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La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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