12 aprile 2016 Massimiliano Mattiuzzo

La disumanizzazione ieri e oggi

Lunedì sono andato al cinema: “Race – il colore della vittoria”. Parla delle vicende di J. Owens, corridore afroamericano che partecipò ai giochi olimpici del 1936 a Berlino sotto il regime Nazista. Vinse quattro medaglie d’oro e diventò un simbolo della lotta alle ideologie razziste dell’Hitlerismo ma anche interne agli USA. La storia è molto curiosa e ricca di spunti interessanti; tra questi, uno che mi ha colpito e fatto riflettere è il processo di disumanizzazione perpetrato dal Nazismo che tanto sconvolge e del quale non si parlerà mai abbastanza.

La riflessione di H. Arendt nell’opera “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” punta l’attenzione anche su questo aspetto. È una delle possibilità più spaventose che l’uomo possa produrre: com’è possibile che si possa considerare un’altra persona non umana? Perché è proprio questo che permetteva ai nazisti di compiere i loro crimini. Non stavano uccidendo una persona, ma un animale. Non stavano eliminando delle vite, ma liberando il Paese da un’infestazione. Non stavano compiendo sperimentazioni contro qualsiasi etica o diritto, perché i pazienti non erano degli uomini.

Cosa avremmo fatto noi in quegli anni se ci fossimo trovati immersi in quel clima?

Avremmo osato morire per difendere una persona che magari neanche conoscevamo e che sarebbe comunque stata uccisa dopo di noi?

Avremmo rischiato la morte per proteggere degli sconosciuti invece di incassare una ricompensa per la loro denuncia?

Insomma: ci saremmo fatti anche noi contagiare dalla banalità del male, che permette di mettersi il cuore in pace spegnendo il cervello?

Eichmann, infatti, ha introdotto il pericolo dell’irriflessività: una massa di uomini normali – la stessa Arendt definisce così Eichmann quando lo vede e lo ascolta a Gerusalemme – che compivano azioni mostruose. È il trionfo della follia, spacciata per legge e “giustizia”. Il contesto ideologico all’interno del quali si era inseriti conferiva agli uomini nuove categorie di interpretazione del reale. Un gesto che prima poteva ripugnare diventava semplice e normale – anzi – forse addirittura doveroso.

Non è un discorso astratto, perché la situazione si sta ricreando – per alcuni già ha preso il sopravvento – proprio qui, in Italia. Certo, magari sono cambiati i toni (basta fare un giro su Facebook per rendersi conto che non è proprio così); forse il risultato che si vuole ottenere è diverso (idem); potrebbe darsi che questa volta si risparmino almeno i bambini (l’immagine di quel corpicino disteso inerme sulla spiaggia dovrebbe essere ancora fresca nelle nostre menti), ma il bersaglio rimane sempre lo stesso: un capro espiatorio che incarni tutti i problemi del Paese e contro il quale scagliarsi sottraendogli lo statuto di persona. La crisi migratoria ha messo in luce le reali difficoltà dell’Unione Europea nel corso degli anni, e l’accordo con la Turchia entrato in vigore il 4 Aprile ne ha sancito il fallimento. Come si può pensare che il rimpatrio in Turchia sia una scelta corretta e soprattutto etica nei confronti dei profughi? In ogni caso, la chiusura della rotta Balcanica ha riportato l’Italia a meta privilegiata di chi fugge, complicando ancora di più la nostra già precaria situazione.

I numeri dell’ondata sono impressionanti: secondo l’Unhcr – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – nei primi tre mesi del 2016 in Italia sono arrivate 18.400 persone. Nel 2014 l’Is ha incassato circa trecento milioni di dollari dal traffico di esseri umani secondo un rapporto della Global iniziative against trasnational organized crime. Tom Keatinge del Royal united services institute afferma – però – che “non è l’Is a gestire il traffico, ma tassa chi lo fa”. «Più che la minaccia del gruppo Stato islamico, l’impegno del governo italiano è dovuto all’urgenza di fermare i migranti e tutelare l’interesse dell’Eni» queste le parole di Alberto Mucci, ripreso dal settimanale “Internazionale” riguardo all’impegno italiano in Libia. Il petrolio. Sembra inconcepibile che di fronte alla tragedia che si sta compiendo anche in questo preciso istante l’interesse sia rivolto a quel maledetto liquido nero. Eppure «[…] in Libia l’Italia ha già grandi interessi. L’Eni ha quasi un monopolio sul settore petrolifero libico: è presente nel paese dal 1959 ed è l’unica azienda internazionale a operare a pieno regime. La sua presenza in Libia ha un’importanza strategica vitale per l’Italia e, nonostante gli enormi costi per la sicurezza, è forse il principale motivo degli sforzi di Roma per pacificare il paese nordafricano, con o senza alleati. […]»: sempre parole di Mucci.

Finché l’Europa non vorrà prendere a cuore la questione in modo serio, le morti in mare continueranno e gli sbarchi aumenteranno. Ma se gli interessi principali rimangono il petrolio ed il denaro proveniente dal traffico di esseri umani invece che salvaguardare le loro vite mi viene da pensare che questo non costituisca un problema. Dobbiamo renderci conto che la disumanizzazione dei profughi è già in atto. Una differenza rispetto al passato però è individuabile: per non vedere ciò che sta succedendo non li identifichiamo come animali senza diritti come facevano i Nazisti, semplicemente facciamo finta che il loro sangue in mare sia azzurro, in modo che non ci guasti il panorama.

Massimiliano Mattiuzzo

 

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