Il gatto filosofo siede sul davanzale della finestra, oppure sul termosifone che vi sta appena sotto. Da quella posizione privilegiata sul mondo, il gatto filosofo siede e pensa, come Leopardi osservava l’ermo colle e la siepe che precludono lo sguardo dall’immensità dell’infinito. Così s’annega il pensier suo, e all’umano che tenta di richiamarlo nega attenzione. Al suono del suo nome, il gatto filosofo gira l’orecchio, a volte anche l’altro: così comunica all’umano che lo sta volutamente ignorando.
Quali interminati pensieri in quella profondissima quiete? Il gatto filosofo fa proprio l’antico imperativo “conosci te stesso”: si conosce dai baffi alla punta della coda e giunge a concludere che, per dirla alla Neruda, ogni gatto vuol solo essere sé stesso perché è perfetto, completamente rifinito. Parte da sé dunque per esplorare la realtà che lo circonda con acuto fiuto sensibile e razionale; si chiede da dove viene, dove andrà, cos’è bene e cosa è male, e se esista un dio per tutti, animali e umani. Quel che non si chiede mai il gatto filosofo è perché esiste: tanto è cosa assai evidente e risaputa che non se ne possa fare a meno.
Filosofa allora il gatto filosofo mentre l’umano lo chiama, e lo ignora perché l’umano non filosofa. Sa che in parte non ne ha il tempo: se ne sta fuori tutto il giorno – riflette il gatto filosofo – e torna alla sera con l’aria stanca, stravolta. L’umano pulisce la lettiera e raccoglie i peli, prepara i pasti, ma il resto del suo tempo lo passa sul divano davanti alla scatola parlante. L’umano perde ore davanti a quelle immagini che sembrano proprio le ombre della caverna: l’umano le guarda e si perde la verità che sta fuori, proprio perché non filosofa. Imperdonabile, conclude rassegnato il gatto filosofo, che pur quando decide di far compagnia all’umano davanti alla scatola parlante, preferisce giustamente dormire.
Poiché non approva la sua condotta, il gatto filosofo stabilisce con il suo umano la classica dialettica hegeliana servo-padrone in cui lui è ovviamente in posizione di vantaggio. Concorda inoltre con l’insegnamento del Protagora dei gatti per cui “il gatto è misura di tutte le cose”, e tra queste cose, anche del tempo. Un po’ come faceva (involontariamente) Kant per i cittadini di Königsberg, il gatto filosofo scandisce la giornata del suo umano in due momenti fondamentali, di cui il primo si identifica naturalmente con la cena. Il secondo invece corrisponde a quell’istante della notte (alle 3.45 o alle 5.27) in cui il gatto filosofo, stanco di dormire, decide di verificare che l’umano sia ancora vivo, visto che rimane disteso immobile così a lungo, e parlando senza sosta lo costringe ad alzarsi. Uno potrebbe stoltamente pensare che il gatto filosofo, poiché dorme più di metà della sua giornata, non sappia distinguere lo scorrere dei giorni. Invece lo sa eccome: dalla sua postazione sulla finestra, prima di svegliare il suo umano, il gatto filosofo si perde a osservare con ammirazione il cielo stellato sulla sua testa ascoltando la legge morale nel suo profondo.
La sua legge morale è molto semplice e tra i primi punti in elenco vede l’alternare la riflessione filosofica a momenti di svago e di pennichella. Il gatto filosofo gioca con nastrini, palline, elastici e tutto ciò che si muove (e che non si muove) come esercizio per la sua magnifica res extensa; anche il sonno è fondamentale perché il flusso di pensieri della sua raffinata res cogitans deve essere periodicamente rallentato per evitare il sovraccarico. La legge morale del gatto filosofo stabilisce anche che il rapporto con il proprio umano debba essere un catulliano odi et amo, non un democratico do ut des. Nonostante ciò il gatto filosofo pensa a Socrate e sa che la filosofia viene meglio quando è dialogica. Per questo tenta una comunicazione con il proprio umano, anche se sa che puntualmente l’umano lo fraintenderà: riempirà ciotole, farà scorrere l’acqua, tirerà fuori giochi e spazzole, aprirà porte per la terrazza o il giardino. Perché l’umano non filosofa e non capisce l’importanza di quella tentata conversazione.
Così il gatto filosofa nella sua dimensione irraggiungibile all’umano. Nella sua lunga e statuaria posa sulla cima di un trespolo o di una mensola, o accovacciato su un gradino, dimostra d’essere in un tempo e spazio misteriosi e ignoti all’uomo, a cui non rimane altro che ammirare la magnificenza di quella stasi e rispettare (pur senza conoscere e comprendere fino in fondo) la grandezza di quella mente.
Giorgia Favero
[Photo credits unsplash.com]
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