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L’Inno ad Arimane di Leopardi e la sofferenza del vivere

Leopardi ed Arimane sono due figure affascinanti. Il primo è un poeta filosofo vissuto tra Settecento e Ottocento, famoso per il suo pessimismo radicale ma anche per i suoi slanci eroicamente ribelli; il secondo è un’entità mitica, ovvero il presunto dio del male contrapposto ad Ahura Mazda nello zoroastrismo. Cosa le collega? Ebbene, Leopardi ha scritto nel 1833 un abbozzo di un Inno ad Arimane, che è rimasto in forma di appunto, ma che risulta essere di una profondità e di una forza emotiva sconvolgenti.

In questo testo, Leopardi, di fatto, invoca con rabbia Arimane, che viene definito come «Re delle cose, autor del mondo». Cioè il poeta ci sta dicendo che, nel momento in cui si sta apprestando a scrivere il suo Inno, egli concepisce l’intero sistema del mondo come creato e governato da un dio del male. E non un dio del male qualunque: si tratta di Arimane, ovvero l’equivalente del cristiano Satana. Può apparire strano che Leopardi, che si è sempre professato ateo, si rivolga ad una divinità. Tuttavia, è importante considerare che nelle indagini accademiche odierne relativamente al satanismo e alle sue forme, è spesso difficile distinguere tra satanismo ateo e satanismo teista. Dunque, mutatis mutandis, il “satanismo” di Leopardi, così come compare in questo Inno abbozzato, non è altro che una personificazione di quella Natura malvagia e matrigna di cui spesso ha parlato nelle sue opere.

Ci si può anche chiedere perché Leopardi nomini Arimane e non Satana. Ciò potrebbe essere stato dettato da una forma di erudizione, ma anche dal disprezzo che Leopardi portava nei confronti della religione cristiana, al punto tale da rifiutarne anche l’entità malvagia e preferire il suo equivalente in una diversa e più antica religione.

Il punto centrale di questo Inno si trova verso la fine. A fronte di una sofferenza fisica e psicologica prolungata, insostenibile e senza scopo, Leopardi prende atto di non poterne più della vita – «Non posso, non posso più della vita». E a questa consapevolezza segue la drammatica richiesta di morte ad Arimane, che viene pregato di non fargli superare i trentacinque anni. Abbiamo qui due giganti che si confrontano tra loro: da una parte un uomo disperato che vede l’unica possibile soluzione ai suoi tormenti nella morte, dall’altra uno spirito malvagio, autore di un mondo malvagio, che viene pregato, ma con disprezzo e rabbia, per ottenere la fine della vita. Leopardi non è mai stato così eroico come in questo Inno: anche di fronte alla morte, non si rivolge al cristiano dio del bene, ma preferisce un altro spirito, un dio malvagio che si è oggettivato in questo terribile mondo e che ne ha concepito lo schema con «somma intelligenza» e crudeltà. Rivolgersi a Dio (lo spirito buono), potrebbe richiamare l’idea del Paradiso e della redenzione in una interminabile gioia eterna; ma qui Leopardi insiste nella sua invocazione verso lo spirito del male, ben sapendo che forse tale spirito non è nemmeno reale e che dopo la morte tutto sarà finito, comprese le sofferenze.

Indubbiamente ognuno porta con sé i suoi drammi e i suoi dolori. Vi è chi è tormentato da sofferenze fisiche, chi da sofferenze psicologiche, chi da entrambe. Naturalmente l’intensità con cui esse si manifestano non è uguale per tutti. Tuttavia, è innegabile che nel mondo vi sia più male che bene, il che potrebbe portare allo scoraggiamento.
A volte, quando si parla della propria sofferenza con amici e conoscenti, ci si sente dire, ad esempio: “Ma dai, forza, coraggio, la vita è bella, le sofferenze passano, non essere così negativo…” Questi discorsi falliscono nella capacità di comprendere la sofferenza e quindi di creare una sorta di empatia che potrebbe giovare. Bisogna tenere conto che vi è chi soffre terribilmente e che queste frasi di circostanza, forse dettate più dall’imbarazzo e dall’impotenza che da un vero desiderio di aiutare, non fanno altro che porre una barriera ed aumentare il senso di disperata solitudine. Tuttavia, di fronte al dolore e alla sofferenza, può essere di conforto sapere che vi sono dei grandi artisti, poeti e filosofi che vi sono passati e hanno apertamente espresso le proprie idee e i propri sentimenti. E allora, l’Inno ad Arimane non risulterà scritto invano.

 

 

[immagine tratta da Unsplash]

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