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Se il problema c’è, l’essere umano non risponde

Aristotele nella sua Politica, opera del IV secolo a.C., attribuisce all’essere umano una socialità innata, un istintivo senso di aggregazione che si può facilmente riscontrare nella presenza di variegati gruppi sociali, ognuno con la sua storia, le sue leggi, le sue identità culturali.
Ancora oggi troviamo difficile poter pensare a noi stessi in un’isola deserta, alla Robinson Crusoe o alla Cast Away, senza provare un vasto senso di smarrimento o angoscia che può indurre alla follia; ci collochiamo sempre all’interno di una famiglia, una compagnia di amici, un gruppo etnico-regionale, una nazione.

Nonostante ciò è capitato a tutti noi di provare un senso incolmabile di solitudine, causato da dinamiche fuori dal nostro controllo, o in altri casi ricercato spontaneamente, in modo da separarci per un periodo più o meno breve dal resto del mondo.
La domanda che sorge spontanea è: come può un animale sociale sentirsi solo?
La risposta può essere individuata sulla natura della socialità dell’essere umano, quindi aggiungiamo un’altra domanda: perché siamo animali sociali?

L’essere umano utilizza la socialità, la forza che solo una collettività può fornire, per realizzare i propri sogni; in altri termini l’essere umano è consapevole di non poter sopravvivere – fisicamente in natura, materialmente nell’epoca contemporanea – senza far parte di una società di suoi pari.
Aggiungendo per completezza un aggettivo all’affermazione aristotelica, l’essere umano è contemporaneamente un animale sociale e individuale.

A questo punto possiamo rispondere anche alla prima domanda: l’animale sociale può sentirsi solo perché quando si trova in difficoltà spicca la sua specificità di singolo e gli animali sociali che lo circondano difficilmente provano empatia per qualcosa che non appartiene a loro.
Proprio nei momenti difficili emerge questo atteggiamento, quando l’individuo risulta più fragile emotivamente.
Gli esempi sono innumerevoli, ma individuando i più estremi, di conseguenza siamo in grado di comprendere tutti gli altri.

Suicidio e tossicodipendenza sono due tematiche tristemente comuni in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, pur essendo delle costanti storiche, eppure facciamo ancora fatica a concepirle come mali che, sebbene colpiscano individui, ricadono inevitabilmente sull’intera collettivitàIn passato attorno a questi due drammi si è costruita una moralità che prevedeva l’ostracizzazione, il bando, l’emarginazione, sia della persona sia, in ambito religioso, della sua anima, concetti molto forti che oggi tendiamo a non comprendere ed erroneamente a confinare in epoche ormai sorpassate.

Tuttavia è sufficiente leggere i commenti sui social sotto a notizie di cronaca nera, per rendersi conto che le cose non sono molto cambiate. Negli anni c’è stato un approfondimento, un arricchimento nozionistico, per malattie emotive in passato totalmente ignorate, sconosciute o banalizzate a semplici sbalzi d’umore di persone deboli, eppure ci si scontra quotidianamente contro un muro di incomprensione.
Un commento alla notizia dell’ennesimo decesso per overdose nella mia città, mi ha particolarmente colpito e sostanzialmente recitava così: “Non capisco perché una persona debba drogarsi, non lo capisco e non lo voglio capire”Mentre se si fosse trattato di suicidio, in un contesto completamente diverso, sono certo che avrei raccolto numerosi e laconici “Egoista” rivolti al malcapitato.

Oltre all’immensa superficialità con cui molte persone affrontano mali dai confini molto poco definiti, e per i quali non esiste una cura specifica o un farmaco particolare proprio perché attaccano l’animo e l’autoconsapevolezza del singolo, il problema si concentra sulla sbagliatissima convinzione implicita che possano essere circoscritti a persone predisposte, fragili, deboli eccNon si prendono minimamente in considerazione le variabili che intervengono nell’arco dell’esistenza di ciascuno di noi, che se per anni possono sorriderci, possono anche farci precipitare da un momento all’altro in un baratro senza fine.
Non si comprende che imparando a conoscere queste problematiche potrebbe essere anche più agevole affrontarle quando ci colpiscono direttamente, o quando colpiscono un nostro amico, un figlio, un nostro caro.

E infine c’è la disumanizzazione della vittima, che non è più un nome, una persona con dei sogni andati alla deriva, con delle difficoltà superabili se solo non avesse trovato silenzio attorno a sé. Chi muore diventa un numero per la statistica, finisce in pasto a chi condanna l’uso della droga, a chi vorrebbe ammazzare gli spacciatori e i discorsi sull’immigrazione spiccano il volo che è un piacere. Così gli animali sociali preferiscono litigare sfruttando le vittime dell’indifferenza, piuttosto di affrontare la realtà.

 

Alessandro Basso

Sono nato a Treviso nel 1988, nel 2007 ho conseguito il diploma triennale in grafica multimediale e pubblicitaria all Centro di Formazione Professionale Turazza di Treviso; dopo aver lavorato alcuni anni, ma soprattutto dopo un viaggio in Australia, sono tornato sui libri e nel 2013 ho conseguito il diploma di maturità al Liceo Linguistico G. Galilei di Treviso. Attualmente sono laureando in Storia e Antropologia all’Università Ca’Foscari di Venezia.
Mi piace molto leggere, senza tuttavia avere un genere preferito; i miei interessi spaziano dalla cultura umanistica alla sociologia, e in certi ambiti anche alla geologia.

[Photo credit Pixabay]

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