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L’evoluzione tra filosofia e scienza. Intervista a Telmo Pievani

L’intervista al noto divulgatore e filosofo della scienza Telmo Pievani è pubblicata in parte all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #13 – Il senso del tempo. In questa parte del dialogo la nostra autrice, Pamela Boldrin, interroga il filosofo in materia di evoluzione e sul rapporto tra filosofia e scienza. Non possiamo che ringraziare il professore per questo interessante scambio di idee.

 

Un altro insegnamento straordinario proveniente dal libro del tempo dell’evoluzione è quello delle continue ondate migratorie che, a partire dall’Africa, hanno portato le varie specie di homo in tutto il pianeta, guadagnandosi il record sul resto del mondo animale come specie più migrante. Il DNA umano può diventare una finestra sul tempo passato, cosa può raccontarci di questa propensione migratoria che ancora oggi caratterizza l’umanità?

Questo è uno degli aspetti forse più nuovi che emergono dal dibattito evoluzionistico ed è legato proprio a quello che dicevo prima, quindi alla scoperta di tante forme umane diverse. Abbiamo scoperto che il cespuglio dell’evoluzione umana era molto più ramificato e più ricco di quanto non pensassimo. Da qualche tempo abbiamo capito anche il perché, ed è proprio legato alle migrazioni: il motivo fondamentale per cui ci sono state così tante specie umane è che un adattamento fondamentale dell’essere umani è lo spostarsi, il migrare. Questo lo si capisce facilmente perché noi deriviamo da una evoluzione in ambienti instabili con una ecologia che cambiava (cambiamenti climatici e così via), quindi è chiaro che il migrare ti rende più flessibile perché ti puoi spostare e quindi inseguire gli habitat e le risorse che ti sono più congeniali, in modo peraltro spontaneo, perché non è stato un processo intenzionale. Sono due milioni di anni che ci spostiamo in tutto il mondo; ciò ha riguardato altre specie umane prima di noi perché ciò di cui ci siamo accorti recentemente è che noi homo sapiens siamo solo l’ultimo migrante, nel senso che noi a partire da 120-130.000 anni fa abbiamo cominciato (pure noi) a uscire dall’Africa (altro elemento suggestivo è che tutte queste migrazioni sono partite dall’Africa, che quindi è stata la culla di tutte queste espansioni) e con molto più successo e rapidità dei nostri predecessori abbiamo colonizzato tutte le terre emerse, tranne l’Antartide, sostanzialmente. Uscendo dall’Africa abbiamo trovato tutti i discendenti di quelli che erano usciti le volte precedenti ed è questo che ci ha colpiti, perché ci si è accorti che homo sapiens ha dovuto convivere con altri uomini incontrati nelle sue espansioni. Molti punti di domanda oggi riguardano proprio questo, ovvero: che cosa è successo quando noi sapiens abbiamo incontrato altri umani? Li abbiamo estinti noi? Ci siamo accoppiati con loro? Tutte domande alle quali oggi si cerca di rispondere, ma la scoperta di fondo è che non eravamo soli. Questo ci riporta un po’ ai discorsi di prima: la purezza, un po’ come il progresso, è uno di quei temi ideologici forti che spesso in biologia trapelano. Homo sapiens, invece, è impuro da sempre e dal punto di vista genetico il nostro DNA è una specie di arlecchino dato dall’incontro con altri umani. Si conferma ancora una volta che in biologia più sei puro e più sei debole, mentre la diversità è una ricchezza.

 

Ad un certo punto della nostra linea del tempo dunque, attorno ai 45.000-38.000 anni fa, troviamo dei reperti di homo sapiens che ci suggeriscono degli elementi di svolta rispetto alle altre specie umane con le quali aveva convissuto, dei quali non abbiamo più notizie a partire da quell’epoca. Siamo rimasti soli e non sappiamo perché. Quali congetture prendono forma da questo grande mistero?

Due sono le cose molto importanti da sottolineare. Una è che è caduto un altro dogma scientifico che valeva fino a qualche anno fa e che era scritto su tutti i manuali, ovvero che homo sapiens fosse l’unica specie ad aver sviluppato l’intelligenza simbolica, dunque non solo nuove abilità di caccia ma anche l’arte rupestre, gli strumenti musicali, oggetti simbolici, sepolture rituali… si era sempre detto che solo noi avevamo fatto questo, perché siamo speciali. Oggi si scopre che anche il Neanderthal era capace di questo, in mezzo a tutta una serie di altre specie umane di cui non abbiamo dati. In altre parole, è caduto un altro elemento del cosiddetto eccezionalismo umano. Noi siamo diversi da tutti gli altri umani oltre che da tutti gli animali ma non c’è nessun elemento di specialità o eccezionalità, e questo ci permette di capire ancora meglio la nostra diversità, ovvero che probabilmente homo sapiens era il più ambivalente di tutti. Ciò significa, da un lato, capace di creazioni artistiche straordinarie, non riscontrate in altre specie umane e oltretutto sistematiche  a partire da 45.000 anni fa; grande creatività quindi, non c’è alcun dubbio. Allo stesso tempo, dall’altro lato, è capace di grande invasività, grande prepotenza: quando arriviamo noi, in qualsiasi punto del globo, dopo un po’ gli altri umani spariscono; vediamo scene di caccia, cooperazione, capacità di sfruttare le risorse in modo nuovo e molto più invasivo; e poi, se lasciamo passare ancora qualche migliaio di anni ancora, homo sapiens arriva in Australia e nelle Americhe e si estinguono decine, centinaia di specie e di grandi mammiferi. Si vede dunque in azione una specie capace di grande cooperazione, con doti creative, belle e positive, ma anche di invasività, prepotenza, sfruttamento. Infondo quell’ambivalenza è ancora qui, sotto i nostri occhi, perché ancora oggi siamo capaci delle cose più meravigliose dal punto di vista dell’ingegno ma abbiamo completamente perso un senso di equilibrio con la natura. Da qui la crisi ambientale di cui soffriamo adesso ma di cui soffriranno soprattutto gli homo sapiens di due o tre generazioni successive alla nostra. Oggi emerge proprio che la nostra espansività, in senso anche buono perché ci ha dato grandi possibilità di progresso e benessere, sta mostrando la corda, nel senso che i limiti sono evidenti,  in termini di riscaldamento climatico, per non parlare delle stesse pandemie.

 

Entrando nel dettaglio del tempo dell’evoluzione umana, l’immagine della scimmia curva che diventa gradualmente un umano – tra l’altro sempre un maschio bianco – è un’immagine sempre in voga ma scientificamente fuorviante e nemmeno tanto corretta eticamente. Ci racconta perché?

Questo è uno di quegli esempi in cui noi sovrapponiamo filosoficamente a una spiegazione scientifica a delle categorie che sono molto radicate nella nostra mente. È stato dimostrato da tanti studi che noi abbiamo una mente che cerca di dare un senso a posteriori a quello che è successo, di renderlo lineare, e abbiamo una forte tentazione, molto consolatoria, a pensare che noi, che siamo adesso qui, ci voltiamo indietro e ricostruiamo un passato che guarda caso  giustifica il presente, cioè giustifica noi, la necessità della nostra presenza qui. Questa è un’operazione ideologica nel vero e proprio senso del termine, perché è una ideologia, contraddice il dettato della spiegazione scientifica evolutiva che invece dice qualcosa di molto diverso, ovvero che noi eravamo una delle tante possibilità di questo processo, non l’unica. Quell’immagine dello scimmione che diventa umana, poi, è sbagliata anche per un’altra ragione importante, perché dà l’impressione che l’evoluzione sia una sorta di catena con tanti anelli, come se ci sia stato un unico grande percorso lineare in cui le varie specie sono degli anelli, alcuni dei quali sono ancora mancanti. Questo è sbagliato perché l’evoluzione non è una scala, una catena di anelli appunto, ma un albero, o un cespuglio, quindi una metafora, ancora una volta, di diversificazione. Ciò significa ad esempio che quando c’eravamo noi, e fino a circa 50.000 anni fa, c’erano anche altre specie umane. Questo ancora una volta presenta sul piano filosofico un tema molto importante: pensiamo a quante riflessioni filosofiche si sono basate sull’assunto che noi fossimo gli unici umani e ci fosse un unico modo di essere umani; invece, scoprire che fino a poco tempo fa c’erano altri modi di essere umani diversi dal nostro vuol dire che ci sono stati letteralmente altri universi umani, altre emozioni, modi di pensare e di guardare il mondo, umani come il nostro ma diversi dal nostro. Questo è un grande messaggio di diversità radicale e se noi davvero capissimo che ci sono stati altri modi di essere umani, come i Neanderthal e così via, forse ci riconosceremmo anche più facilmente come homo sapiens, noi come un’unica grande popolazione umana non divisa in razze o etnie o altro, idee che hanno fatto molto male nel corso della storia.

 

Nel suo ruolo di filosofo della scienza è molto attento a evidenziare come la scienza tenda ad agevolare il passaggio dal piano riduzionistico delle sue spiegazioni al piano delle giustificazioni o addirittura delle prescrizioni. Ad esempio, ogni volta che sia possibile spiegare su basi biologiche l’esistenza di comportamenti moralmente sconvenienti tra gli esseri umani, la tendenza è quella di sostenere l’inevitabilità di tali atteggiamenti. Può spiegare perché è filosoficamente scorretto dedurre da leggi di natura dei criteri normativi e, anzi, dobbiamo diffidare da questi utilizzi della scienza?

Questo è un errore che è stato fatto tante volte, ovvero quello di passare da una spiegazione a una giustificazione. Qualche volta la biologia ti permette di contribuire a spiegare un comportamento umano, e allora quasi intuitivamente chi legge quella spiegazione sembra portato a pensare “beh, allora se è naturale è giusto”. L’errore, come già David Hume ci aveva insegnato, sta proprio lì: il passaggio dall’essere al dover essere è un grosso salto a proposito del quale dobbiamo stare molto bene attenti. È chiaro che i comportamenti umani, come quelli di ogni altro essere vivente, hanno anche una componente biologica, ma quella componente non solo non giustifica ma non è neanche sufficiente di per sé perché c’è anche la componente culturale, quella storica e quella individuale, quindi la complessità della spiegazione è di molti ordini di grandezza sopra quello che dipende da un gene e da una caratteristica meramente biologica. Aggiungo che proprio quell’ambivalenza di cui parlavo prima spiega in fondo questa distinzione, perché se tu scopri che il retaggio evolutivo che ti porti dietro dai tuoi antenati è un retaggio di radicale ambivalenza, significa che tu per natura puoi fare allo stesso tempo le cose più belle e le cose più orribili; cioè se il nostro retaggio è così ambivalente significa che poi il fatto di scegliere un comportamento giusto o sbagliato non lo devi imputare a quella data natura, a quella data biologia, ma ad una scelta culturalmente motivata, personalmente motivata, cioè dalla tua storia personale, non dalla natura. Perché la natura ti rende ambivalente, poi la scelta è legata ad altri fattori appunto culturali e individuali. Chiederci dunque se siamo buoni o cattivi per natura è una domanda priva di senso: siamo buoni e cattivi per natura, dobbiamo piuttosto riflettere sulle ragioni che ci fanno comportare in un determinato modo. La natura, di base, ti dà la possibilità di comportarti in un modo e nell’altro.

 

Se per assurdo l’evoluzione incarnasse i panni di una maestra e la filosofia quelli di una discepola, su quali insegnamenti cruciali la prima incalzerebbe la seconda? 

La natura, secondo me, chiederebbe al filosofo o alla filosofa di ripensare un umanesimo più ecologico, meno centrato sulla solitudine e l’eccezionalità umana e più sull’umano come un divenire, che in fondo era già presente agli inizi dell’umanesimo; Pico della Mirandola e molti avevano questa visione dell’umano come un divenire anche contrastato e problematico. Bisogna tornare a quell’umanesimo perché è quello che ti fa capire che dobbiamo ricostruire un’alleanza con la natura, che non c’è più nessuna contraddizione che abbia senso tra antropocentrismo ed ecocentrismo. Nelle vesti di discepola, penso che la filosofia debba ascoltare di più la natura perché secondo me, ancora oggi, ci sono tante tendenze filosofiche e, appunto, la complessità è un esempio virtuoso da questo punto di vista, che ha saputo dialogare con la scienza. Altre tendenze, invece, vedono ancora un po’ con sospetto la scienza, la confondono con lo scientismo o con la dimensione tecnica. Questo è un peccato perché, invece, la scienza è piena di spunti filosofici ma soprattutto ha bisogno di filosofia, non la si può lasciar andare per conto suo. Bisogna che quelle due comunità si parlino molto di più, anche perché la loro radice è comune.

 

Pamela Boldrin

 

[Fotografia fornita dall’autore]

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Pamela Boldrin

Curiosa, ecologista, accanita lettrice

Vivo a Noventa Padovana con mio marito, mio figlio e mia figlia dal 2012, ma sono nata e cresciuta in provincia di Treviso. Mi sono laureata a Padova in qualità di tecnica di neurofisiopatologia, lavoro che faccio tuttora come libera professionista (dopo anni da dipendente ospedaliera prima al Ca’ Foncello di Treviso e poi nell’ULSS […]

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