“Il vino mi spinge, il vino folle, che fa cantare anche l’uomo più saggio e lo fa ridere mollemente e lo costringe a danzare e a tirar fuori parola, che sta meglio non detta” Omero, Odissea
La linea che separa il consumo di alcol come “mezzo di aggregazione” e l’abuso di questo che, molto spesso, sfocia in una vera e propria dipendenza, è molto sottile.
La cosiddetta “ombra di rosso” con gli amici esisteva anche quarant’anni fa, nelle osterie e nei locali più conviviali. Oggi è sostituita dallo spritz, identificabile quasi come un rito per i giovani: ritrovarsi a bere l’aperitivo è diventato un modo per vedersi, fare due chiacchiere, raccontarsi della propria giornata, farsi due risate. Il celebre happy hour è un momento dedicato al “gruppo”.
Ma questa situazione non è, di per sé, assolutamente un problema.
La vera questione nasce quando l’appuntamento divertente si trasforma in qualcos’altro.
Pur essendo io stessa una ragazza giovane a cui piace il divertimento e la condivisione in gruppo, la domanda che spesso mi pongo è: cosa cerca chi beve sempre fino a star male, ormai per abitudine?
Per l’adolescenza e le relative trasgressioni ci si è passati tutti: l’ubriacatura dei sedici anni ce la siamo presa, ogni tanto allegri lo diventiamo ancora; questo è accettabile.
Ma la routine al pronto soccorso del sabato sera? I genitori ignari o disperati che arrivano per i propri figli, vittime di incidenti perché ubriachi o addirittura in coma etilico?
Queste situazioni rappresentano il divertimento dato dall’alcol?
La linea, come dicevo, è sottile. Basta davvero poco perché il momento conviviale si trasformi in una grande tristezza. Qual è l’obiettivo?
Il desiderio di sparire, di non esserci. Perché quando passi il limite il corpo si stacca dal resto: il corpo rimane, il resto no.
La cosa più grave è che per molti questo avviene ogni sabato sera. Sempre il solito appuntamento.
Soltanto in questo modo ci si può divertire?
La bellezza di una passeggiata in piazza, del sedersi su una panchina a parlare con qualcuno, di andare al cinema, ad un concerto, a mangiarsi un gelato è preferibile rispetto all’essere dipendenti da qualcosa che, passato il momento di grande euforia, non lascia niente, se non – quando ci va bene – un gran mal di testa (se ci va bene).
Bere al solo scopo di ubriacarsi, il cosiddetto “binge drinking”, è uno stile di consumo che sta diventando popolare fra i giovani, anche secondo i dati dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Consiste nel bere cinque o più bevande alcoliche in un’unica occasione, lontano dai pasti e in genere nel fine settimana, con lo scopo di sentirsi più disinvolti e più sicuri di sé.
Gli incidenti causati dall’alcol sono all’ordine del giorno e possiamo leggerne sui giornali, vederli negli spot e nei video dal Ministero della Salute, notare come dottori ed esperti organizzino incontri nelle scuole per prevenire il fenomeno, per riuscire a dare una possibilità in più di conoscere i danni riguardanti l’abuso di questa sostanza. Sappiamo con certezza che l’uso di alcol può avere effetti di ampia portata sul cervello, dal semplice vuoto di memoria a una condizione permanente di debilitazione.
Tutti noi giovani abbiamo dei sogni, dei progetti per il futuro; tutti speriamo di essere qualcuno, di realizzarci. Ma in che modo se non riusciamo a prenderci cura nemmeno di noi stessi?!
Ci preoccupiamo molto dell’aspetto fisico, di come ci vestiamo; vogliamo apparentemente essere sempre in perfetta forma: e allora perché ci si riduce così?
Ci si rovina le serate, ci si rovina non soltanto la nostra vita, ma anche quella di chi ci sta intorno, di chi ci vuole bene e di chi crede in noi.
Non è ubriacandosi ogni sabato sera, al solo scopo di divertirsi ed essere meno impacciati che si diventa qualcuno.
Ho letto recentemente la testimonianza di un ragazzo ex-alcolista e tossicodipendente; alla domanda “Cosa ti piaceva davvero nel periodo della tua dipendenza?”, ho trovato la risposta disarmante:
“Ascolta, a me piaceva collassare. Era diventata un’abitudine come vomitare di continuo. Zero problemi. Vomitavo e collassavo. E stavo da Dio”.
Che speranza c’è per queste persone? Sembrano casi distanti da noi, eppure ce ne sono in numero sempre maggiore e si avvicinano sempre di più. Lui ne è uscito, ma qual è stata la molla che è scattata, che ha fatto scaturire in lui il desiderio di uscirne?
“Avevo un sacco di problemi al fegato, continue emicranie, non riuscivo a instaurare relazioni con le persone. Un discorso serio non ero capace di farlo, avevo perso la mia ragazza, la mia famiglia, i miei amici, i soldi, un sacco di soldi buttati, un sacco di debiti perché volevo sempre di più. E’ stato allora che ho pensato di curarmi. Fino a quel punto non mi passava neanche per la testa, figurati! Guidavo anche la macchina senza problemi, pure quando ero pieno come un uovo. Un giorno mi hanno fermato e mi hanno tolto la patente. Ero bloccato, non potevo andare da nessuna parte. Ero completamente isolato dal resto del mondo. E’ stato lì che ho deciso di andare in ospedale. E a forza di Etiltox e altri veleni ce l’ho fatta. Sono quattro anni che sono pulito da quando avevo sedici anni, la prima sbronza.
Con la sobrietà inizia una nuova visione del mondo.
L’ultima cosa, la più urgente che mi sento di dirti da ex-alcolista (ma questo vale per tutte le dipendenze) è che di alcolismo si muore, se non si smette di bere, per sempre. Se esiti, se pensi che prima o poi ce la farai da solo, o con l’aiuto del tuo grande amore o della tua dedizione, ti sbagli: perché l’alcol è più forte, e poi ripeto, è una malattia”.
Tornando al punto da cui siamo partiti, non è lo spritz quindi. Non è la birretta con gli amici. Non è il bicchiere in più.
Perché, avendo coscienza, ci si rende conto di quando è il momento di fermarsi.
Il problema si presenta nel momento in cui manca la coscienza: non si capisce più niente, il voler “essere come tutti gli altri” diventa più importante dell’ “essere me stesso”.
A quel punto la linea viene superata. A quel punto, si cade.
Rossella Zatta
19 anni, Noale (VE). Mi sono diplomata nel 2013 presso il Liceo Classico Elena Corner di Mirano e attualmente studio Mediazione Linguistica presso il Campus Universitario CIELS di Padova. Adoro la musica e il teatro in tutte le sue forme, amo la letteratura e le lingue, sia antiche sia moderne. Scrivo articoli di attualità per giornali locali e sono parte della redazione del giornale parrocchiale.