Passo 1: la negazione
È quasi un mese che sono seduta accanto al tuo letto, in questa sterile camera d’ospedale che abbiamo cercato di rendere insieme un po’ più calda, un po’ più familiare. Una nostra foto, le tue creme, il tuo pupazzo portafortuna vicino alle tante, troppe medicine.
È quasi un mese che sono seduta costantemente accanto al tuo letto, ma un’ora fa ho deciso di andare a casa a fare una doccia. Sarà passata forse mezz’ora e mi hanno chiamato dall’ospedale: mi hanno detto che sei morta.
Ho ringraziato e ho riagganciato. Mi sono vestita, mi sono truccata e sono venuta in ospedale. Le infermiere mi sono venute incontro, mi hanno detto che erano dispiaciute, perché ormai a te erano affezionate, e mille altre cose che non ricordo o che forse, semplicemente, non ho ascoltato. Ho sorriso, ho annuito. Non ho versato neanche una lacrima. E poi mi hanno portata da te. E adesso mi ritrovo, esattamente come tutti gli altri giorni, seduta accanto a te, seduta accanto a un letto di ospedale, solo in una camera che non ha niente di personale.
È tutto così irreale.
Ti guardo e non ti vedo, ti tocco ma non ti sento. Forse questa non sei neanche tu.
Passo 2: la rabbia
Ho dormito come non dormivo da settimane. È stata una notte buia, profonda. Non ho sognato. Questa mattina mi sono svegliata e senza pensarci mi sono vestita, ho preso la macchina e sono venuta in ospedale. Ho parcheggiato e sono salita in reparto. Sono arrivata davanti alla tua camera.
Non c’era più niente. Non c’eri più tu.
È in quel momento che ho realizzato che te ne sei andata, che mi hai abbandonato. Ho iniziato a sentire dentro di me un vuoto incolmabile. Un vuoto che fa male. Il dolore si è localizzato nel petto. Una fitta che mi ha tolto il fiato. È passato allo stomaco. Credo che le mie interiora si siano attorcigliate tutto d’un tratto. E poi… poi semplicemente si è diffuso a tutto il corpo. E sono rimasta immobile, davanti a quella porta, stretta in una morsa, fino a quando non mi sono abituata a quel dolore.
Ed è esplosa la rabbia. Violenta. Improvvisa. Inaspettata.
Mi si è avvicinata un’infermiera, che mi ha guardato con una tale pena negli occhi da farmi vergognare. E ho iniziato a urlare. Ho chiesto di essere lasciata in pace, in fondo ero solo passata a vedere se avevo dimenticato qualcosa la sera prima. Ma che mondo è questo? Siamo state un mese in quella stanza e adesso che sei morta non mi ci fanno neanche avvicinare? È una vergogna. E me ne vado. Salgo in macchina e inizio a correre, senza sapere dove andare, smarrita.
Sono arrabbiata. Arrabbiata con l’ospedale che ha già riempito la tua stanza. Arrabbiata con me stessa per essere venuta lì, convinta di trovarti. Arrabbiata con tutto il resto del mondo, che continua ad andare avanti come se nulla fosse successo. Mi guardo intorno e vedo la gente ridere, sbuffare, parlare al telefono. E tutto questo mi fa arrabbiare ancora di più. Sono talmente arrabbiata che stringo il volante fino a farmi male alle mani. Sono talmente arrabbiata che non so neanche quello che sto facendo o dove io sia.
Sono talmente arrabbiata che penso di odiarti.
Come hai potuto? Perché sei stata così egoista da lasciarmi? Mi hai abbandonata. Qui. Immobile. Sospesa. Non mi hai spiegato come fare ad andare avanti. Non mi hai spiegato come affrontare tutto questo. Non mi hai neanche aspettato per andartene. Lo hai fatto quando io non c’ero. E non me lo perdonerò mai. Perché mi hai fatto questo? Perché non sei andata prima dal medico? Perché hai voluto fare tutto da sola?
Sono arrabbiata. E sono arrabbiata proprio con te. Ma la verità è che la rabbia non mi impedisce di amarti e di sentirmi meno sola.
Passo 3: la negoziazione
È passato un mese. La rabbia è stata la mia compagna quotidiana. Ho mangiato rabbia. Respirato rabbia. Vomitato rabbia. La rabbia ha assorbito e bruciato tutte le energie che avevo. Ho provato a seminarla. Ho cercato di reagire alla sensazione di impotenza che provavo. Ho cercato delle risposte. Ho cercato giustificazioni. Mi sono detta che non eri più tu. Mi sono detta che è stato un bene. Per te, che non avresti più sofferto. Per me, che non ti avrei più vista soffrire, che avrei potuto riprendere il lavoro, che avrei potuto riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata quando avevo capito che non ci sarebbe stato più molto tempo per noi. Mi sono detta che qualcosa dopo la morte ci deve pur essere. Mi sono detta che mi saresti stata sempre vicino. Mi sono detta tante cose e mi sono arrabbiata tante volte. Ho fatto tutto questo per avere uno scudo dal dolore. E forse è vero, con lo scudo della rabbia e delle giustificazioni si soffre in modo diverso, ma si soffre lo stesso. E la cosa più difficile è dire a me stessa che tu non tornerai più. Che l’ultimo abbraccio è stato veramente l’ultimo. Che l’ultima risata è stata veramente l’ultima volta in cui ti ho visto sorridere, l’ultima volta che ne ho sentito il suono.
Ma tu non tornerai più.
Questa è la realtà.
Passo 4: la depressione
Ed è arrivato il momento in cui ho ammesso che eri morta. Che non potevo farci niente. Che non potevo scappare da quella che era la realtà. E sono caduta. Nella disperazione. Nella depressione. Non mi sono alzata dal letto per una settimana. Non mi sono lavata. Non ho mai aperto le finestre per guardare se pioveva o se fuori c’era il sole. Ho pianto e dormito. E ho pianto ancora. Ho digiunato. E poi ho mangiato chili di biscotti, gelato, patatine. Anche in quest’ordine. E ho annusato i miei cattivi odori. Non ho mai acceso il telefono o risposto al citofono. E quando mi è sembrato di non soffrire abbastanza ho spruzzato il tuo profumo sul cuscino. E ho ricominciato a piangere. Fino a quando non ho iniziato ad alzarmi e a fare qualche passo, prima incerto, poi più deciso.
Passo 5: l’accettazione
E sono sopravvissuta. Pensavo che non ce l’avrei fatta. Pensavo che non sarei mai più uscita da quel letto. Pensavo che non sarei riuscita a sopportare tutto quel dolore. Ho avuto paura di vivere e ho sperato di morire, per non provare più niente. Ma non sono morta, sono viva. E sono in piedi. Un po’ azzoppata forse. Ma in piedi. Ho affrontato tutto il dolore che avevo, non sono scappata.
Ho negato la tua morte, mi sono arrabbiata, ho cercato delle spiegazioni, mi sono abbandonata al dolore e adesso sono qui, ad accettare tutto questo. Anche se non mi piace. Ho accettato di dirti addio. Ho accettato il vuoto che mi hai lasciato. E ho accettato di dover riprendere la mia vita.
Soffro meno?
No. Il dolore ancora mi accompagna silenzioso. E a volte, quando mi distraggo, mi colpisce. Una canzone, un profumo, un luogo: un ricordo. E mi devasta. Ma poi si ritira. Per poi ritornare. Ma lo so, le ondate saranno sempre meno frequenti, sempre meno violente, fino a quando la cicatrice nel mio cuore si rimarginerà del tutto e pensarti non mi farà più così male.
Quanto ci può mettere un cuore a guarire? Un tempo “giusto” non c’è, ci sono “solo” cinque passi [₁].. il tempo dipende da quanto ci impieghiamo a mettere un piede davanti all’altro. È come imparare di nuovo a camminare. È come imparare di nuovo a vivere.
[₁]ELISABETH KÜBLER ROSS. Sulla morte e sul morire, 1969.
Giordana De Anna
[Immagini tratte da Google Immagini]