Per rilevare la temperatura che indichi lo stato di benessere o malessere di un paese non sempre è sufficiente servirsi dei termometri del mercato e della finanza che si basano sui dati del PIL, sul volume degli acquisti e sull’indice dei consumi. Talvolta, sarebbe più interessante muovere da indicatori di natura culturale. Il primo e più importante riferimento in questo senso è lo stato dell’arte della scuola. Teoricamente la prima e più importante istituzione di un paese che ambisce a definirsi democratico. In Italia, di fatto, la più marginalizzata. Lo stato di malessere della scuola italiana non è certamente una patologia acuta, recente. Il cancro che la paralizza è un male cronico che si trascina da moltissimo tempo. Venti, forse trent’anni, nei quali il paziente che più di tutti dovrebbe essere stato accudito e curato è stato invece completamente dimenticato e fiaccato da riforme esito di incompetenza e incapacità di lungimiranza. Il messaggio che emerge, da diverso tempo a questa parte, è quello di una scuola che non conta più nulla.
Non considerata dai politici e dal legislatore, finisce per perdere di valore e riconoscimento nei più diversi strati sociali. L’edilizia scolastica pressoché stagnante ci regala edifici vetusti e in molti frangenti fatiscenti. Gli insegnanti – un tempo professione ampiamente riconosciuta e rispettata – sono umiliati e frustrati per remunerazioni inadeguate e per l’impossibilità di accedere in maniera chiara e lineare al loro ruolo, spendendo le proprie competenze e capitalizzando i sacrifici economici e di studio di una parte considerevole della loro vita. I rilevamenti statistici ritraggono un crescente abbandono scolastico e un sensibile calo nelle iscrizioni alle più diverse facoltà universitarie. Non v’è da stupirsi. Il tutto è la logica conseguenza di una mala gestione dell’intero apparato dell’istruzione e della formazione che ha segnato la propria rovina anni addietro e, diabolicamente, continua a perseverare con riforme pasticciate e interventi più propagandistici che funzionali. In un siffatto scenario, dove gli insegnanti si trovano a lavorare sempre più spesso in un contesto precario, umiliante e decadente, gli studenti appaiono sempre più svogliati e demotivati. Fra questi, i più fragili sono quelli che ne pagano il prezzo più alto. Tutto questo è il riflesso di un discorso sociale e politico che, bistrattando la scuola da decenni, misconosce il valore imprescindibile dell’educazione e della cultura. È l’esito, infausto, di una comunicazione di massa che premia veline, soubrette, calciatori, influencer e youtuber, piuttosto che valorizzare, remunerare adeguatamente e così riconoscere coloro che con dedizione e sacrificio hanno dedicato e magari, eroicamente (sic!) continuano a dedicare la loro vita allo studio e alla ricerca, non tanto per loro esclusivo interesse personale, ma in vista dell’interesse collettivo.
La scuola presenta lesioni profonde, decisamente preoccupanti, in tutto il suo immenso e articolato corpo. Viene da chiedersi quale possa essere non solo il presente ma piuttosto il destino di un corpo così malato. Che ne può essere di una istituzione alla quale, anno dopo anno, riforma dopo riforma, sono stati appesi legacci burocratici soffocanti e limitanti il suo movimento e le sue espressioni? Che ne è di un corpo al quale sono state cinicamente tagliate le risorse? Forse, se non è già morta, la scuola sopravvive, tira a campare. Se l’attenzione nei confronti dell’istruzione emerge solo per opportunismo propagandistico nelle stagioni elettorali e, una volta girato l’angolo dei seggi, ci se ne dimentica, allora il messaggio è chiaro: non curarsi seriamente dell’istituzione scolastica significa che i governanti non credono nell’importanza della cultura che, principalmente a scuola, deve essere trasmessa, incentivata e difesa.
I motivi per argomentare in favore dell’importanza di un’istituzione scolastica che funzioni al meglio sono molteplici e molti affondano le proprie radici nelle straordinarie civiltà che ci hanno preceduti, quella ellenistica su tutte, e ai periodi storici, l’Umanesimo e il Rinascimento in particolare, che hanno inondato di cultura, genialità, innovazione, pensiero e bellezza soprattutto il nostro bel Paese. Senza scomodare ulteriormente questi presupposti e ricollocandoci nel presente dobbiamo sottolineare, privi di ogni retorica, che dalla scuola passa il futuro del Paese poiché ragazzi e ragazze saranno uomini e donne che avranno a loro volta la responsabilità adulta di operare scelte individuali e collettive tese al bene comune, nella direzione dell’interesse, della crescita e della promozione umana. In un mondo che cambia repentinamente, la scuola è necessaria per fornire competenze che permettano di orientarsi nella complessità della conoscenza e dell’informazione. In una civiltà che sembra sgretolarsi sotto i colpi dell’assenza di etica è ancora una volta essenziale la scuola che, a partire dalle fondamenta poste dalle famiglie, educhi ai principi primi del rispetto sacro della vita dell’altro nella sua unicità e irripetibilità e al valore della conoscenza. Una scuola che, proprio in una società assuefatta di informazioni e verità a buon mercato, educhi all’esercizio del pensiero critico, che diviene esercizio di libertà interiore che si riverbera anche nelle scelte esteriori.
Trascurare la scuola significa cedere il passo ad un abissale vuoto culturale. Lo aveva denunciato con lucidità Pier Paolo Pasolini, ormai quarantacinque anni or sono, riflettendo sul fenomeno dilagante della droga consumata dai giovani e intuendo quanto essa fosse un vero e proprio surrogato della cultura1. Il vuoto lascia spazio alla disgregazione, alla distruzione, alla pulsione di morte. Gli esiti sono infausti e disfunzionali per il singolo e per la collettività. È il crepuscolo di una nazione.
Se vogliamo tutelare il presente del nostro paese e il suo futuro dobbiamo iniziare occupandoci della formazione culturale dei più giovani e questo può avverarsi in primis attraverso la scuola, agenzia culturale ed educativa per eccellenza. Istituzione che preserva l’incontro umano, le relazioni, l’importanza del libro, della lettura e dello studio per l’apertura di nuovi mondi e più ampi orizzonti, nonché l’abitudine al pensiero autonomo. Per questi e molti altri motivi, non dobbiamo forse salvaguardare la scuola, ridonarle l’attenzione che merita se vogliamo tutelare la nostra civiltà aiutandola a progredire, anziché rimanere spettatori inermi dinanzi alla regressione antropologica tragicamente testimoniata dalle cronache quotidiane?
NOTE:
1. Cfr., P. P. PASOLINI, La droga: una vera tragedia italiana. In Lettere luterane, Garzanti, Milano, 2009, pp. 97-104.
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