22 novembre 2016 lachiavedisophia

È la democrazia bellezza (?)

Ovvero ha senso considerare accorgimenti al suffragio universale per un migliore funzionamento della democrazia? O forse bisognerebbe ragionare d’altro?

Se ne sta discutendo in questi giorni successivi all’incredulità di buona parte dell’opinione pubblica e dei media di fronte all’elezione di Donald J. Trump a presidente degli Stati Uniti d’America.

In un sistema democratico tutti gli aventi diritto, esprimendo il loro voto, scelgono dei rappresentanti affinché facciano quello che li ha eletti: il bene comune, l’interesse della comunità, regione o nazione che sia. Se però i votanti non decidono per l’alternativa che appare la migliore e la più utile a tutti, il problema è del sistema, degli elettori o sta a monte?
Questa discussione parte da un presupposto abbastanza unilaterale che chi voti partiti estremisti e/o reazionari, xenofobi o solo populisti sia un ignorante. In realtà non è così, ma molto più complicato, come si è visto dalla vittoria di Donald Trump. Comunque sia alcuni ricominciano a chiedersi se il voto di questa persone debba valere come quello di una persona mediamente istruita e consapevole o meno.

La democrazia funziona solo se informata, come disse Franklin Delano Roosvelt,  ma allora che valore ha un voto se un terzo dei cittadini americani non sa nominare uno dei tre rami nei quali è suddiviso il potere in America? Il voto di una persona intelligente può valere come quello di un ignorante? Queste e altre domande si susseguono, nella corsa a capire le responsabilità e le reali volontà di una vittoria non pronosticata. E per capire che strada dovrà prendere la democrazia di qui in avanti.

Dopo questa scioccante tornata elettorale (si pensi anche a Brexit), si è ancora una volta ripreso a discutere se sia il caso di mettere dei paletti al suffragio universale così com’è inteso oggi. Prima di giungere ai saggi e alle proposte concrete di questi anni dobbiamo guardare a come funzionava la democrazia nei secoli. Il suffragio universale di per sé è una conquista relativamente recente  infatti, risalente al ‘900, mentre prima le restrizioni al suffragio erano molte: in base al sesso, alla razza e anche al censo (come in Italia), intese soprattutto a far rispettare uno status quo escludendo le minoranze dalle decisioni.

Già lì dove nacque la democrazia, nelle polis greche, fu Platone a teorizzare un governo di filosofi, intravedendo alcuni limiti del potere di tutti. Nel 1700 poi il filosofo americano John Stuart Mills pensò si potesse equilibrare il potere di voto permettendo di votare più volte alle persone più colte.

Cosa si propone adesso? Il più noto esempio, citato in questi giorni, è un saggio di Jason Brennan, Against Democracy, nel quale il giovane filosofo della Columbia University riprende queste idee e le soppesa per capire se potrebbero funzionare oggi. L’assunto da cui parte è il fatto che noi oggi vediamo il suffragio universale come un diritto inalienabile. Impossibile da mettere in discussione. Brennan dice invece che sì la democrazia è il governo migliore sperimentato finora, ma ciò non vuol dire che non sia possibile di miglioramento. Sulla scia di Platone propone quindi una forma ibrida: un governo di ben informati, grazie alla limitazione ad hoc del suffragio universale. Fino a qui si potrebbe essere d’accordo, ma quando si tratta di come realizzare questo sbarramento le cose si fanno più confuse. Scontrandosi con questa difficoltà la cosa per il professor Brennan più semplice da fare è selezionare i votanti guardando al livello di istruzione. Dato che può essere indicativo ma non assoluto (poiché uno stupido che frequenta una buona università molto probabilmente diventerà uno stupido istruito), oltre che potenzialmente di discriminatorio.
Come si è visto dalle ultime elezioni americane la Clinton è andata forte tra le persone con un PhD (dottorato di ricerca), mentre tra i laureati i votanti erano quasi equamente spartiti.

Qualcosa che non torna comunque c’è. Tutto il risentimento di molta gente per il famoso establishment, per il sistema politico che si incanala verso scelte drastiche, di rottura, molte volte dettate dalla paura di un mondo che sta mutando, non può e non deve rimanere inascoltato. Queste istanze ci dicono qualcosa, ci parlano della scarsa fiducia nella politica e nel suo sistema rappresentativo e non si può certo rispondere estromettendo direttamente parte dell’elettorato

Un bel articolo del New Yorker (A case against democracy) trattante questi temi a un certo punto si chiede: «But is democracy really failing, or is it just trying to say something?» La democrazia sta davvero fallendo o sta solo tentando di dirci qualcosa?

E se sì cosa ci sta dicendo?

Possiamo provare a capirlo solo se crediamo davvero che l’unica possibilità, perché una democrazia funzioni, sia che questa si basi su informazione e consapevolezza. E l’informazione è proprio ciò che è più in crisi oggi. Da una parte le difficoltà, economiche e di credibilità dei giornali, visti come parte dell’élite, dei quali non ci si può né ci si deve fidare, ma da osteggiare. Dall’altra contribuisce alla creazione di un’opinione pubblica poco e male informata il proliferare di bufale, notizie false o imprecise sui social network. Notizie che saranno certamente, come dice Mark Zuckerberg, una minima parte del traffico di Facebook, ma corrono molto più veloce della verità e arrivano a molte più persone, quasi autoalimentandosi. Se mettiamo in conto anche il fatto che si social siano la fonte unica o quasi di approvvigionamento di notizie di sempre più persone siamo di fronte a un cortocircuito.

Quindi sarebbe una buona e auspicabile proposta quella di un test di cultura e di educazione civica (in italia sostenuta da intellettuali come Massimo Gramellini) dietro il cui superamento ottenere il voto, ma l’educazione civica non si fa da sola. Bisogna istruire i cittadini se si vogliono cittadini consapevoli e bisogna informarli correttamente se li si vuole obiettivi. Luca Sofri, direttore del Post, che da anni si occupa di notizie fasulle e disinformazione ricorda che già Parise diceva che non si ha democrazia senza pedagogia. Ce lo si augura. E, in Italia almeno, vedere insegnata veramente l’educazione civica a scuola sarebbe un primo passo tangibile.

Tommaso Meo

[immagine tratta da Google Immagini]

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