Gironzolando per i vivaci corridoi della scuola nell’incuriosita attesa di entrare in classe, sono sorpresa nel vedere i sorrisi dei bambini e l’entusiasmo con cui, correndoci incontro, urlano in coro “maestro ma che cosa facciamo oggi?”, “sei in classe da noi adesso?”; il tutto seguito da altre voci che, facendosi spazio fra quelle degli altri, chiedono ininterrottamente “ma usiamo anche la palla?”, “ma come li mettiamo i banchi oggi?”, “dobbiamo fare il cerchio?”.
E’ solo una volta ricreato un po’ d’ordine che si entra in classe.
Mi siedo alle loro spalle e li osservo attirata dai loro modi di fare: c’è chi, venendoti incontro timidamente, ti chiede chi sei o come ti chiami; c’e chi, più disinvolto, senza dire nulla inizia a raccontarti dettagli della sua festa di compleanno fatta il giorno prima. C’è poi chi, disteso sul banco con le gambe a penzoloni, sopracciglia aggrottate ed espressione assorta, ti guarda semplicemente senza dire nulla, perché sa perfettamente che sei lì per osservare che cosa si andrà a fare; perché il tempo di quell’ora è un po’ diverso rispetto a quello delle altre ore e sa precisamente che lui e i suoi compagni stanno facendo qualcosa che la maggior parte dei bambini nel resto delle scuole dell’infanzia ancora non fa.
Si inizia.
I laboratori svolti nascono con lo scopo di “mettere in scena”, tramite un semplice e neutro pretesto, delle situazioni-stimolo indispensabili al fine di collaborare dialogando. Uso la parola “neutro” perché è proprio questo quello che occorre; è necessaria una sorta di neutralità iniziale per poter riflettere partendo da punti di vista differenti e potenzialmente infiniti, andando oltre i luoghi comuni dell’esperienza. Al di là della struttura e variabilità di ogni singolo laboratorio di filosofiacoibambini, la cosa davvero interessante è tutto ciò che potrebbe accadere assistendo a uno di essi.
Scrive Narayanan, studioso di linguistica cognitiva: “Discorrere è come passeggiare”.
Direi che queste parole metaforizzano limpidamente la sensazione che si avrebbe assistendo alla diretta di un laboratorio. Il discorrere è il motore della lezione; il dialogo che intercorre fra maestro e bambini porta con sé un costrutto di parole che raccontano, spiegano, scherzano, chiedono, immaginano, ragionano e ovviamente, rispondono. La retroazione positiva di tutto ciò, conduce inevitabilmente a un passeggiare, ad un avanzare, a un progredire dialettico di discorsi, idee, ragionamenti e consapevolezze.
Essendo interessata alla filosofia del linguaggio, non posso fare a meno di notare che pensiero, parola e linguaggio, in questo lavoro, sono senza dubbio termini chiave. Potremmo parlare di “pensiero” come “cornice di parole in potenza”. Infatti, i laboratori sono anche occasioni di scoperta del possibile quale evento che invita i bambini a riflettere, esternare ed apprendere; è un e-ducĕre, tirar fuori ciò che sta dentro per volgerlo al nuovo, al diverso, anche grazie alla parola. “I bambini piccoli sanno qualcosa del linguaggio che i ragni non sanno delle ragnatele” scrive Gleitman (1972, 160), ed è proprio cosi; verbalizzando i loro concetti i bambini diventano dei piccoli grammatici, prendono coscienza di sé stessi e percepiscono il rapporto che nutrono con l’altro.
Il metodo utilizzato non mira all’impartire una nozione specifica o unitarie visioni delle cose, ma spinge a meravigliarsi di tutto ciò che potrebbe essere pensato, immaginato e quindi, fa scoprire i possibili modi con cui, tutto ciò, potrebbe essere espresso.
Il fine del laboratorio c’è, ma non è mai prefissato in anticipo; come in un rapporto di tesi ed antitesi, mutua continuamente in base alle tipologie di risposte date dai bambini. E i piccoli, nel dare i loro responsi, non sono poi così diversi da noi adulti, anzi; le loro minori conoscenze e nozioni tecniche li portano ad essere per certi versi migliori di noi “grandi”. Questo avviene perché i bambini si impegnano tenacemente a pensare a come le cose potrebbero essere altrimenti da come sono in realtà. In questi laboratori si conosce il punto di partenza, ma non si sa mai, al cento per cento, dove si andrà a finire. Anzi, in queste lezioni di filosofiacoibambini, non manca mai occasione di imbattersi nell’imprevisto, fatto di domande o risposte a cui noi stessi individualmente, non saremmo mai giunti o non ci saremmo mai aspettati.
“Serendipità è – filosoficamente – lo scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Ma il termine non indica solo fortuna: per cogliere l’indizio che porterà alla scoperta occorre essere aperti alla ricerca e attenti a riconoscere il valore di esperienze che non corrispondono alle originarie aspettative”.
Anche quando queste vengono dalla bocca di un bambino di 6 anni.
Essere aperti alla ricerca e riconoscere il valore delle esperienze altrui sono requisiti indispensabili del maestro, il quale, sapendo gestire un percorso imprevisto, segue e raccoglie i pensieri dei bambini, cerca di coinvolgere tutti nella discussione, e infine, li guida a un ragionamento consapevole.
La teoria filosofica, ancor prima di esser teoria, era una pratica. In queste lezioni si sente il bisogno di ri-tornare a fare ciò e si percepiscono immediatamente i vantaggi avuti dall’uso di tale tecnica filosofica. Condividendo le nostre sottili identità impariamo a “stare nei mondi possibili” per esser poi pronti a “stare al mondo”.
La strada che conduce a una filosofia applicata all’infanzia è ancora poco battuta e per certi versi ancora troppo ignara delle possibilità da scoprire ed indagare. Filosofiacoibambini, tra le tante cose, è perciò attenta “all’educare ad essere”. È importante riconoscere che, in un periodo fertile come quello dell’infanzia, l’istruzione (intesa come acquisizione di nozioni) da sola non basta; è necessaria un’educazione che accompagni ai saperi acquisiti lo sviluppo di un pensiero che sia il più possibile vivo e fecondo, un pensiero che, essendo rimasto fin da subito flessibile e attivo riuscirà, in futuro, a gestire le variabili di una vita da costruire.
Giorgia Aldrighetti (FcB Team Ricerca, Università di Trento)