Non dipingo sul cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Ho bisogno dell’opposizione che mi dà una superficie dura. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente “dentro” al dipinto. Questo modo di procedere è simile a quello dei “Sand painters” Indiani dell’ovest.
Jackson Pollock è il rappresentante più emblematico dell’Action Painting (probabilmente anche l’unico conosciuto dalla maggior parte delle persone); questo è uno stile pittorico nel quale il colore viene fatto letteralmente gocciolare sulla tela, spesso lanciandolo, invece di applicarlo con attenzione. Il gesto stesso del dipingere prende il nome di dripping.
Eventi drammatici segnarono la breve vita di Pollock, attraverso i quali gli venne dato l’appellativo di artista maledetto, tipico del panorama artistico europeo di fine Ottocento e che nella cultura americana era stato incarnato maggiormente da divi cinematografici (i famosi “belli e maledetti”).
Svolse un apprendistato artistico irregolare frequentando varie accademie e scuole d’arte. All’età di 25 anni, per gravi problemi di alcolismo, si sottopose a diverse sedute psicanalitiche. Il pittore conobbe così il mondo della psicologia, scoprendo le dimensioni dell’inconscio e dell’irrazionalità, che determineranno la svolta decisiva verso l’Action Painting. Grazie ad un murale realizzato a casa di Peggy Guggenheim, nel 1943, e a un articolo di ben quattro pagine sulla rivista Life che si chiedeva È il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?, Pollock divenne uno degli artisti americani più noti, acquistando una fama tale da diventare quasi un mito.
Con gli anni mise a punto la sua nota tecnica del dripping, determinando la colatura del colore con gesti rituali e coreografici in cui erano presenti reminescenze dei riti magici praticati dagli indiani d’America. I lavori così realizzati si presentano come un caotico intreccio di linee e macchie colorate, con totale assenza di organizzazione razionale. In esse venivano ritrovate quelle tipiche istanze dell’Esistenzialismo, caratterizzate da sfiducia nelle possibilità dell’uomo di realizzare le proprie aspirazioni di armonia con il mondo esterno. L’opera di Pollock è quindi carica di drammaticità e angoscia.
Non c’è nulla che spaventi di più l’uomo che prendere coscienza dell’immensità di cosa è capace di fare e diventare.
S. Kierkegaard
La sua ricerca, durata poco più di un decennio, si interruppe nel 1956, quando, all’età di 44 anni, morì in un incidente stradale.
Number 1
(tecnica sconosciuta, 1950, 221×175 cm, National Gallery, Washington)
Questo quadro è conosciuto anche con il nome Lavender mist (nebbia di lavanda) datogli dal critico Clement Greenberg, per la prevalenza delle sfumature lavanda. I titoli dati da altri alle opere di Pollock finiscono più per suggerire possibili letture, che non per identificare in maniera corretta le sue opere. Number 1, al di là delle suggestioni che può suggerire, rimane una delle opere in cui lo stile artistico di Pollock è più evidente.
Quello che finiva sulla tela non era un quadro, ma un evento. Il punto di svolta c’è stato quando ha deciso di dipingere “solo per dipingere”. I gesti che si riflettevano sulla tela erano gesti di liberazione dai valori – politici, estetici e morali.
Harold Rosemberg
Ilaria Berto
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[Immagini tratte da Google Immagini]