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La rischiosa esigenza del Fantastico

Che cos’è “Fantastico”? Una semplice qualità o un concetto più complesso? Fantastico è soltanto un aggettivo di valore con cui descriviamo qualcosa di particolarmente piacevole come una situazione, un sentimento, un oggetto, un desiderio esaudito? Fantastico è solo il meraviglioso mondo frutto della fantasia e dell’immaginazione?

Sicuramente è tutto questo, ma non solo: il fantastico può essere anche la nostra rovina, il nostro bisogno più pericoloso, la nostra esigenza più rischiosa.

L’accezione di fantastico che rimbalza nei miei pensieri qualifica questo concetto come una alternativa alla realtà. Un’alternativa che, per definizione, è tutt’altro che disponibile ed accessibile. Un’alternativa che mi pare venga ricercata e desiderata, in modi diversi, in quanto rappresentante illusoria di un’evasione da quella realtà che è percepita negativamente come chiusura, costrizione, limitazione, e che dunque è considerata incapace di realizzare l’essere degli individui.

In effetti, è sufficiente pensare per un attimo al clima sociale, politico, ma anche culturale nel quale siamo chiamati a vivere. Il peso della quotidianità si fa sentire! Ora, non è mia intenzione enfatizzare le critiche che costantemente vengono indirizzate verso le strutture della nostra realtà socio-politica perché non sono questi il momento e il luogo opportuni, ma d’altro canto non si può non constatare che sono sempre di più le persone che all’interno delle trame del nostro presente si sentono imbrigliate, soffocate e talvolta tradite. La realtà è dura, ci spaventa, e a volte vorremmo soltanto tentare di fuggire per evitare i suoi vincoli.

I percorsi e gli stili di vita intrapresi per evadere dal quotidiano assumono diverse manifestazioni.

Alcuni possono dirsi efficaci, nel senso che riescono nel tentativo di far vivere l’individuo in uno stato di idealità almeno apparente: penso all’ostentazione della ricchezza, al circondarsi di momenti di divertimento e svago talvolta estremi, alla necessità di raggiungere mete lontane o mondane per le ferie.

Altri percorsi, invece, non riescono in tale obiettivo e finiscono tristemente per testimoniare il malessere personale degli individui, il loro senso di inadeguatezza, il bisogno di colmare una carenza di qualunque natura essa sia: penso al bullismo, alla tossicodipendenza, ai disturbi alimentari, alla volontaria ricerca di situazioni di pericolo, piuttosto che ai problemi di socialità che con l’era dei social network accentuano talvolta irreparabilmente le piccole e naturali insicurezze dei più giovani.

Tutti questi comportamenti mi sembrano accomunati dalla stessa motivazione di fondo: quella di sentirsi unici e veri artefici del proprio destino; quella di sentirsi liberi dalle preoccupazioni e dai vincoli della realtà. L’obiettivo? La ricerca di quel “fantastico” che viene desiderato in quanto tale, in quanto opposizione alla cruda realtà quotidiana. Da questo punto di vista ciascuno di noi sembra essere indirizzato, più o meno inconsciamente, verso ciò che non è, verso ciò che per definizione non può essere ottenuto, il quale, infondo, è desiderato proprio per questo contraddittorio motivo: ovvero per il fatto che non beneficiando della caratteristica dell’entità, non potrà mai essere posseduto.

Siamo alla ricerca di un altro modo di essere noi stessi, e sebbene non siamo in grado di sapere se ciò sia realizzabile o meno, muoviamo comunque alla sua rincorsa, insoddisfatti della nostra condizione attuale. Siamo predisposti a quell’idealità di cui tanto parlava Platone, ma a cui personalmente, per quanto anch’io la possa desiderare, non ho mai creduto per più di mezzo minuto. Ciò che ci scuote è quella belva della nostra insoddisfazione esistenziale!

Nel suo testo Il mondo come volontà e rappresentazione Arthur Schopenhauer scrive:

«Ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza del proprio stato; è dunque, finché non sia soddisfatto, un soffrire. Ma nessuna soddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere. Il tendere lo vediamo sempre impedito, sempre in lotta: è dunque sempre un soffrire. Non c’è nessun fine ultimo al tendere dunque nessuna misura e nessuna fine al soffrire».

Eppure, per trascendere la nostra insoddisfazione, la nostra scontentezza, il nostro tendere irreparabilmente destinato alla sofferenza, sarebbe sufficiente un così piccolo cambiamento in noi. Tanto piccolo, quanto profondo. E, dunque, decisamente troppo difficile!

Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google Immagini]

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