In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – 2015
Io sono tuo marito – soggetto, copula, predicato nominale. Ma se quel tuo marito fosse un complemento oggetto? Dovremmo cambiare prospettiva, spostarci da un’analisi che implica solo le parole a una che includa il rapporto fra gli esseri parlanti e il linguaggio.
Io sono tuo marito. Potremmo usare qualsiasi altra espressione – Io sono uno psicoanalista, un operaio – o ribaltare la forma – Tu sei mia moglie, ecc. – conservando inalterato il rapporto. Più che la parola in sé e sebbene ci sia un tu, cose su cui torneremo, importa la condizione in cui si trova quel io ogni qual volta usi il verbo essere, consapevolmente o meno: è indicato all’Altro, con il verbo che funziona da copula per un predicato nominale, o è portato a un altro, con il verbo a funzionare da predicato verbale per un complemento oggetto (Lacan, 1954 – 1955)?
Facciamo un esempio: una cosa è vedersi recapitare delle rose – attenzione – senza la persona che le ha inviate, altra faccenda è quando la persona che manda quelle rose è attaccata a esse. In un caso funzioneranno da metafora del mittente, suo predicato nominale (in psicoanalese: saremo in un registro simbolico), nell’altro saranno parte del suo corpo, ne saranno il complemento oggetto, prova della sua esistenza nelle mani dell’altro.
Veniamo al secondo termine, chi o che cosa, essendoci, tiene in piedi per il primo la possibilità di chiudere la frase Io sono. Nei predicati nominali, cioè dove il simbolico funziona, questa trova ancoraggio nel discorso – in psicoanalese: un S1 chiama un S2 che retroagisce fermando un significato (Lacan, 1957 – 1958).
Quando il secondo termine è un oggetto le cose sono semplici. Immaginate un’impresa: ci si può battere perché sia in un certo modo. Una persona invece resta con difficoltà nel modo in cui viene messa. Recalcitra, vede quanto chi la vuole in quel modo ne possa tollerare la mancanza. La posizione di oggetto è cioè problematica per l’essere umano, che si vive come preda di qualcosa a cui non si può sottrarre (Lacan, 1951 e 1955 – 1956). Sarebbe da chiedersi perché il rischio di questa condizione funzioni per molti da centro di gravità: “Voglio essere la sua ossessione” – disse una ragazza.
Torniamo al primo termine. Cosa succede quando il complemento oggetto, essendo anch’esso un soggetto, inizia a recalcitrare? Succede che la frase Io sono, non presa in un discorso, apre su un baratro. Lo specchio, potremmo dire usando un registro che in psicoanalisi si chiama immaginario, invece di riflettere il riconoscibile, apre su un’incognita (Lacan, 1949 e 1955 – 1956). L’esperienza del ciglio di questo baratro, del margine di questo specchio, ha un nome preciso: angoscia. Attenzione, l’angoscia non è il precipitare o il non riconoscersi ma è la percezione dell’imminenza di questo accadere (Lacan 1962 – 1963).
Se un soggetto non si pone in rapporto a un predicato nominale ma a un complemento oggetto, anche l’angoscia seguirà la medesima logica: se non diluita nel discorso, sarà inaggirabile. Cioè delle due l’una: o siamo presi in una articolazione di linguaggio (in psicoanalese: catena significante) e allora potremo spostarci da un predicato nominale all’altro – c’è da dire: restando sempre un po’ insoddisfatti – oppure saremo il complemento oggetto dell’Altro che si pone come soggetto nei nostri confronti e da questa posizione sarà difficile uscire. Da una parte la metonimia, dall’altra la confusione (Lacan, 1957).
Un esempio clinico: un uomo la cui giornata si organizzava non in base agli orari dell’orologio ma a quante sigarette separavano gli eventi. Le sigarette segnavano la sua vita fin da piccolo: rimandavano al padre, che fumava e che era l’unico in grado di fronteggiare un’altra faccenda che, bambino, lo terrorizzava. Quest’uomo quindi fumava come suo padre – come vedete non c’è bisogno di dire Sono perché il verbo essere sia implicato ugualmente (Lacan, 1953 – 1954). Mentre un giorno l’uomo chiacchiera con un amico questi gli prende il pacchetto di sigarette, glielo sventola sotto il naso e gli dice: “Le vedi queste? Te l’ho rubate”. In quel momento – è l’immediatezza a darci conto della congiuntura – l’uomo gli dà una coltellata. Si faccia caso che l’accoltellatore è la stessa persona che ha chiamato i carabinieri, un appello all’Altro simbolico in loco di una sigaretta complemento oggetto mancante e, a monte, la percezione inaggirabile della illusorietà del complemento oggetto che ha posto l’uomo di fronte all’illusorietà di se stesso.
Io sono tuo marito. Si capisce ora come siano due i binari da considerare, da una parte i termini concreti la cui scelta testimonia di una storia soggettiva, dall’altra la loro sintassi e diviene chiaro, quando è di complemento oggetto che si tratta, perché il soggetto si trovi in difficoltà: o accetta il rischio di precipitare in un innominabile o dovrà annientare la soggettività che rende incontrollabile il complemento oggetto. Dovrà cioè rendere preclusa la possibilità che la propria posizione soggettiva, che non può giovare della mobilità del predicato nominale, venga messa in discussione (Lacan, 1955 – 1956).
Il predicato nominale rende le cose meno rischiose? Purtroppo, no. L’angoscia può essere aggirata ma non evitata e questo sposta la questione dal campo epistemico a quello etico (Lacan, 1959 – 1960 e 1962 – 1963). Lacan (1950) sostiene che un soggetto è sempre responsabile dei propri atti, vuol dire che c’è possibilità di scegliere anche quando si è senza via d’uscita: si può scegliere il proprio destino (Lacan, 1964).
Lasciare andare l’altro che, predicato nominale o complemento oggetto, ci sostiene come soggetti, in un caso di desiderio e nell’altro di esistenza, non è facile. La posta in gioco è la funzione che l’altro sostiene in virtù del suo essere in rapporto a noi, quel Io sono che, se non può appoggiarsi su un secondo termine, simbolico o concreto, resta azione per cui non c’è garanzia e coincide con l’esperienza della precarietà.
La si può chiamare castrazione e fallica la sua funzione in ragione del suo esistere a partire da un secondo termine che, presente o assente, presentando il proprio posto come necessario incardina una logica (Lacan, 1969 – 1970 e 1971). Esito di questa funzione, non causa, è il soggetto (Lacan, 1957). Torniamo alle rose: possono essere accettate o rifiutate ma il loro recapito implica l’esistenza del mittente, come un messaggio nella bottiglia, capito o meno, dice l’esistenza dello scrivente. Lasciare andare l’altro significa che potrebbe non esserci rosa, che il messaggio potrebbe non essere preso per tale.
L’essere umano può dunque trovarsi nella condizione di un atto che, così inquadrato, presenta un aspetto tragico il cui bordo è segnato dall’angoscia. Bisogna chiedersi: ne è un al di qua o un al di là? Tende a prevenirne l’esperienza, ponendola in conto a un altro che può arrivare a coincidere con il corpo e i pensieri del soggetto – costringere il proprio corpo o i propri pensieri per non soffrire come soggetto non è una possibile definizione del sintomo? – o segna un modo inedito di rapportarsi alla funzione non più certa dell’Altro e quindi al suo desiderio (Lacan, 1962 – 1963 e 1969)? È una questione etica: scegliere la propria singolarità, solitudine che non conosce rimedi che contingenti. È la condizione della donna – più precisamente – la condizione per cui non si può essere donne che una per una ed è anche la posizione che deve saper sostenere chi, uomo o donna, decida di fare lo psicoanalista (Lacan, 1967 e 1972 – 1973).
Antonino Zaffiro
Antonino Zaffiro, psicologo – psicoterapeuta a Latina, partecipante alle attività della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (www.slp-cf.it) ed ex allievo dello Istituto Freudiano (www.istitutofreudiano.it), membro della Società Filosofica Feronia (www.societafilosoficaferonia.it).
Contatti: antoninozaffiro@hotmai.it – antoninozaffiro1977@gmail.com