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la dolce vita

Estetismo ed estetica del quotidiano in “La dolce vita”

Tentare di spiegare La dolce vita equivarrebbe a un’operazione almeno in qualche misura impropria: si tratta infatti di una pellicola che più di altre rinuncia a enucleare concetti, per proporre invece rappresentazioni sensibili di un vissuto. Con questa consapevolezza si possono rileggere alcune caratteristiche di un film la cui ampia celebrità ha talvolta offuscato l’indagine espressiva felliniana.

La dolce vita non si azzarda a proporre definizioni della vita, ma tanto più efficacemente la esibisce in quanto ne cristallizza i momenti in cui più intensamente se ne avverte il sentimento: il desiderio giocoso di una ingenua bellezza hollywoodiana, gli amori senza impegno, i divertimenti di una nobiltà vacua sono la straordinaria routine del giornalista Marcello Rubini. A una lettura ingenua verrebbe spontaneo riferire la dolcezza della vita cui accenna il titolo del film all’eccezionalità delle esperienze di cui si è spettatori, quasi simboli di una vita eletta o forzata a elevarsi a opera d’arte. Al contrario, è la ricerca di un’integrale autenticità che riesce a costituire il tessuto lirico della vicenda: lontano da estetismi rutilanti, La dolce vita pone in questione, prendendone ironicamente le distanze, l’impressione di una bellezza “grande” e artefatta.

Di fianco allo splendore di una vita votata all’eccezionalità, irrompono sulla scena figure appartenenti al sostrato quotidiano dell’esperienza esistenziale di Marcello. Così, trovano spazio il grottesco di un padre che non fornisce alcun punto di riferimento, la simpatia del tutto ordinaria di una giovane cameriera (Paolina), l’apprensione prosaica di una fidanzata delusa ma morbosamente legata al protagonista. La funzione comunicativa di queste immagini è quella di mettere in discussione il paradigma di vita proposto dalla fantasmagoria estetizzante del mondo dello spettacolo e dell’élite cui Marcello assiste in qualità di giornalista: ovvero da osservatore, in quanto tale solo parzialmente partecipe, di un mondo che si esaurisce nella propria spettacolarità.   

A tutto ciò fa da contraltare il personaggio di Steiner. Intellettuale rigoroso, egli è, significativamente, l’unico di cui conosciamo la famiglia e la casa, elementi della cui assenza Marcello – figlio di un padre assente e incapace di formare una propria famiglia con Emma – sembra soffrire; Steiner è il solo a indicare un’alternativa coerente all’erratica esistenza di Marcello. Su suo esempio il protagonista aspira all’approfondimento intellettuale in luogo della scrittura giornalistica, che assurge a metafora di un’esperienza esistenziale frammentaria. È proprio il ritrovamento di un’estetica, cioè di una teleologia e di uno scopo nella quotidianità che viene a mancare nel vissuto di Marcello, lacerato com’è dalle tensioni effimere di una vita “giornalistica” in quanto compresa nell’accadere di un singolo giorno. All’estetismo giornalistico si oppone così l’interrogativo su un’estetica del quotidiano: è possibile sentire la dolcezza in ciò che della vita costituisce l’usuale, o persino lo scontato?  

La morte di Steiner segnerà la chiusura di un percorso mai intrapreso: Marcello, ormai definitivamente dedito all’istantaneità senza significato della mondanità, si perde in un circo dove tutto è ridicola parodia del bello. La celebre sequenza finale vede la giovane Paolina rivolgersi a Marcello, reduce da una mascherata di eccessi e bagordi. E tuttavia la voce di Paolina non giunge al protagonista, ormai distanziato nel non-comunicabile, sordo a se stesso e a un reale del tutto spiazzante. Il motivo sotteso alla sequenza finale può essere valorizzato dalle parole dello stesso Fellini:

«ho sempre detto che […] il titolo del film non aveva nessuna intenzione moralistica o denigratoria, voleva soltanto dire che nonostante tutto la vita aveva una sua dolcezza profonda, irrinegabile»1.

La chiosa del regista a La dolce vita è solo in apparenza disimpegnata. L’opera di Fellini appare mossa da un intento più umile e nel contempo più sottile di quello di spiegare la parabola di Marcello attraverso una critica propriamente sociale: a Fellini non interessa cioè denunciare la colpevolezza etica o l’ingiustizia politica di una determinata categoria. Se vi è un’attitudine critica rispetto ai bizzarri costumi delle élites dello spettacolo raffigurate nel film, essa non va ricercata tanto in una condanna morale, quanto piuttosto nella problematizzazione del valore della loro esperienza estetica, nevroticamente tesa fra il fitto succedersi di eventi singolari e la dimenticanza di sé. Fellini si chiede dunque se vi sia e dove sia una “dolcezza” nella vita, e si pone perciò l’obiettivo di descrivere in Marcello una condizione che rifletta la ricerca di questo sentimento del bello, insieme alla crisi che tale ricerca implica. La soluzione di questi interrogativi si rivelerà solo parzialmente positiva: è infatti con l’immagine del volto rasserenante della giovane Paolina, ma non con il suono delle sue parole, che Fellini chiude la sua rappresentazione di una vita e di un senso non còlti.

 

Marco Collatuzzo

 

Marco Collatuzzo studia filologia, letteratura e tradizione classica all’Università di Bologna, ed è allievo del Collegio Superiore istituito presso la medesima Università. Si interessa prevalentemente di storia della filosofia antica, letteratura greca ed estetica antica e moderna. Attraverso quest’ultimo àmbito di studio si avvicina a un più generale approfondimento della critica teorico-letteraria e alla cinematografia. 

 

NOTE:
1. G. Grazzini (a cura di), Fellini. Intervista sul cinema, Roma-Bari 1983, p. 108.

[In copertina un fotogramma del film]

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