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«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute» (Il violoncellista Gōshu, Miyazawa Kenji)

A scuola si fantastica. Elémire Zolla precisa: «si è condannati a fantasticare» (Storia del fantasticare, 1964). Nelle classi piene di cartelloni, mattonelle, polvere di gesso; lungo i corridoi semideserti o invasi da improvvise quanto attese ricreazioni; nei giardini dove si corre, ci si afferra, si scava e più raramente si trova qualcosa; davanti alle macchinette del caffè o nell’ufficio del Dirigente Scolastico.

Ma nessuno fantastica impunemente, né a scuola, né da nessun’altra parte. È così, punto e basta. È così anche se nessuno ce l’ha mai detto. Come la gravità: funziona anche se non siamo d’accordo. Anche se nessuno ci ha mai fatto assaporare la differenza che corre tra fantasia e immaginazione. Anche se ci hanno riempito le orecchie di parole quali “creatività”, “ingegno” e via di seguito, come se sapessero di cosa si tratta. Si parla di “fantasia”, si chiacchiera di Arte, si finge di sapere cosa sia Poesia, dimostrando abilità, educando alla profondità (ma che sia straordinaria, nientemeno). Ma la vita è la verità. E la vita è Campanella che alza la mano. E «subito altri quattro o cinque scolari lo imitano. Anche Giovanni sta per farlo, ma la sua mano si ferma a mezz’aria» (Una notte sul treno della Via Lattea, Miyazawa Kenji). La verità delle cose piccole. La verità dei piccoli. La loro e basta.

Banalizzare la filosofia, idealizzare il bambino, mercanteggiare sul prezzo di un’attività che non ha prezzo. Si tratta di una pratica indispensabile, punto. Un momento tranquillo, durante il quale sedersi a inanellare pensieri colorati su fili resistenti ai rovesci della vita. Sono bambini è vero. Ma sono anche le persone più intuitive, suggestionabili, immaginative, divertenti e allegre del pianeta. Se non loro per primi, chi altro dovrebbe mettersi a riflettere su ciò che ci circonda? E sugli abissi e le vette che ci attraversano?

La filosofia coi bambini non si impara. Alla filosofia coi bambini si può venire semplicemente introdotti. La porta che affaccia sul giardino è socchiusa. Nessuno è lì ad aspettare. Varcando la soglia, da soli, si nota come ogni foglia, ogni rametto, ogni granello di polvere si trovi sistemato con cura. I bambini sono già filosofi. Ce lo ricorda Epicuro, di cui si narra che, piccolo, stanco dei maestri, si avvicinò all’arte marziale del pensiero.

Alla filosofia coi bambini si arriva percorrendo sentieri tortuosi di bosco. Ma anche lastricati semplici, autostrade. Quando poi la si osserva, è come vedersi spalancare davanti agli occhi la porta della camera dei tesori. Il filosofo è concentrato, presente. Le lusinghe lessicali, le belle frasi, le facili conclusioni non lo abbacinano mai, neppure di striscio. A lui interessa che l’arte venga praticata e che l’allenamento prosegua senza sosta. Anche perché di risultati in filosofia non v’è traccia e la più grande soddisfazione resta racchiusa, da sempre, nel dimostrare d’essersi irrimediabilmente sbagliati. Beato colui che dopo aver costruito con cura il castello di carte della sua conoscenza alla fine saprà ribaltarlo con un soffio di mano!

Filosofare, filosofeggiare. Che brutte parole. Star seduti a raccontarsi i propri pensieri, dentro bar o sale da tè. Primedonne che a poco a poco prendono la parola argomentando, anzi, filosofando sui perché, sulle cause (finali, semmai efficienti, di sicuro mai materiali). E il discorso che vira inesorabilmente sul vago. E vagheggia la giustizia, l’amore, l’amicizia, la lontananza, il sacro, il profano. Chiaroveggenti in fila per venire illuminati dalla grazia di un riflettore. Per non parlare di quanti, con la scusa di saper leggere una storia, s’improvvisano a far domande ai bambini. Nervosi personaggi, madonnari disabbigliati, apprendisti lanciatori di coltelli dalla punta arrotondata.

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute». È vero. Ma l’universo, pur obbedendo all’amore di quanti (e sono tanti) si spendono per un’estetica dell’insegnamento, andrebbe comunque sarchiato, innaffiato e liberato dalle foglie vizze. Il castello di carte cadrà, comunque, allo scoccare della prima risata sincera. Su questa certezza fondiamo il futuro e ci alleniamo a essere filosofi e maestri, attenti all’altrimenti e non paghi del quieto vivere.

Carlo Maria Cirino 

Filosofiacoibambini

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