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Fatalità (o forse no) del destino umano: tra racconti e poesia

Una roccia stanziata in mezzo al mare e battuta dal vento: questa la visione del rapporto tra essere umano e destino che Cesare Pavese ci racconta attraverso i Dialoghi con Leucò.

«Oh Saffo, non è questo il sorridere. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino» scrive Pavese. Lumano è la roccia lambita dalla schiuma salmastra e il destino la tempesta che si impone; una tempesta a cui possiamo solo prostrarci, e sorridere. Nel linguaggio della ninfa Britomarti l’azione di sorridere rinnova il suo significato estendendosi a riassumere un potente insegnamento: che il Destino ci guidi mano per mano lungo le sue geometrie esistenziali, dice la ninfa; smarriti in vite vorticose di cambiamenti imprevisti e fortuna altalenante, è giusto e lecito tirare passi indietro e proteggersi dietro confini conosciuti. Incassa dunque la testa fra le spalle, caro umano, e precludi quanto puoi lo scontro con l’avvenire!

La filosofia di Britomarti può apparirci allettante, ma nasconde un rischio sul quale è opportuno che ci soffermiamo. Cosa implica infatti l’atto di sorridere se non il consumarsi di ogni aspirazione? Sorrido: lascio che gli eventi mi sovrastino, senza gioire né soffrire, ma accettandoli passivamente; e proprio per accettare a priori quello che sarà rinuncio necessariamente a proiettarmi nel futuro e a spaziare con l’immaginazione tra progetti ancora vaghi e sogni inespressi, tra infinite strade aperte e traiettorie esistenziali impossibilmente contorte. Sorridere, da che richiamava una forma di altero stoicismo o di invito al carpe diem, viene piuttosto a coincidere con un indebolimento dell’intraprendenza e delle altre risorse che il fato (o il caso?) è in grado di accendere proprio attraverso le situazioni nuove che ci pone di fronte.

Ciononostante l’imprevisto continua a incombere minaccioso, spaventandoci: siamo ancora convinti delle parole della ninfa e pronti a ignorare ogni avvertenza per sorridere finalmente al Destino… ma un’altra voce si leva, opponendosi alle parole rassegnate dello scrittore torinese: «we must lift the sail And catch the winds of destiny Wherever they drive the boat…». Siamo noi il nostro stesso avvenire, esclama George Gray in Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, siamo noi i marinai di noi stessi. Britomarti mentiva: non siamo rocce dominate dal mare, ma barche vive e forti che lo possono valicare. Il fato è un affaraccio vischioso che può investirci e buttare a terra, ma anche (possibile che il fato sia due cose in una?, che sia contemporaneamente lama e manico?) sostanza modellabile che possiamo e dobbiamo plasmare per dare un senso alle nostre vite, trasformandole da sforzo di sopravvivenza a vita di fatto.

Il destino come barca ai nostri comandi: questo forse è quel voto all’edonismo che avevamo scambiato erroneamente con la filosofia di Britomarti?

Identificando il fato con una barca, Gray ci incita a lanciarci e a convivere con la paura di cadere, smuovendoci a vivere; e ci invia a sua volta una barchetta, o meglio ancora un messaggio in bottiglia attraverso il tempo: non fingerti uno scoglietto nel porto; sei tu la tua barca, e non potrei perdonarti che la lasciassi attaccata a riva, e la coprissi magari con delle panciere di lana e facessi prender polvere alla sua bella vernice per paura che il mare la scrosti.

Cosa fare quando abbiamo la possibilità di inseguire un’idea ma abbiamo paura di stravolgerci la vita? Quando la protezione che ci assicurano le cose e i volti che conosciamo ci respinge e allo stesso tempo ne siamo attratti, e oscilliamo tra questi e la scelta di un possibile azzardo, di una porta che si chiude e i nostri passi che si allontanano?

Britomarti e George Gray ci offrono due definizioni di destino e con esse due risposte. Possiamo concepire il destino come forza di cui subire la volontà, e decidere di rischiare il meno possibile proteggendoci nella nostra comfort-zone; oppure possiamo far coincidere il nostro destino con noi stessi: non c’è alcuna forza trascendente, non c’è alcunché cui sorridere, esistiamo solo noi con la nostra lunga gavetta di marinai davanti – noi che spesso ci lamentiamo delle cose troppo più grandi di noi, che sospiriamo davanti a realtà che non possiamo cambiare – il disastro ambientale, le disuguaglianze, la politica, la crisi economica, ma che non ci accorgiamo di avere un immenso potere tra le mani: la facoltà di inventare e realizzare la nostra storia.

 

 

[immagine tratta da Unsplash]

Cecilia Volpi

curiosa, distratta, girovaga

Prima di iscrivermi a Lettere studiavo a un liceo scientifico di Mantova; forse è per capricciosa ripicca al rigore matematico di quegli anni che poi ho dato manate di caos alla mia vita, arruffandola apposta: mi muovo tra tre città, Torino (dove faccio l’università), Bologna (dove ho un po’ di famiglia) e Mantova (dove ho […]

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