4 febbraio 2015 Sara Roggi

Le temps qui nous crée

 

L’orologio, il dio sinistro, spaventoso e impassibile,

ci minaccia col dito e dice: Ricordati!
I Dolori vibranti si pianteranno nel tuo cuore
pieno di sgomento come in un bersaglio;

il Piacere vaporoso fuggirà nell’orizzonte
come silfide in fondo al retroscena;
ogni istante ti divora un pezzo di letizia
concessa ad ogni uomo per tutta la sua vita.

Tremilaseicento volte l’ora, il Secondo
mormora: Ricordati! – Rapido con voce
da insetto, l’Adesso dice: Sono l’Allora
e ho succhiato la tua vita con l’immondo succhiatoio!

Prodigo! Ricordati! Remember! Esto memor!
(La mia gola di metallo parla tutte le lingue).
I minuti, mortale pazzerello, sono ganghe
da non farsi sfuggire senza estrarne oro!

Ricordati che il tempo è giocatore avido:
guadagna senza barare, ad ogni colpo! È legge.
Il giorno declina, la notte cresce; ricordati!
L’abisso ha sempre sete; la clessidra si vuota.

Presto suonerà l’ora in cui il divino Caso,
l’augusta Virtù, la tua sposa ancora vergine,
lo stesso Pentimento (oh, l’ultima locanda!),
ti diranno: Muori, vecchio vile! È troppo tardi!

(L’ Orologio, da Spleen et Idéal, Charles Baudelaire)

Che cosa resta della nostra esistenza se il tempo è il “giocatore avido” che, passando, svuota gli istanti del loro senso proprio?Come può la velocità valorizzare dei momenti che passano incessantemente secondo un ritmo incontrollabile, senza quasi avere la coscienza di averli vissuti a pieno? Dove siamo mentre il tempo scorre?

L’abisso ha sempre sete, la clessidra si svuota, sostiene Charles Baudelaire in questi versi di una musicalità inestimabile.

Più i giorni passano, più c’è qualcosa di noi che scompare.

L’abbiamo forse perduto per sempre, oppure, al contrario, esiste per caso nel profondo qualcosa che resta sempre lo stesso, impassibile anche allo scorrere dei giorni e che ci segna?

Derrida aveva chiamato con il termine traccia il risultato di un processo di differenziazione sempre attivo e dinamico che può essere considerato come il prodotto mai definitivo delle traduzione delle parole che si produce continuamente durante i secoli.

Infatti, malgrado le parole siano sottoposte ad un contesto socio-culturale ben preciso, bisogna ammettere l’esistenza di un elemento fisso e costante, ovvero, una sorta di essenza che costituisce questa traccia effettiva di ciò che resta del tempo passato.

Questo è quindi il significato della différance derridiana che, attraverso il gioco che può essere realizzato allo scritto sostituendo la vocale “e” con la vocale “a”, elabora letteralmente una “differenza” che si scrive e si legge, ma che tuttavia non si pronuncia. Questo sostantivo riproduce perfettamente l’azione del differire, senza compromettere il valore intrinseco di questa differenziazione. Per questa ragione, secondo Derrida, c’è sempre qualcosa che passa, ma che al tempo stesso tempo resta e si concretizza nella presenza.

È la stessa presenza che Sant’Agostino aveva trattato nelle sue Confessioni, in particolare nel libro XI , capitolo 20.

Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente dei presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l’espressione abusiva entrata nell’uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire.

È giustamente nella presenza soggettiva infatti che resta una traccia che non potrà mai sparire.

È questa la dimensione incosciente della soggettività umana che dovrebbe semplicemente affrontare la perdita vissuta, le sue fratture e imperfezioni.

Più il tempo passa e più passa velocemente, più dobbiamo renderci conto che abbiamo delle fragilità che ci caratterizzano e che ci rendono la persona che siamo.


Testo tradotto in Francese

Horloge ! dieu sinistre, effrayant, impassible,
Dont le doigt nous menace et nous dit : ” Souviens-toi !
Les vibrantes Douleurs dans ton coeur plein d’effroi
Se planteront bientôt comme dans une cible,

Le plaisir vaporeux fuira vers l’horizon
Ainsi qu’une sylphide au fond de la coulisse ;
Chaque instant te dévore un morceau du délice
A chaque homme accordé pour toute sa saison.

Trois mille six cents fois par heure, la Seconde
Chuchote : Souviens-toi ! – Rapide, avec sa voix
D’insecte, Maintenant dit : Je suis Autrefois,
Et j’ai pompé ta vie avec ma trompe immonde !

Remember ! Souviens-toi, prodigue ! Esto memor !
(Mon gosier de métal parle toutes les langues.)
Les minutes, mortel folâtre, sont des gangues
Qu’il ne faut pas lâcher sans en extraire l’or !

Souviens-toi que le Temps est un joueur avide
Qui gagne sans tricher, à tout coup ! c’est la loi.
Le jour décroît ; la nuit augmente, souviens-toi !
Le gouffre a toujours soif ; la clepsydre se vide. 

Tantôt sonnera l’heure où le divin Hasard,
Où l’auguste Vertu, ton épouse encor vierge,
Où le repentir même (oh ! la dernière auberge !),
Où tout te dira : Meurs, vieux lâche ! il est trop tard ! 

(L’Horloge, de Spleen et Idéal,  Charles Baudelaire)

Qu’est ce qu’il reste de notre existence si le temps est le joueur avide qui, en passant, vide les instants de leur sens propre ? Comment la vitesse peut-elle valoriser des moments qui passent incessamment dans un rythme incontrôlable sans presque en avoir pleinement conscience ?Ou sommes-nous alors que le temps coule et glisse ?

Le gouffre a toujours soif, la clepsydre se vide, soutient Charles Baudelaire dans ces vers riches d’une musicalité inestimable.

Plus les jours passent, plus il y a quelque chose de nous qui disparaît.

Est ce qu’on l’a perdu à jamais ou, au contraire, est ce qu’il existe dans la profondeur de l’âme quelque chose d’immutable qui reste toujours le même, impassible aussi au fuir des jours et qui nous marque?

Derrida avait nommé avec le terme trace le résultat d’un processus de différenciation toujours actif et dynamique qui peut être considéré aussi comme le produit jamais définitif d’une traduction des mots qui se manifeste continuellement pendant les siècles.

En effet, malgré que les mots soient soumis à un contexte socio-culturel bien précis, il faut admettre l’existence d’un élément fixe et constant, c’est à dire une sorte d’essence, qui constitue cette trace effective de ce qui reste du temps qui passe.

C’est ça donc la signification de la différance derridienne qui, à travers le jeu qui peut être réalisé à l’écrit en remplaçant la voyelle « e » par la « a » , élabore littéralement une « différence » qui s’écrit et qui se lit mais qui ne se prononce pas. Ce substantif reproduit parfaitement l’action de différer, sans compromettre la valeur intrinsèque de cette différenciation. Pour cette raison, selon Derrida, il y a toujours quelque chose qui passe, mais aussi qui, au même temps, reste et qui se concrétise dans la présence.

C’est la même présence que Saint Augustin avait traité dans ses Confessions, en particulier dans le livre 11, chapitre XX :

Or, ce qui devient évident et clair, c’est que le futur et le passé ne sont point ; et, rigoureusement, on ne saurait admettre ces trois temps : passé, présent et futur ; mais peut-être dira-t-on avec vérité : Il y a trois temps, le présent du passé, le présent du présent et le présent de l’avenir. Car ce triple mode de présence existe dans l’esprit ; je ne le vois pas ailleurs. Le présent du passé, c’est la mémoire ; le présent du présent, c’est l’attention actuelle ; le présent de l’avenir, c’est son attente.

En effet, c’est justement dans la présence subjective qu’il reste une trace qui ne pourrait jamais disparaître.

C’est ça la dimension inconsciente de la subjectivité humaine qui devrait tout simplement faire face à la perte vécue, à ses failles et ses imperfections.

Plus le temps passe et le plus il passe vite, le plus on doit se rendre compte qu’on a des fragilités qui nous caractérisent et qui nous rendent la personne qu’on est.


Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Immagini]

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