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Fenomeni estatici, sciamanesimo e riti collettivi. Intervista a Paolo Pecere

Paolo Pecere è ricercatore e docente universitario presso Università Roma Tre, autore di saggi e romanzi, insegna storia della filosofia. Il suo ultimo libro è Il dio che danza, edito da Nottetempo nel 2021. Lo abbiamo intervistato per esplorare un mondo che sta mutando rapidamente, quello dei fenomeni collettivi legati a ritualità molto antiche; i motivi che tenevano questi fenomeni vivi e il loro potere terapeutico nonché aggregante.

 

Pamela Boldrin Il suo ultimo libro è un articolato racconto di diversi viaggi, in diversi anni, con un approccio antropologico di ricerca che si confronta con altri autori del passato mentre si immerge in alcune pratiche culturali tipiche delle diverse popolazioni che visita e che racconta, da un capo all’altro del mondo. Tra i fenomeni più interessanti emerge la trance da possessione, indotta grazie a cornici rituali peculiari, ben guarnite da musiche e danze. Si tratta di rituali collettivi con molteplici scopi e caratteristiche, che vedremo emergere nel corso dell’intervista. Quali sono i presupposti che le hanno ispirato questo lavoro?

Paolo Pecere – Molti anni fa, da studente, lessi un libro magnifico, La terra del rimorso di Ernesto de Martino. Ci trovai la prova che stati di trance, danze e riti di origine popolare e pagana erano esistiti in Puglia fino a qualche decennio prima, dove aiutavano i contadini a superare momenti critici e donavano momenti di liberazione, sfogo, esplorazione delle proprie parti oscure. La cosa mi colpì molto – anche perché in Puglia, dove avevo i nonni, trascorrevo ogni estate – e iniziai a domandarmi cosa restasse nel mondo di oggi di quelle pratiche scomparse che rispondevano a bisogni ancora vivi. Due anni fa mi sono reso conto che avevo fatto molti viaggi e studi cercando di rispondere a questa domanda, e ho avuto l’idea di scrivere il libro.

 

Pamela Boldrin – Definiamo alcuni elementi cruciali nelle esplorazioni del libro. Che cos’è la trance da possessione? Quali sono i suoi poteri sulla psiche umana?

Paolo Pecere – La trance da possessione si definisce come uno stato alterato della coscienza, in cui viene modificata transitoriamente la stessa identità dell’individuo, e che è considerata il risultato di un essere estraneo che anima il corpo del posseduto. Si tratta di una pratica ritualizzata in moltissime culture del mondo, che era comune anche nell’Antica Grecia. Il raggiungimento di un simile stato può condurre a un’agitazione terapeutica, alla disinibizione di comportamenti anomali o proibiti, i cui moventi sono spesso inconsci, a visioni e ispirazioni poetiche, in genere, quindi, corrisponde a una esplorazione di sé subliminale e drammatizzata. Tuttavia, nell’Italia di oggi si tratta di qualcosa di estraneo. Il cristianesimo concepisce la possessione come orribile invasione demoniaca, un’aberrazione patologica, escludendone il lato attivo e positivo che in culture come quelle indiane o amazzoniche è comune. Solo in cornici eccezionali, come alcune performance artistiche o feste clandestine, si è visto e teorizzato qualcosa di simile negli ultimi decenni.

 

Pamela Boldrin – In questo mondo di fenomeni che potrebbero suonare a noi distanti per tempi e cultura abbiamo un magnifico esempio in Italia: il tarantismo in Puglia. Chi erano le tarantate e i tarantati?

Paolo Pecere – Il tarantismo pugliese riguardava persone di origine umile, solitamente braccianti, che ogni anno accusavano un profondo e prostrante malessere, dichiarando di essere stati punti da un ragno, e venivano curati con un rituale di musica in cui si agitavano e danzavano. Questa condizione di marginalità era essenziale, poiché si trattava di una tradizione che rispondeva a condizioni di malessere vario, dalla durezza della vita dei campi a lutti e malattie non curate, oltre a matrimoni infelici e altre forme di oppressione che più spesso riguardavano le donne. Si trattava di situazioni tipiche di membri di classi subalterne. Bisogna ricordare che il tarantismo è stato diffuso anche al di fuori della Puglia, altrove in Italia e nel Mediterraneo. Esistono del resto pratiche simili in culture africane e nel mondo islamico, il che indica verosimilmente un passato di contatti culturali tra popoli.

 

Pamela Boldrin – Nelle prime pagine del libro compare una figura cardine che poi si ripresenterà nuovamente, un dio dai mille volti, incline alla possessione e alla connessione, capace di turbare e sconvolgere, fino alla temporanea perdita di sé: Dioniso. Chi era e da dove era giunto in Grecia?

Paolo Pecere – Dioniso era percepito dai Greci come un dio straniero, le cui origini leggendarie sarebbero risalite all’Asia (Alessandro Magno, come racconto nel libro, credette di ritrovarne le tracce in India, nell’attuale territorio pakistano). Si trattava di un dio dai vari attributi, variabili a seconda delle regioni e delle epoche, che Euripide cercò di riassumere nella sua tragedia Le Baccanti, ma che rimase presente fino alla Roma imperiale: inventore del vino, donatore di ebrezza e invasamento tra baccanti, un dio che “scioglie”, che “libera”, che fa danzare, e che nella Grecia classica fu anche legato all’origine del teatro. Era anche una manifestazione della natura selvaggia, in quanto tale anche minaccioso e sconvolgente, spesso dotato di parvenze di animali come il toro. Per lungo tempo si è ritenuto che il culto provenisse dalla Tracia, più di recente se ne sono trovate tracce nella civiltà minoica, dove pure esistevano fenomeni di possessione divina.

 

Pamela Boldrin – La figura di Dioniso è rilevante perché racconta un pezzo della storia dell’Occidente nel momento in cui il seme della sua ascesa si interrava nelle fertili congiunture dei popoli mediterranei che hanno dato inizio alla nostra storia e forgiato la nostra società, diversa da quella di altri popoli. Come si colloca il mondo del dionisiaco nella società greca, nella filosofia, con la sua nascita e con la nostra cultura?

Paolo Pecere – Il dionisiaco era al tempo stesso accettato e inquietante. L’arrivo del dio nella città, “l’epidemia”, era percepito come uno sconvolgimento della norma, e Euripide infatti presenta un conflitto profondo tra le istanze di Dioniso e quelle del re Penteo. Ancora nella Roma repubblicana i baccanali erano occasione di raduno e scatenamento di una comunità spesso marginale, come attesta Tito Livio a proposito del divieto dei baccanali promulgato dal Senato di Roma nel II secolo a.C. Non si trattava quindi al tempo stesso di una sfida ai costumi, realizzata dalla liberazione del corpo e dalla componente erotica del dionisiaco, e di una sfida politica, in cui si reclamava un benessere diffuso. Nietzsche riscoprì e esaltò l’importanza del dionisiaco in un mondo moderno borghese, interpretandolo alla luce della filosofia di Schopenhauer, come momento di “annientamento” dell’io e fusione gioiosa con un’energia primigenia. Questa lettura non coglieva alcuni aspetti empirici delle trance da possessione, in cui l’io non scompare del tutto ma si trasforma e porta alla luce contenuti oscuri. Giorgio Colli, in Italia, rilanciò l’idea del dionisiaco come sapienza arcaica, prefilosofica. Si trattava di ipotesi azzardate e non pienamente documentate. Ma è vero che la religione dionisiaca ha un valore anche dal punto di vista filosofico, come mostra ancora un episodio delle Baccanti di Euripide, quando il dio dice al re: «Tu non sai cos’è la tua vita, non sai chi sei e cosa fai». Domande del tipo di quelle che anche Socrate poneva agli Ateniesi in quegli anni.

 

Pamela Boldrin – I fenomeni di trance avvengono sempre in una cornice rituale o festosa collettiva e possiedono un potere che noi stentiamo a capire, forse ci siamo rinchiusi in una dimensione razionale-scientifica che tende a essere scettica e “boriosa” verso tutto ciò che appare sfuggente e irrazionale. Al limite, adottiamo gli approcci cataloganti delle categorie psichiatriche. Potrebbe definire meglio il nostro limite di comprensione di fronte a questi fenomeni che si sono a lungo diffusi in tutte le culture e manifestati con alcuni eloquenti elementi costanti nonostante le differenze?

Paolo Pecere – La psichiatria, nel DSM, riconosce la trance da possessione anche nel suo aspetto culturalmente codificato. Proprio per questo, tuttavia, riconosce l’esigenza di un allargamento della prospettiva rispetto al campo psichiatrico e medico ordinario, come hanno sottolineato molti etnopsichiatri. Non credo che i nostri limiti di comprensione dipendano tanto da un prevalere della razionalità scientifica, che non sembra godere di buona salute nella nostra società, quanto dall’assenza di istituti culturali paragonabili a quelli antichi e a quelli esistenti in altre culture. D’altra parte domina una concezione della persona come entità unitaria e responsabile, e pesa ancora la prospettiva cristiana per cui la possessione è aberrante. Il problema sta nel ricomprendere questi fenomeni e i bisogni ancora vivi che li producevano, e che tendono a ripristinare in altre forme, non ritualizzate, una mentalità magica. De Martino lo aveva capito bene, la sua ricerca era mossa da questo interrogativo, che io ho ripreso.

 

Pamela Boldrin – A questo punto possiamo introdurre una figura potente di alcuni fenomeni estatici: lo sciamano. Chi era? Verso la fine del libro lei ne accenna anche una versione moderna, urbana. Ci racconti un po’ dello sciamanismo nel suo sviluppo temporale.

Paolo Pecere – Lo sciamanismo era originariamente tipico della cultura siberiana – da cui proviene la parola – ma a partire dal ‘700 la categoria è stata diffusa dagli Europei e applicata a contesti di tutto il mondo. Si tratta di un personaggio che controlla il proprio accesso agli stati di trance, diversamente dai posseduti, e che pertanto ha una funzione di guida in processi di conoscenza, regolazione della vita quotidiana, cura e così via. Ancora oggi gli sciamani, per esempio in Amazzonia dove sono andato a cercarli, sono portatori di valori fondamentali di intere civiltà, come il rispetto di un limite in quanto gli umani possono togliere alla natura per il proprio nutrimento e benessere. Tuttavia, come ogni tradizione, anche lo sciamanismo si trasforma, e lo fa un modo profondo nel contatto con i modelli della nostra moderna civiltà. Lo sciamano che va in città è sradicato dal suo contesto di origine e trova bisogni e condizioni del tutto nuove in chi si rivolge a lui. Ritorna, con buone ragioni, un sospetto che fin dall’inizio ha accompagnato l’incontro con questa figura, cioè che alcuni sciamani siano ciarlatani. Nella società di massa lo sciamano può essere un manipolatore, un presunto visionario che in realtà è mosso da interessi mondani, o una personalità morbosa. In ogni caso, il ritorno incondizionato a miti e riti arcaici, non mediato da un atteggiamento critico, può essere deleterio invece che benefico, come aveva intuito, di nuovo, de Martino, quando parlava di Hitler come “atroce sciamano”. Questa ambivalenza è molto importante per me: bisogna ripensare l’importanza e il valore dello sciamanismo, sapendone vedere in filigrana il rischio, aprire il nostro orizzonte culturale senza abdicare alla razionalità.

 

Pamela Boldrin – La nostra idea attuale di integrità, unicità della persona, la sua identità che non tollera di essere un composto dinamico di differenze (pensiamo alla solidità del principio di non contraddizione) ci rende incapaci di elaborare la sofferenza quando ad animarci sono istanze di frammentarietà, conflitto, scomposizione? Questi spiriti che un tempo animavano le menti umane dando voce a un certo pluralismo, e di cui i suoi racconti ci illustrano la portata e la diffusione, dove sono finiti?

Paolo Pecere – Come racconto nel libro, in molte culture la molteplicità e spesso l’interna scissione della psiche individuale sono considerate comuni. L’identità non è un profilo rigido, ma il risultato di una continua negoziazione tra istanze diverse, associate a dei, spiriti, antenati, al corpo, e così via. Si può dire che, in certa misura, questo scenario è stato tradotto e introiettato nella psicologia moderna, dove si parla di personalità multiple, istinti, istanze della psiche (nella tripartizione freudiana di Io, Es e Superio), archetipi e modelli dell’io. Questo per un verso esclude che l’io sia diviso da vere e proprie persone eterogenee, come gli spiriti dei morti, riportando conflitti e alternative a una dinamica interna all’individuo. Tuttavia questa trascrizione cancella la dimensione rituale, corporea, drammatizzata delle crisi e delle danze di possessione, modificando profondamente l’orizzonte terapeutico e non solo della nostra consapevolezza.

 

Pamela Boldrin – Abbiamo, secondo lei, perso irrimediabilmente la conoscenza del fatto che c’è una quota di lavoro su noi stessi che possiamo fare solo mediante operazioni collettive? E che per questo lavoro servono delle “cornici rituali e comunitarie” che abbiamo trascurato?

Paolo Pecere – Penso che il nostro linguaggio psicologico mette in ombra la dimensione sociale dei conflitti, agita e teatralizzata nei rituali di possessione, cancellando il fatto che l’individuo include realmente come parti di sé ruoli, comportamenti e voci che ha ricevuto dall’esterno. Questo rispecchia in generale una rappresentazione della società in cui l’appartenenza a gruppi, classi e alla collettività in genere è di solito sfumata o negata, in nome di un linguaggio individualista. Questo non vuol dire le “cornici rituali e comunitarie” siano del tutto sparite – dall’arte alla religione, dalla società alla politica – né soprattutto che non si debba cercare di ripensarle e rivitalizzarle. Bisogna però rendersi conto prima di tutto di appartenere inseparabilmente a una comunità, e ancora di più, a un ecosistema. Allo stesso tempo, nella ricostruzione o nella invenzione di cornici rituali e comunitarie, non si deve gettare via un bene irrinunciabile che è stato prodotto dalla cultura moderna, cioè la capacità critica e razionale.

 

Pamela Boldrin – Le pulsioni irrazionali si condensano in energia oscura che preme dentro di noi e alimenta potenziali deflagrazioni, ma possiamo dare loro voce nel tentativo di non sconfinare in zone ombrose della psiche da cui è difficile fare ritorno. Il digiuno di collettività e possibilità di condivisione si è certamente acuito nell’ultimo anno e mezzo per tutti noi e quell’energia oscura prima menzionata potrebbe essersi ingrossata. Secondo lei, può un approccio filosofico capace di mediare tra razionalità e irrazionalità essere fonte di ispirazione per imparare nuove strade di terapeutica condivisione umana?

Paolo Pecere – Lo spero. Non a caso ho scritto il libro nel primo anno della pandemia. Mi pare necessario confrontarsi con un diffuso bisogno di rinnovamento culturale (e anche filosofico), che rispecchia un dato di fatto: il mondo in cui siamo vissuti per decenni è ecologicamente insostenibile e iniquo, e ci avviamo a un nuovo disordine globale. Di fronte a questo bisogno di rinnovamento, la filosofia ha proprio il compito di mediare tra razionalità e irrazionalità, tra universalismo e bisogni dell’individuo concreto, un compito per il quale non bastano vecchi paradigmi filosofico-politici, c’è bisogno di ampliare la propria conoscenza (anche scientifica e antropologica) e i propri orizzonti. Considero il mio libro un piccolo passo in questa direzione, e continuo a lavorare in tal senso con nuovi progetti.

 

Pamela Boldrin

 

[Ritratto fornito da Paolo Pecere]

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Pamela Boldrin

Curiosa, ecologista, accanita lettrice

Vivo a Noventa Padovana con mio marito, mio figlio e mia figlia dal 2012, ma sono nata e cresciuta in provincia di Treviso. Mi sono laureata a Padova in qualità di tecnica di neurofisiopatologia, lavoro che faccio tuttora come libera professionista (dopo anni da dipendente ospedaliera prima al Ca’ Foncello di Treviso e poi nell’ULSS […]

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