Home » Rivista digitale » Sguardi » Società » Gli invisibili: tra eccellenza ed inesistenza

Gli invisibili: tra eccellenza ed inesistenza

Ormai il mantra collettivo è quello dell’homo homini lupus. Il mondo è dei forti, dei furbi, dei più adatti, come dicono le rimasticazioni perverse del neodarwinismo. Dalla scuola, al mondo del lavoro, alla strada, le leggi dominanti sembrano essere quelle del bullismo, del mobbing, delle aggressioni. Guai ai deboli, ai sensibili, ai diversi di ogni specie! La legge del branco non ammette deroghe. O ti sottometti al più forte e stai nella sua ombra, o non hai scampo — in un modo o nell’altro prima o poi riusciranno a cancellarti dal loro orizzonte. La cortesia, la gentilezza, il sorriso, l’attenzione benevola che, per sua natura, l’essere umano è sempre stato in grado di offrire ai suoi simili, sono stati spazzati via in un paio di generazioni, lasciando al loro posto dei ghigni vuoti, che di umano hanno davvero poco.

Questo è solo parte dell’ampio discorso di Susanna Tamaro durante una Lectio Magistralis tenutasi all’apertura del Salone del Libro a Torino e tesa a riportare l’attenzione sul concetto di bene.

Perché sono stato così colpito dalle sue parole?

In primo luogo perché sono parole che condensano una evidenza così tangibile e allo stesso tempo così quotidianamente mistificata, da risultare illuminanti.

Spesso ci piace considerarci come una rappresentazione dell’Occidente civilizzato, moderno e progredito.

Basta poco per creare il nostro schermo di perbenismo, tanto ipocrita quanto efficace: un taglio alla moda, un vestito costoso, un trucco adeguato, sostenere apertamente certe idee a seconda del momento, criticarne delle altre.

Ed è così che nasce la mia domanda: in questo tipo di mondo, esiste un posto per chi non voglia essere lupo tra i lupi?

È una domanda diretta e che vuole abbracciare ogni contesto, ogni settore, ogni spazio della nostra società, nella maniera più ampia possibile.

Prendiamo un esempio che coinvolge molti giovani: il mondo del lavoro.

Da qualsiasi angolazione lo si voglia provare ad osservare, il pianeta-lavoro esprime un’attenzione particolare, quasi morbosa verso aggettivi quali “brillante” o “eccellente”, che stanno ad indicare una posizione di preminenza, di predominio (figurato, ma neanche troppo) rispetto agli altri possibili candidati.

A questo punto, dopo essermi fatto una bella ‘navigata’ nei vari annunci, mi sono interrogato sul reale valore di queste parole.

Che cosa significa esattamente essere “brillante” o “eccellente”?

Il nocciolo della questione: se per ogni posizione lavorativa è richiesta una personalità uber alles -sopra tutti-, che cosa ne rimane dei soggetti normodotati che popolano la maggior parte del pianeta?

Siamo seri, se pensiamo davvero che le “eccellenze”, le teste geniali, i proverbiali “cervelli in fuga” costituiscano la maggioranza degli abitanti della terra, stiamo prendendo un granchio grosso e gustoso.

Le personalità geniali, i visionari in grado di cambiare il mondo con le proprie idee, di uscire dagli schemi per aggiungere una tacca al bastone del progresso non sono notoriamente erba di campo, non crescono nel giardino di ogni viale.

Che cosa rende, questa è la vera domanda, un candidato idoneo ad essere considerato “eccellente” ai nostri giorni?

L’intelligenza sicuramente, la capacità di assorbire ed immagazzinare nozioni e di raggiungere risultati.

Non importa come ci si riesca, l’importante è arrivare alla meta, con ogni mezzo a propria disposizione.

Fondamentale è emergere, staccarsi dagli altri, lasciarli a rotolarsi nel fango e nella polvere delle retrovie.

Poco importa se con questi “altri”, poi, ci si dovrà imparare a convivere per il resto dei propri giorni, nello stesso striminzito lembo di cemento.

Ecco dunque che l’attualità apparecchia una tavola che deve essere imbandita di soli piatti forti, adorna di Grand Gourmet e che svilisce e occulta i sapori non solo del fast-food, ma anche della cucina popolare: quei gusti sani, che non badano all’estetica funzionale, ma che si concentrano sulla genuinità e sulla tradizione.

Ed è così che si rimpolpa la schiera degli invisibili, come sto imparando a chiamarli.

Una cerchia di persone che non hanno mai voluto basare la propria esistenza sul costante ed essenziale perseguimento di un unico scopo, che non hanno mai inteso fare lo sgambetto a qualcuno, che mai hanno provato invidia verso chi conseguiva risultati migliori dei propri e che si sono sempre fatti degli scrupoli etici e morali.

Quella schiera di persone che, per i motivi più disparati, hanno vissuto la loro vita costellata di ostacoli ed asperità, ed hanno saputo flettersi senza piegarsi, o spezzarsi per poi riassestarsi con pazienza e costanza.

Quelle persone che per caratteristiche personali, per sensibilità o emotività, per semplicità o bonarietà, non hanno mai sentito il bisogno viscerale di incanalare le proprie energie vitali sul binario della competizione fine a se stessa, né hanno creduto di sviluppare la propria persona in funzione di questa.

Con questa chiosa non intendo nella maniera più assoluta delegittimare chi ottiene risultati eccellenti ed ha saputo costruire in maniera impeccabile ed estremamente efficace la propria vita.

Anzi, a queste persone vanno tutta la mia ammirazione ed il mio rispetto.

Io credo fermamente nel merito, e nel fatto che le capacità debbano essere sempre premiate e riconosciute.

Il mio discorso vuole essere invece un ponte ideale con quanto detto da Susanna Tamaro, rispetto al fatto che la nostra società ci impone di essere in un certo modo e difficilmente lascia spazio ed ossigeno a chi non decida di omologarsi in maniera fedele ai modelli comportamentali proposti.

Eccelle chi riesce a primeggiare, a qualsiasi costo, concentrando la propria esistenza verso un determinato goal.

L’esempio sbandierato finisce per essere una versione riveduta e corretta (o corrotta) del superuomo Dannunziano: dove l’obiettivo iniziale e quello finale confluiscono nella prevaricazione – in termini di voti prima, di risultati pratici poi – rispetto agli “altri”,  in una concezione che va sempre più verso la svalutazione predefinita del valore dei propri simili e verso la più cieca e totale realizzazione della rappresentazione di noi stessi che ci viene richiesta, a gran voce, per poter emergere e trovare spazio.

Mi chiedo se il possesso di determinati valori e caratteristiche impopolari come l’umiltà, l’autocritica, la curiosità, la capacità di sognare, l’amore per il sapere e la facoltà di vedere il bello, la volontà di ipotizzare un mondo dove c’è spazio per tutti, possano ancora trovare una via per emergere ed essere rispolverati ed implementati in un sistema che tende a ghettizzarli, relegandoli a “difetti di fabbricazione”.

Di fronte alla tecnocrazia dilagante che tende ad inserire la legge scientifica o il procedimento meccanico e certo a scapito del “dubbio metodico”, dell’incertezza data dallo sguardo di chi voglia porsi continue domande, il grosso rischio è quello di continuare a coltivare schiere di bellissimi e sani, ma insipidi vigneti.

Ottime menti negli specifici campi di appartenenza, pessimi cittadini in un mondo sempre più cosmopolita e pungolato da nuovi e costanti problemi e da necessità che coinvolgono il galateo del “buon vicinato globale”.

Problemi e questioni, questi, che non possono essere risolti imparando nozioni a pappagallo e nemmeno per il tramite di complessi algoritmi, ma che richiedono di proiettare sé stessi, di mettere ciò che ci circonda e di considerarci- prima di tutto – in continua discussione.

Se il mondo procede in una direzione, e a noi sembra di marciare in senso opposto, non c’è motivo di ritenere che siamo sbagliati, ma c’è sempre un motivo per essere contenti di aver esercitato il nostro spirito di osservazione e di averlo fatto confrontare con l’identità della nostra persona.

Un vero e sano esempio di misconosciuta ed inestimabile eccellenza del pensiero.

(Fonte della citazione:
Salviamo la generazione del nulla: http://www.corriere.it/cultura/14_maggio_08/salviamo-generazione-nulla-267ffe50-d686-11e3-b1c6-d3130b63f531.shtml)

 

 

Massimiliano Santolin

Classe 1987, Massimiliano Santolin ultima gli studi al Liceo Classico A. Canova nel 2006.
Laureato in Giurisprudenza, coltiva da sempre l’amore per la scrittura, l’arte e la cultura, ed abbina una spiccata curiosità nei confronti di quanto accade nel mondo ad un anima molto sensibile.
Scrive con passione articoli che riflettono sui “perché” e i “per come” dei fenomeni che toccano la quotidianità.
Convinto sostenitore del fondamentale ruolo educativo e formativo della storia e della filosofia, sostiene con gioia l’ambizioso progetto avviato da La chiave di Sophia.

[Immagini tratte da Google Immagini]

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!