Per Foucault, che considerava il proprio lavoro più affine a quello del giornalista che a quello del filosofo, giornalismo e filosofia si intrecciano e modellano a vicenda, dando vita, alla fine, alla soluzione della problematica sull’oggi e il rapporto tra l’evento del momento e l’attualità. Proprio Foucault è il punto di partenza (già alla fine del XVIII secolo) per analizzare il fatto che “non ci sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: Chi siamo noi adesso? Ma penso che tale domanda sia il fondamento di chi, forte della sua etica e deontologia professionale, dedica la sua vita al giornalismo”. Ecco che, al momento, la domanda da porsi, sia esso un filosofo o un giornalista è quale significato acquista, oggi per noi, il cosiddetto “giornalismo filosofico”.
La risposta va ricercata su entrambi i fronti, ascoltando la voce del “filosofo” e quella del “giornalista”, analizzando il tutto da entrambe le prospettive. L’obiettivo è proprio quello di capire in cosa consista la differente angolatura tra le due e dove risieda la loro specificità. In altri termini: cosa significa praticare giornalismo filosofico dal punto di vista di un giornalista e da quello di un filosofo. Ruolo importante, in entrambi i casi, lo svolge la pratica del dire la verità all’interno del giornalismo filosofico e di che tipo di verità eventualmente si tratta. Insomma, il “giornalismo filosofico” consiste in una sorta di “battaglia a colpi di verità” contro il potere o produce piuttosto uno slittamento della posizione, della funzione e anche del significato di “verità” (spostando il problema sul piano della visibilità, ovvero, in termini prettamente e squisitamente filosofici, rendendo visibile ciò che non lo è (tornando indietro nell’antichità la sostanziale differenza tra noumenon e phenoumenon)? In questo caso diventa fondamentale, per produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità. La verità intesa in senso oggettivo, senza giudizi personali, secca, così come è realmente accaduta. Entra, solo dopo, in gioco il rapporto tra “giornalismo filosofico” da un lato e critica dall’altro, e in che modo la critica può aprire concretamente nuovi spazi di resistenza. Partendo dall’Illuminismo, Foucault utilizzava l’espressione “ontologia critica di noi stessi“ per indicare un atteggiamento in cui “la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei nostri limiti e prova del loro superamento possibile“.
Un pensiero che sottintende al fatto che la pratica del “giornalismo filosofico” vada inserita all’interno di un processo di trasformazione e cambiamento rispetto al contesto, sempre specifico e politicamente determinato, in cui agisce. Questo non vuol dire alterare la verità piegandola al “volere” della politica trasformandola quindi in una “non verità”, ma analizzarla con oggettività e obiettività come base per una discussione finemente politica che faccia emergere problemi e conseguenti soluzioni. Diventa, se etica e deontologia vengono rispettate come dovrebbe un giornalista, inutile parlare o discutere di “militanza” nel caso della pratica del “giornalismo filosofico”, non additando, dunque, il “giornalismo filosofico” come modalità di “engagement” politico o di resistenza. La posta in gioco principale consiste, concludendo, nella capacità di superare definitivamente l’opposizione tra lavoro teorico ed “engagement” individuale, introducendo nuove possibilità per colui che pratica il giornalismo filosofico di essere coinvolto in prima persona rispetto al proprio presente. In parole più semplici, la verità inconfutabile come base per la discussione politica/filosofica su basi concrete e non su voli pindarici. Compito, quest’ultimo, che ritroviamo proprio nel pensiero di Foucault. “Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale – diceva il filosofo – e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data”. All’interno di questa prospettiva di indagine, diventa fondamentale allora chiedersi, concretamente, quali siano le connessioni più efficaci e realizzabili che il giornalismo filosofico può intessere con gli specifici contesti sociali: in quali campi, oggi, la pratica del giornalismo filosofico abbia maggiori margini di manovra e possa dare luogo a trasformazioni significative al livello dei rapporti di forza esistenti.
La risposta sta nel giornalismo di indagine e nel lavoro di ufficio stampa e portavoce nel quale (se svolto con correttezza, etica e professionalità) l’indagine conclusa o l movimento politico (inteso anche come persona fisica che “vive” di politica) siano solo lo specchio pulito di una realtà oggettiva che, a quel punto, viene comunicata solo con un messaggio meno tecnico e accessibile a tutti. Per chi lavora nel capo della filosofia come nel campo del giornalismo, dunque, bisogna sempre tenere presente il detto che narra che “se tu non ti occupi di politica, prima o poi sarà la politica a occuparsi di te”. E se dunque, di necessità virtù, l’argomento va affrontato, questo avvenga senza alcuna negazione o mistificazione di una realtà oggettiva e narrata in modo cronistico.
Gian Nicola Pittalis