, la filosofia è, molto prima e molto più che una scienza e un sapere, un atteggiamento e un agire. La filosofia si nutre di problemi a cui è facile non si riesca mai a dare una risposta; sorge nel dialogo, sia esso un soliloquio, sia esso un acceso confronto con l’altro; consiste nell’essere curiosi e critici di sé stessi, del prossimo e del mondo, non nell’avere nozionistiche informazioni da manuale. Significa sperimentare possibilità, ragionare e imparare; semplificare per complessificare, sviscerare problemi insoluti per crearne degli altri. Significa amare sapere, scoprire, fallire; inserirsi in uno sguardo più ampio, pensarsi insieme, in relazione, chiedersi il ‘che cos’è’ o ‘cosa fa’ delle azioni osservate, compiute o esperite. Significa, in ultima istanza, sospendere il giudizio quando necessario, sentire la responsabilità dei propri gesti, avere il coraggio di dubitare. In una sola parola, la filosofia è una disposizione, una faccenda morale e non per forza una questione epistemica, un conoscere.

Perciò, considerando la filosofia come quel sentimento qual è la curiosità, da cui principia un altro sentimento, il coraggio di uscire dalla propria minorità per pensare con la propria testa, al di là di lauree, convenzioni e sofisticati argomenti; il nome ‘filosofo’ andrebbe usato molto più spesso verso chi fa filosofia e al contempo meno abusato verso chi ha in mano una semplice pergamena, sa la filosofia. Non bisogna avere paura ma anzi, bisogna avere il coraggio di dirsi filosofi, oggi più che mai.

 

Nicholas Loru

Nicholas Loru, classe 1993, nato a Cagliari ma studia a Milano. Dopo il liceo classico si laurea triennalmente in Filosofia presso l’Università degli Studi di Cagliari con una tesi su Platone e le dottrine-non-scritte, anche se attualmente sta ultimando il suo percorso specialistico presso l’Università degli Studi di Milano Statale con un lavoro sulla filosofia del gioco nella cattedra di Human and Animal Studies. I suoi temi di riferimento spaziano dalla storia della filosofia alla filosofia morale, mentre nutre grande interesse per il pensiero antico, Nietzsche, la Scuola di Francoforte e il Postmoderno. Da qualche anno gestisce un profilo Instagram e un blog dal nome “FilosoficaMente” dedicato alla divulgazione del mondo filosofico, delle sue voci e opere, nella speranza che qualcuno si innamori della conoscenza com’è capitato a lui.

 

NOTE:
1 Platone, Teeteto, 155d.
2 Aristotele, Metafisica, I, 982, b 12.

 

Nicholas Loru

 

[Immagine tratta da Frank Vessia]

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