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La lirica: un’eterna dicotomia

La prima volta in cui andai a vedere un’opera dal vivo, avevo circa poco più di dieci anni. Ero a Salisburgo, la “mia” prima opera fu il Don Giovanni di Mozart, opera che conoscevo a memoria, complice il lettore cd in macchina di papà.

Ero emozionata; finalmente mi sarei sentita davvero partecipe, finalmente le voci dietro ai dischi avrebbero avuto giustamente un volto, delle espressioni, delle movenze.

Aprirono il sipario: da lì iniziò una delle esperienze più belle della mia vita.

Voci, luci, colori; le arie non risuonavano più soltanto nella mia testa, erano presenti davanti a me, mi rendevano partecipe.

Che cosa significa vedere un’opera dal vivo?

La maggior parte delle persone potrebbe pensare che sia noioso, che ci si possa addormentare. Si sa, la musica classica e in particolare la lirica, al giorno d’oggi non sono alla moda, soprattutto tra i giovani. A teatro incontri quei “signorotti” che ci vanno solo per darsi un tono, molto spesso. Oppure ragazzi che suonano uno strumento e apprezzano il valore della musica, o ancora professori dei conservatori ovvero appassionati.

Insomma, ci va chi se ne intende troppo. E chi se ne intende troppo poco.

Nessuno ci va per curiosità, per capire quale sia l’aria che si respira durante un melodramma. Per vedere le espressioni, per sentire le emozioni contrastanti.

Vedere un’opera lirica è come intraprendere un breve viaggio. Per due ore o poco più raggiungi un’altra epoca, conosci nuovi personaggi, ti immergi nella loro dimensione.

Vorreste vivere come degli artisti parigini del 1830? La Boheme. Preferite una corte come quella di Mantova piena di feste e divertimenti del XVI secolo? Il Rigoletto. Volete fare un viaggio a Pechino nel “tempo delle favole”? Turandot.

Ogni opera è diversa, ogni opera ci proietta in mondi differenti, ci fa conoscere elementi sconosciuti e ci fa rivivere valori che già conosciamo.

Nell’opera c’è amore; quello puro, quello di due amanti, quello impossibile, quello non corrisposto, quello che non si dimentica, quello che ferisce, quello che rende felici.

Cosa c’è di più reale di una proiezione che ci sembrerebbe così distante da noi? Ciò che vedono gli spettatori non si limita ad entrare nei loro occhi, ma li cattura, rendendoli esposti alle percezioni che sentiranno.

Non è solo musica, il melodramma rappresenta un’estrema completezza. I personaggi sono individui normali, schiavi delle emozioni e delle loro paure; è proprio questo che ci fa sentire vicini a loro, il loro essere così ordinariamente sensibili.

Chi di noi non ha mai sofferto per le difficoltà che gli si sono presentate? Chi non ha pianto con urla strazianti? Chi non ha sorriso alle emozioni inaspettate?

Il finale del melodramma ci espone alla tragicità della vita, al dover accettare per forza che le cose sono tragicamente guidate da un destino, talvolta eccessivamente crudele, talvolta pesante come una lama della giustizia.

L’ora è fuggita,

 e muoio disperato…

 E non ho amato mai tanto la vita.

Tosca, E lucean le stelle

Cavaradossi, protagonista al maschile del melodramma pucciniano, intona una delle arie più famose e cariche di emotività della lirica.

Piango. Di emozione. Di gioia. Di empatia. Urla l’amore per la vita mentre sta morendo. Urla ciò che di bello ha vissuto mentre cerca di scordarlo per sempre. Muore emozionandosi, muore attaccato alla vita.

Ed è un po’ questo che ci insegna: l’amore per la vita.

Lì,davanti ad una delle scene finali, lo spettatore versa le poche lacrime che gli erano rimaste. Perché, anche lui, come chi è dall’altra parte del palco, si ritrova ad amare morbosamente la propria vita.

La lirica è anche un genere teatrale che ben si concilia con la Filosofia, perché fa riflettere sulla vita umana, sull’essere umano come creatura fragile, decadente-decaduta ma anche sull’eterna dicotomia uomo-donna: proprio su questo si concentra Adriana Cavarero, Docente di filosofia politica e visiting professor alla New York University, nel suo libro A più voci. Filosofia dell’espressione vocale.

Nella storia dell’Occidente le donne hanno sempre rappresentato la voce, il canto femminile, mentre gli uomini, come il filosofo, rappresentano la mente, l’intelletto e il concetto:

Nel mio libro cerco di fare una ricostruzione della storia della voce come una specie di controstoria rispetto alla ben più nota storia del concetto. Faccio quindi giocare, per così dire, la Sirena contro il filosofo. Le Sirene omeriche contro Platone. […]

La cantante d’opera invece, come noi sappiamo, canta parole e tuttavia canta parole che sono spesso incomprensibili proprio per via della tecnica del canto e canta parole che sono in determinate lingue. […]

Questo è un male? Non è un male perché di fatto ciò che conquista nell’opera è l’articolazione canora, la voce, e non invece le parole come contenuto. Quindi l’opera io la prendo a simbolo di una vittoria del fonico sul semantico, di una vittoria della vocalità sul concetto, che è anche una vittoria del femminile per così dire sul maschile. […]

In altri termini la voce come parte corporea, fisica, comunicativa della parola, può aiutarci a pensare di nuovo una centralità della parola nella politica che abbia a che fare con l’esporsi e il comunicarsi e lo stare in comunità di soggetti che mettono in gioco la loro unicità nelle sue profonde radici corporee uniche incarnate.

Presentazione di A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003.

La lirica, dunque, può farci riflettere sull’importanza che anche la forma può avere a discapito del contenuto, privilegiando le donne:

perché nella lirica le parole non contano? Quando madama Butterfly attacca «un bel dì vedremo» tutti sanno che canta amore e inutile speranza. Non importa quello che dice né se quello che dice è ridicolo. Così come non conta se le Violette e le Mimì, fanciulle destinate a morire di consunzione, vengono interpretate da donnoni matronali. Davanti allo spettacolo lirico l’ occhio del corpo e quello dell’ intelletto si fanno accecare dal piacere dell’ orecchio. In sintesi: l’ opera lirica è il trionfo del femminile?

 Il melodramma offre varianti di un unico schema: donna innamorata, poi tradita o beffata o impazzita, costretta a morire. Dando un’ occhiata alle protagoniste: Carmen è una zingara, Butterfly e Turandot creature esotiche, Violetta una poco di buono. Tutte le signore dell’ opera sono candidate a fine prematura. La povera Traviata non deve forse tirare le cuoia perché una fanciulla «pura sì come un angelo» possa sposarsi? Il copione è rigido: donne vittime, uomini carnefici. Eppure malgrado le situazioni balorde la voce nella sua unicità incanta ancora tutti. Insolito che in un’ epoca in cui domina lo sguardo venga dedicata tanta attenzione all’ orecchio. Nel mondo della lirica chi incarna la fonte di godimento massima? «La prima donna», naturalmente. E la «prima donna» è una definizione perfetta per indicare, come non manca di sottolineare Adriana Cavarero, anche e soprattutto e ancora la madre.

Donata Righetti, Corriere della Sera, 22 Aprile 2003

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]

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