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Intervista a Piero Dorfles: verso un’etica della consapevolezza dell’informazione

In un’epoca in cui l’informazione, il giornalismo e l’editoria stanno cambiando velocemente e radicalmente, è necessario prendere consapevolezza di tale cambiamento, che inevitalmente si sta ripercuotendo su tutti noi lettori. Siamo davvero sicuri di essere lettori consapevoli? Consapevoli di ciò che leggiamo, di ciò che ci viene fatto vedere alla televisione o sentire alla radio? Sappiamo davvero distinguere se il libro che abbiamo tra le mani è un prodotto di qualità oppure è frutto di un mercato monopolizzato dai grandi gruppi editoriali?

Per rispondere a queste domande, abbiamo voluto riflettere sullo stato attuale del giornalismo, dell’editoria e dell’informazione con Piero Dorfles, giornalista e critico letterario tra i più affermati in Italia, responsabile dei serivzi culturali del Giornale Radio Rai e conduttore del programma televisivo Per un Pungo di libri di Rai3. Autore di diversi libri, tra i quali: Atlante della radio e della televisione (Nuova ERI 1988), Carosello (Il Mulino 1998) e Il ritorno del dinosauro, una difesa della cultura (Garzanti libri 2010). 

Attraverso  I cento libri che rendono più ricca la nostra vita, (Garzanti Libri, 2014), Piero Dorfles è convinto che i grandi classici possano dirci e insegnarci molto sul mondo contemporaneo, dimostrandoci come la letteratura spesso anticipa il tempo. Ma il grande classico non è un libro per ‘intrattenersi’, è un libro che bisogna imparare a lettere, con esercizio e con lo spirito di chi vuole andare avanti e indietro nel tempo. Così se, l’impiegato Gregor Samsa ne La metamoforsi di Kafka, trasformato in un insetto mostruoso e rifiutato dalla sua stessa famiglia, rispeccha la condanna di tutte quelle persone che non riescono a sintonizzarsi con i comportamenti dettati e codificati dal mondo, Capitano Nemo in Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne è simbolo di coloro che sono sempre alla ricerca di una rivincita sul mondo, e ancora, se nelle pagine del Ritratto di Dorian Grey di oscar Wilde ritroviamo quella paura di invecchiare così presente nel nostro tempo, in Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati ritroviamo l’uomo che, intrappolato nel rispetto e obbiedenza delle regole imposte dalle istituzioni, si brucia gli anni migliori della vita.

Come diventare dunque, lettori coscienti e lettori del mondo? Lo capiamo dalla parole di Piero Dorfles.

Sulla base della sua esperienza di giornalista, a suo avviso, quali sono i principali punti di debolezza del giornalismo italiano oggi, non solo da un punto di vista editoriale, ma anche del trattamento delle notizie da parte dei giornalisti?

Dire qual è il problema tecnico secondo me è secondario, perché in realtà in Italia abbiamo anche ottimi giornalisti che sanno fare benissimo il loro mestiere; il problema secondo me non è dei giornalisti ma della politica editoriale dei mezzi di comunicazione, siano essi radiofonici, televisivi o a stampa. Noi viviamo un periodo in cui la confusione prodotta dall’estensione dei grandi partiti di massa ha prodotto un atteggiamento molto distaccato della gente e delle comunicazioni di massa nei confronti dei grandi problemi che stiamo vivendo, e dall’altra parte la preminenza di una visione commerciale (sia per quanto riguarda la produzione culturale che per quanto riguarda la produzione di massa) tende a dominare come principio informatore tutto quello che noi facciamo. Ecco perché io credo che il problema non sia tanto di valutare se per esempio i giornalisti siano capaci di fare quello che una volta era la grande inchiesta e di “consumarsi le scarpe”, quanto piuttosto che cosa gli chiedono in redazione: se l’editore chiede al direttore copie, e se il direttore capisce che per vendere bisogna andare incontro agli istinti più bassi del pubblico, considerando che questo comporta non l’approfondimento ma la superficialità, noi di conseguenza avremo giornali, televisioni e radio superficiali; che dentro i giornali ci siano persone di grande qualità purtroppo vale poco.

A proposito di tecnologie e social media: il web e i social network hanno rivoluzionato il modo di fare giornalismo ma anche il modo di fruire l’informazione. Anche l’informazione deve spesso sottostare alle rigide dinamiche e regole del web e molto spesso le notizie arrivano prima nei canali social che non alla televisione o sui giornali. Com’è cambiato il giornalismo nel suo rapporto con il web e con i social network?

È cambiato sicuramente in modo radicale, ma non solo perché ci sono i social network: il meccanismo di comunicazione in rete ha prodotto da un lato una accelerazione della comunicazione e dall’altro una forte semplificazione dei rapporti tra fruitori e produttori dell’informazione, i cosiddetti prosumers o prousers, così definiti da degli scienziati americani. Essi sono i veri informatori di oggi: qualsiasi cosa succeda per la strada dopo pochi minuti in una redazione arriva l’sms o l’mms con le immagini o addirittura il filmato di quello che è accaduto, prima che qualunque troupe si possa spostare o un giornalista esca di casa. Questo naturalmente cambia sostanzialmente la velocità dei rapporti con le cose.

L’informazione però non è fatta solo di nudi facti ma è fatta anche delle informazioni necessarie ad inquadrarli, a capirli e a spiegarli; se c’è qualcosa che la rete purtroppo sta facendo è di erodere questa seconda parte del prodotto informativo e che è fondamentale per capire cosa abbiamo intorno a noi nel mondo. Sostanzialmente noi viviamo in un momento in cui il flusso d’informazioni è frenetico, ma la capacità di spiegarle, interpretarle ed inquadrarle sistematicamente diventa ogni giorno più modesta; questo cambiamento che ipoteticamente poteva essere un formidabile strumento di democratizzazione della conoscenza e dell’informazione rischia invece di essere qualcosa che toglie alla grande maggioranza della gente che non legge i giornali e le riviste le informazioni necessarie a inquadrare il mondo in cui viviamo con sufficiente lucidità.

L’editoria è in continua evoluzione e con essa anche i generi letterari. A suo parere il web e il digitale hanno in qualche modo “obbligato” gli scrittori e autori a nuovi parametri e stili di scrittura? Un contenuto perché sia leggibile e visualizzabile sembra dover avere per forza determinate caratteristiche e seguire determinate regole del web. Cosa pensa a proposito?

La mia risposta sarebbe “no”, e potrei anche fermarmi qui. Però vorrei aggiungere che in realtà se c’è una cosa che non ha funzionato è il concetto di lettura elettronica, perché il vero lettore tutto sommato non vuole soltanto avere l’intrattenimento che un libro ha nei tempi più veloce possibili, vuole anche avere il libro, in quanto non cosa fisica ma strumento materiale sul quale ritrovare emozioni, storie, scrittura, che rimane lì, per tutta la vita, non sparisce dopo che uno l’ha letto. Allora il lettore molto superficiale che legge un giallo per intrattenersi, tutto sommato forse segue una logica che nel tempo si è adeguata a modelli comunicativi molto stringenti, che poi sono quelli della narrazione televisiva; ma un lettore un po’ più attento – e i forti lettori lo sono – non ha bisogno di questo, ha bisogno di qualcosa che comunichi appunto più in profondità, e quindi dia non soltanto l’emozione di un racconto stringente, ma anche personaggi consistenti, una narrazione che inquadri bene l’argomento, che racconti la psicologia dei personaggi in profondità, che per esempio sia in grado di distinguere qual è il paesaggio anche umano e storico del racconto che ha messo in campo.

Io non ho la sensazione che in questo momento tutto ciò stia cambiando, ecco perché dico di no; naturalmente qualcosa succede sempre quando c’è un nuovo mezzo di comunicazione, perché questo produce anche una sensibilità e una cultura diversa. Piano piano noi ci siamo adeguati a modelli comunicativi diversi, il romanzo ottocentesco è bellissimo ma nessuno scriverebbe più come Balzac o Flaubert ma questo non toglie che questi continuino ad essere autori di grandissima profondità, ed è il genio di quegli uomini, la loro capacità di raccontare il mondo, che ancora oggi li rende immortali; quando un libro non ha alle spalle questi strumenti, attingere all’immortalità è molto difficile.

Per un pugno di libri, trasmissione televisiva alla quale da anni Lei collabora nel ruolo di critico letterario, è una delle poche nel panorama televisivo contemporaneo dedicate alla promozione della lettura e dei libri. A suo parere perché un programma televisivo può risultare più efficace rispetto ad altri canali, in particolare se consideriamo la presenza massiva di blog letterari che recensiscono libri?

Credo che la differenza principale sia che i blog letterari parlano quasi esclusivamente a chi è già un lettore, e anche un lettore appassionato,  perché altrimenti  non si metterebbe a frugare tra i blog; mentre un programma tv parla a tutti, lettori e – soprattutto – non lettori. Ha quindi la possibilità di sollecitare curiosità per la lettura in chi non ha mai preso un libro in mano. Nel caso del Pugno, poi, c’è la sfida tra due classi di ragazzi che si devono preparare su un romanzo per poter concorrere. Qualcosa che, soprattutto se fatto in forma collettiva, con la speranza di fare bella figura e magari di arrivare in finale raddoppiando il viaggio per gli studi televisivi, può portare ad apprezzare letture che altrimenti rischiano di risultare noiose.

In definitiva, mi pare che in rete ognuno cerchi ciò che già ama; e i lettori ci si ritrovino tra loro, senza però aprire nuove possibilità di sviluppo della passione per la lettura. Credo invece che la tv abbia ancora la possibilità di svolgere un ruolo pedagogico, o quantomeno di pubblicizzazione di qualcosa che nessuno considera più un comportamento socialmente rispettabile: la lettura. E questo, se non lo fa il servizio pubblico radiotelevisivo, chi lo può fare?

Si può dire che da ogni romanzo il lettore può trarre un insegnamento, nuove visioni e spunti di riflessione. Tra questi cento classici che ha selezionato, ce n’è uno al quale si sente più legato?

No. Ognuno ha avuto un significato diverso, in tempi diversi, e a seconda del numero di letture che ne ho avuto. Aggiungo che tra i Cento libri ci sono libri che non ho amato per nulla e altri, per me fondamentali, che non ho inserito perché non rispondevano al criterio che ho usato, quello dei classici più popolari. Leggere Salgari a otto anni è importante per sollecitare la fantasia, far correre gli occhi di un bambino per il mar della Cina; pur avendo amato Sandokan, però, non sono diventato un pirata. Ma a cinquant’anni può essere un esercizio improbo. A quindici anni si può amare Kafka e non capirlo, ma ogni volta che lo si rileggerà ci si troverà dentro qualcosa che prima non si era colto. Ciò detto, spesso, la mattina, ho la sensazione di essere diventato uno scarafaggio.

Considerando invece la continua offerta di nuovi libri, qual è la sua opinione sulla produzione letteraria contemporanea? Se dovesse realizzare un’antologia di romanzi degli ultimi decenni quali sentirebbe di non poter mai escludere?

Da me, non avrete un solo nome, nemmeno sotto tortura. L’immensa mole di libri pubblicati negli ultimi anni nasconde certo qualche perla, ma non mi sentirei di metterla in un’antologia. Le antologie dovrebbero essere fatte solo con i classici. Se qualche scrittore contemporaneo lo diventerà, vorrà dire che se lo sarà meritato. O che ce lo saremo meritato noi, come diceva Nanni Moretti di Alberto Sordi.

Ne I cento libri che rendono più ricca la nostra vita (2014) lei afferma che i classici costituiscono una grandissima fonte di ricchezza, non solo intellettuale, ma in quanto strumenti in grado di orientarci tra le grandi contraddizioni e complessità della società contemporanea. Con quale approccio, secondo lei, può rapportarsi un lettore ad un classico? Come renderlo attuale?

Quello che ho detto precedentemente a proposito di Dostoevskij credo sia lo strumento con cui avvicinarsi ai classici. Ciò che secondo me è importante è che uno non deve avvicinare un classico dicendo “Adesso mi intrattengo un po’”: deve piuttosto immaginare che si tratti di una lettura che gli darà qualcosa solo se lui l’affronta con un minimo di disponibilità, che vuol dire entrare in un mondo diverso dal nostro, andare avanti e indietro nel tempo, cercare di trovare il senso di cose profonde. Se c’è una cosa particolarmente interessante che ha detto oggi Noteboom1 è che per leggere la poesia bisogna imparare a leggere la poesia: anche per leggere un romanzo bisogna imparare a leggere romanzi, è una competenza che si deve acquistare: pensare che solo perché uno ha letto un libro contemporaneo poi può leggere subito Dostoevskij sarebbe sbagliato, c’è qualcosa di un po’ più profondo, di più analitico e di più complesso. Dostoevskij inoltre ci riporta indietro di centocinquant’anni, però dentro i suoi romanzi ci sono gli stessi comportamenti umani che noi conosciamo oggi, lo stesso tipo di tratti psicologici e sociali. Per cui anche se uno fa un po’ fatica a leggere Delitto e castigo, Raskol’nikov c’è ancora, è tra noi, ed è importante saperlo riconoscere.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno: il nostro obiettivo ci pare dunque molto vicino al suo. Lei che cosa pensa della filosofia?

La filosofia non serve a niente. Per questo è utilissima. Sappiamo a cosa servono gli idraulici, gli ingegneri nucleari, gli strateghi e i chimici; questi mestieri servizievoli, basati sulla specializzazione, ci sono indispensabili, ma non servono né a capire in che mondo viviamo, né a darci conto della complessità del problema del senso ultimo della vita. La filosofia non risolve nessun problema, non aggiusta i tubi e non produce energia, ma nemmeno guerre né armi letali. Produce dubbi, smussa le certezze, obbliga a fare i conti con le contraddizioni di cui è intessuta l’esperienza dell’uomo.

Senza filosofia si può vivere benissimo. E non porsi problemi. Ma chi non si pone problemi non è un uomo consapevole di sé. E chi non è consapevole di sé spesso cede a forme di irrazionalità collettiva che possono produrre le peggiori tragedie. Meglio avere meno specializzazioni e più consapevolezze, se si vuol vivere tranquilli. Magari con tanti rovelli, ma almeno senza la sensazione di aver lasciato ad altri il compito di pensare.

 

Impariamo a scegliere ciò che leggiamo, cosa guardiamo e cosa sentiamo, nei libri, alla televisione, alla radio e nel web, non in virtù delle logiche di mercato o da ciò che il mercato editoriale e informativo impone. Impariamo a scegliere un libro, un’edizione del libro, un sito di informazione o un programma per la qualità e non per la facilità.

Esiste un plurarismo informativo e editoriale di qualità che molto spesso, a causa del monopolio di grandi società, non riesce ad emergere. Se tutti noi lettori e ascoltatori imparassimo che, per fruire di certe informazioni e contenuti, è necessario prendersi del tempo, ricercare e documentarsi, saremmo i primi sostenitori della qualità dell’informazione e dell’editoria di qualità.

Elena Casagrande

Intervista rilasciataci da Piero Dorfles in occasione del Festivaletteratura di Mantova nel settembre 2016.

Elena Casagrande

mountain lover, sognatrice, altruista

Sono nata a Conegliano nel 1992 e da sempre ho una grande passione per la natura, gli sport all’aria aperta e per la montagna. Dopo il liceo scientifico ho scelto di studiare filosofia all’Università Ca’ Foscari Venezia e mi sono bastati pochi mesi di lezioni per capire che la filosofia meritava qualcosa di più che […]

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