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Googlarsi.

Andate sulla barra Google. Inserite il vostro nome e cognome. “Googlatevi”. I risultati corrispondono a quello che siete adesso? Le notizie su di voi coincidono con la persona che siete attualmente al di fuori di internet? Ora ripetete la “googlata”. Ma inserendo il nome di un’altra persona. Chi di noi non l’ha fatto inserendo il nome del responsabile HR del nostro imminente colloquio di lavoro, o del nostro proprietario di casa, o di un nostro collega? Tra 3 minuti magari vi ritroverete a googlare il mio nome per capire “chi è questa Donatella Di Lieto?”. Nel nostro quotidiano “Chi è Donatella secondo Google?” è diventato sinonimo di “Chi è Donatella?”. E l’affidarci al “ora vado a vedere su internet chi è “, è ormai sempre più radicato nelle nostre abitudini. E’ il nostro modo immediato informarci. E’ la telefonata all’amica di amici in versione 2.0.

Quando cerchiamo un nome, siamo convinti che quanto trovato su Google sia tutto, o se non altro abbastanza. Ci affidiamo a Google. E come si fa a contemperare il nostro diritto a riconoscere noi stessi su Google con il diritto di informarci su Tizio senza omissioni? Nei giorni scorsi a Roma si è riunito l’Advisory Council di Google sul “diritto all’oblio”. In pochissime parole la Corte europea ha riconosciuto ai cittadini Ue il diritto di rimuovere dai risultati di ricerca alcuni link collegati alla propria persona. Tale decisione,come è facilmente immaginabile, ha sollevato delle questioni giuridiche, politiche, etiche, filosofiche. L’esigenza è quella di ponderare il diritto all’informazione e all’oblio. In questo scenario uno degli aspetti fondamentali su cui l’Advisory Council si sta confrontando è proprio quello del fondamento etico-filosofico del “right to be forgotten”. Non a caso, l’unico italiano presente nell’Advisory Council è Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford, Senior Research Fellow e direttore della ricerca presso l’Oxford Internet Institute, nonché Governing Body Fellow del St Cross College di Oxford. Alla base di una serie di considerazioni legali e tecniche ne svetta una particolare: quella etico-filosofica che porta alla luce concetti quali la memoria, l’oblio, il pentimento, la redenzione, l’errore ed infine un nuovo modo di intendere “l’intelligenza collettiva”.

Pierre Lévy scrive:

“Che cos’è l’intelligenza collettiva?. In primo luogo bisogna riconoscere che l’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l’intelligenza collettiva”.

Verrebbe da dire “vedremo” come cambierà questo modo di cooperare alla luce della sentenza della Corte. In realtà siamo noi stessi a dover cambiare. Non è più il mezzo, ma il modo. Nel frattempo vado a cercare il mio nome su Google.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]


[Immagini tratte da Google Immagini]

 

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