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Gilles Deleuze, a vent’anni dalla morte

A 20 anni dalla morte di Gilles Deleuze poco è cambiato sulla scena della filosofia mondiale, in questo ultimo ventennio ha soffiato un vento rarefatto e non si sono registrati epocali novità.
Del postmoderno si dice spesso che sia l’epoca delle citazioni, destinata a vivere guardando indietro; a questo riguardo Deleuze fu un pensatore che seppe andare controcorrente, non risparmiandosi una metodica schizofrenica sperimentazione: egli fece di una solida formazione da storico della filosofia non una zavorra, ma un trampolino, avendo a disposizione per questo scopo un armamentario di concetti e concezioni, di cui, come utensili del mestiere, sapeva servirsi.

Fu tra i primi negli anni ‘60 a liberare Nietzsche dall’ombra del nazismo, lo rese attuale, dandone una lettura coerente, sistematica e parecchio convincente. Ne mostrò il potenziale intrinseco, il non detto, l’ombra, proprio là dove si pensava di aver già detto tutto ciò che c’era da dire.
Da giovane professore universitario guidò a posteriori il ’68 oltre le mere rivendicazioni che premono a chi ha da poco acquisito un certo potere, sapendogli dare la forma di un Evento, una veste filosofica, salvandolo forse da quel macello di buone intenzioni chiamato Storia.

L’opera paradigmatica del suo rapporto con i moti del ’68 fu l’Anti-Edipo, scritta a 4 mani con l’amico Felix Guattari: questa ha come avversario teorico la psicoanalisi, vista come scienza dedita alla forzata reintroduzione del complesso edipico come norma dell’inconscio, quando questo è invece libero e creativo. Detto altrimenti, secondo i due autori lo psicanalista ha il compito di riportare ogni problema del paziente alla dimensione mitico-parentale, pur facendo salti mortali e improbabili congiunzioni.


“La fuga schizofrenica stessa non consiste solo nell’allontanarsi dal sociale, nel vivere ai margini: essa fa fuggire il sociale attraverso la molteplicità dei fori che lo rodono e lo trapassano, sempre in presa diretta su di esso, sempre in atto di disporre ovunque le cariche molecolari che faranno saltare quel che deve saltare, cadere quel che deve cadere, assicurando in ogni punto la conversione della schizofrenia come processo in forza effettivamente rivoluzionaria”

Per una filosofia tesa ad esaltare la forza dell’uomo e le sue capacità inesplorate, tutto ciò che inibisce, riporta alla colpa o “sgrida” è da evitare in quanto oppressivo strumento del potere. In quest’ottica la tristezza non ha nessuna dimensione nobile, niente di intelligente: chi si intristisce vede perdere ogni energia e se non riesce a spezzare il circolo vizioso ne rimane sopraffatto.
Così lo schizofrenico viene preso come modello di libera esteriorizzazione delle pulsioni, perché nessun pensiero viene trattenuto o filtrato, ma in esso tutto fluisce libero.

Non manca del tutto il bersaglio la critica secondo la quale gli autori, Deleuze in particolare, non avessero la minima conoscenza diretta di uno schizofrenico. Guattari, avendo invece collaborato con la clinica psichiatrica La Borde, aveva avuto probabilmente la possibilità di una conoscenza meno mediata.
Questa creatura letteraria viene in fretta marginalizzata -anche a causa della difficile incomprensibilità di certi passaggi- e vissuta dai due autori come una vera e propria sconfitta.
Deleuze abbandona progressivamente la riflessione politica e non ne dice più nulla di significativo se non in maniera indiretta. La riflessione viene a concentrarsi su altri temi e altri autori.

In seguito alla morte di Guattari nel ’92, Deleuze affermerà di sentirsi come se avesse perso una parte del proprio corpo e il 5 Novembre 1995, Gilles Deleuze si toglierà la vita defenestrandosi in seguito a problemi respiratori.
Francesco Fanti Rovetta

[immagine tratta da Google Immagini]

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