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Nello specchio: tra linguaggio letterario e cinematografico. Intervista ad Arturo Donati

Il 2018 è l’anno delle ricorrenze: centoventi anni, ad esempio, dal primo numero della rivista Ver Sacrum, fondata appunto nel gennaio 1898 come organo ufficiale della Secessione viennese e cento anni dalla morte dei principali fautori di questo movimento − quali Gustav Klimt, Otto Wagner, Egon Schiele, Koleman Moser − deceduti a causa della pandemia di influenza spagnola nel 1918.

«Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freit»: questo il celebre motto della Wiener Secession iscritto sul prospetto del Palazzo della Secessione di Vienna su suggerimento del critico Ludwig Hevesi. «A ogni epoca la sua arte, a ogni arte la sua libertà» dunque: la rivendicazione della necessità di svolte e di fratture rispetto al passato e dell’intrinseco bisogno di autonomia e di specificità proprie di ogni nuova Weltanshauung, in quanto per dare forma a un nuovo mondo – o per esprimere e interpretare un nuovo senso del mondo – sono inadeguati i modi e i segni superstiti del passato.

Le etichette critiche, inevitabili per tracciare l’andamento carsico dell’arte in senso lato, si situano sullo sfondo di un significato storico e, anzi, è in corrispondenza dei grandi eventi storici che assistiamo alla creazione di grandi movimenti artistici.

L’indubbia vitalità narrativa, quella smania di raccontare, per citare Italo Calvino nella Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno (1947), «un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero […] la capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio», concomitante la fine della seconda guerra mondiale, è stata registrata come “Neorealismo”. Calco dell’equivalente tedesco “Nuova oggettività” (Neue Sachlichkeit) − con cui si designa il movimento artistico sorto in Germania negli anni Venti come reazione all’Espressionismo – l’espressione “Neorealismo” viene applicata in Italia dapprima in ambito cinematografico per indicare la novità del film di Luchino Visconti, Ossessione (1943), tratto dal romanzo The postman always rings twice di James Cain.

«Come definire il neorealismo?»: foto-arturo-donatiquesta la domanda che Gilles Deleuze si pone in apertura del secondo tomo di Cinéma, L’image-temps (1985) nel primo capitolo Al di là dell’immagine-movimento. E inizia così, sfogliando le pagine deleuziane, l’intervista ad Arturo Donati, professore di filosofia, critico letterario, appassionato di Wittgenstein e di Cristina Campo.

 

Quale dinamica esiste secondo lei tra il neorealismo cinematografico e la scrittura neorealistica?

Innanzitutto intenderei il neorealismo in chiave simbolica, declinando cioè il “neo-” come la possibilità, conclusa, di un diverso rapporto tra l’uomo e le cose ‒ e non come modalità di vano recupero del pre-simbolico. Nel neorealismo cinematografico c’è stato un decisivo superamento della letteratura. Se lo scrittore lavora sul proprio immaginario e lo offre al lettore, il regista, invece, organizza la lettura dell’altro. Assistiamo quindi a una crisi metaforica nella proposta cinematografica intesa come tradimento della letteratura. Tuttavia, nel periodo di ricostruzione generale dei linguaggi successivo agli eventi bellici, lo smarrimento collettivo invoca la possibilità di immaginare la natura della crisi come esterna alla singolarità umana, cioè di cercare – per dirla con Jung ‒ un movente fuori di noi per la crisi del Novecento. L’allentamento del senso di comunità determina una perdita di sensibilità quindi un indebolimento del linguaggio letterario. I registi appaiono come i nuovi demiurghi che completano l’alterazione degli idola della letteratura. Per osmosi però si ricava un rigenerato bisogno di scrittura: si ritorna sempre all’uomo e si svela la deriva. Si pensi al Pasolini regista, che entra in crisi quando tenta di esprimere con il cinema più di quanto possibile con la scrittura. All’acme della sua pretesa esaurisce e smarrisce l’immaginazione diventando osceno (obsc/enum), con Salò o le 120 giornate di Sodoma, opera che segna la dissipazione ideologica del senso critico.

 

Secondo lei è preferibile un’opera d’arte totale, una Gesamtkunstwerk wagneriana, o – si potrebbe dire ‒ a ogni arte la sua specificità?

La domanda è immensa. Lapidariamente: considero la specificità un frammento rapito all’universale indiviso, unico l’occulto demone dell’arte, infiniti i fuochi fatui e le bellezze apparenti.

 

Deleuze parla di visioni estetiche e di oggettivismo critico a proposito di Antonioni: «In Antonioni il metodo della constatazione ha sempre questa funzione di collegare i tempi morti e gli spazi vuoti […] Quando tutto è stato detto, quando la scena principale sembra conclusa, vi è quello che viene dopo…». In che termini secondo lei la macchina da presa può essere usata in funzione simbolica, per constatare cioè e insieme suggerire?

In Deleuze c’è una lettura delle mutazioni interiori e quando scrive che il rapporto di stabilità con il reale è finito lo pensa in termini di linguaggio e di capacità di comunicazione. Antonioni è proprio il regista dell’incomunicabilità che con genialità fa riflettere sulla perdita del valore simbolico della parola. Quando viene meno la parola, la corporeità nel suo malessere somatizza l’impossibilità di un discorso comune e il malessere diventa simbolico. Il simbolo ci accompagna e, se il principio di realtà decadente è il dominio delle cose, il simbolo è la luce dentro la caverna che consente all’uomo di restare nella lettura orizzontale del reale di una storia − direi − senza avvenire. Il neorealismo, termometro della crisi, che l’intellettualismo alimenta, legge antonomasticamente il disagio quale nuovo principio di realtà. Antonioni, situandosi al di là della macchina da presa, compie una lettura radicale e verticistica della crisi, in bilico tra cinismo e compassione, consapevole di essere alla fine della linea di fuga. Il regista appare come nuovo esploratore narrante di un mondo orizzontale, custode di una liberazione esiliata nel privato. Talvolta si va infatti al cinema per vedere non una storia ma in ossequio al regista che denuncia nuove malattie in un clima di rassegnata partecipazione proprio della società del disagio, dove l’analisi disincantata della patologia sociale si accompagna alla frammentazione incosciente delle responsabilità personali. Antonioni è stato comunque un apripista in grado di costringere lo spettatore a pensare: dalla sua impietosa analisi del contemporaneo emerge una cultura profonda e il coraggio di uno sguardo sul mondo di cui la macchina da presa è anche il nuovo simbolo.

 

Parlando di psicoanalisi, nevrastenia e linguaggio, cosa ne pensa dell’affermazione di Lacan «L’inconscio è strutturato come un linguaggio»?

Wittgenstein direbbe che il linguaggio dell’inconscio non ha una grammatica. Non c’è una strada precostituita di uscita ma è lo psicanalista a fare un’indagine per entrare nella sfera interiore e trovare un punto di equilibrio. Il compito di chi indaga su se stesso non è però trovare risposte perché non c’è una chiave di lettura del pensiero, dell’interiorità poetica. Cerchiamo infatti la radice del pensiero che non è biologica né emotiva Nel proporre una logica di indagine in assenza di una logica interiore, la psicoanalisi propone una scansione, un viaggio, ma non un processo di conoscenza. L’analisi è una forma di accomodamento, la psicoanalisi instaura una metafisica senza essenza ed è una metodologia della preoccupazione dell’uomo, la cui vita quotidiana è ormai un ritirarsi nel privato. È questa – ahimè ‒ la nuova onda: il mondo orizzontale, il non attribuire valore al perché delle cose.

 

E quanto alla Nouvelle Vague in relazione al panorama italiano, in particolare al apporto tra Godard e Bertolucci: La chinoise e l’engagement oppure The Dreamers e un cinema sognante?

A me Bertolucci ha deluso con Novecento che pretende di leggere tutta la storia in un film insopportabile − tralasciando la bellezza delle immagini − e pretenzioso, sbrigativo e non problematico. I francesi forse sono troppo soggettivi, pretendono di soffrire più di tutti e di spiegare al meglio la sofferenza ma seguono almeno un principio di realtà in relazione a un soggetto non a un’ideologia: c’è sempre un soggetto attivo, anche se preponderante, le tranches de vie sono più credibili anche nell’ingenuità dei francesi di porsi sempre al centro.

 

Rimanendo nel panorama europeo, quali considerazioni sulla cinematografia di Bergman? E sul potere reversibile dello sguardo inteso come specchio al rovescio?

In bilico tra profezia biblica e mistica esistenziale, l’arte di Bergman impone lo specchiarsi nella verità della storia compiuta che sentenzia così l’uscita dal tempo. Il suo genio converte lo stupore infantile in dramma senile di un vecchio costretto a conoscersi sulla soglia della morte da una donna, fantasma evocato dalla memoria, come in Persona. Bergman spesso stringe il quadro fotografico sull’individuo e mostra un dolore forte e così soggettivo da raccontare quel che resta di umano in cui ancora riconoscersi. La vita è racconto di ricordi e compassione per lo smarrimento tra agonia del tempo e attesa di Dio, come in Il posto delle fragole. L’altezza di un regista fa così crescere la letteratura.

 

Regista e/o film preferiti?

 Di Bergman ho detto. Ho ammirato molto Federico Fellini per la sua capacità di andare controcorrente e di insistere sul perfezionismo degli artifici, denunciando indirettamente la tendenza retorica dei grandi registi del suo tempo. Ho vissuto una lunga amicizia con Gianfranco Draghi, psicanalista di scuola junghiana, che fu per il regista un consulente psicologico. Mi raccontò delle notti insonni dell’artista. La regia dell’interiorità ha un costo altissimo, il principio di verità della realtà nell’artista risiede nel profondo. Non si può raccontare un mondo reale se non dopo averlo artefatto totalmente – come riusciva a Fellini – e la deriva post moderna può essere raccontata magistralmente anche secondo il paradigma dell’uomo comune.  Non c’è un film che ho amato più di tutti, ma sedimenta nella mia memoria una galassia di scene che felicemente si coniugano con il mio vissuto.

 

Rossella Farnese

 

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