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Che cos’è la libertà: le riflessioni di Simone Weil

Aveva grossomodo la mia età attuale, Simone Weil, quando scrisse Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. A sollecitarla in questo suo sforzo fu Boris Souvarine, editore e amico, che avrebbe voluto pubblicare il saggio ne La Critique sociale. Corre l’anno 1934, e le Riflessioni di Simone Weil sono emanazioni salvifiche dai drammi di quel terribile presente: Hitler al potere da qualche mese, Stalin venerato in patria come “piccolo padre” di una nuova umanità. A saggio ultimato, la rivista di Souvarine aveva già cessato le pubblicazioni per mancanza di fondi, e Simone Weil cominciò a lavorare in fabbrica senza vedere pubblicato il suo lavoro, che venne dato alle stampe solo nel 1955, ormai postumo, in Oppression et liberté. 

Le Riflessioni della Weil, d’un attualità sconcertante, sono attraversate da un unico, angosciato messaggio:

«sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso»1.

L’equilibrio misterioso cui fa riferimento Simone Weil è il bilanciamento ellittico tra Ordine e Libertà, fuochi assiali attorno cui orbita il luogo geometrico dei punti di tutta la filosofia sociale. La storia della società, infatti, non è che il lento e perpetuo oscillare da un fuoco all’altro: ci sono stagioni in cui a prevalere è un ordine prevaricante e annichilente, altre nelle quali i lacci dell’oppressione sociale si allentano in favore della libertà individuale. A tenere distinti i due fuochi un vicolo adamantino, una forza di repulsione che rende inversamente proporzionali le reciproche spinte: è possibile perfezionare l’ordine sociale solo al prezzo di una riduzione dello spazio di libertà individuale, e viceversa.

Il momento storico di massima prossimità al fuoco della libertà, spiega Simone Weil, si è avuto con le forme di organizzazione e di produzione elementari tipiche delle società tradizionali, basate su una ridotta divisione sociale del lavoro e su economie di sussistenza. Nondimeno, quella dell’uomo primitivo non è una libertà perfetta, autentica, conchiusa: certo, l’ordine sociale non era tanto opprimente e la disuguaglianza tanto marcata quanto nelle società moderne, ma l’uomo primitivo, scrive Weil, è comunque «in balìa del bisogno». Pur svincolato dal gravame delle costrizioni e delle procedure sociali, egli non è in condizione di autodeterminarsi poiché ogni sua azione deve aderire, istante per istante, alle esigenze della necessità che governa le leggi di natura. Una necessità che i Greci – col suono gutturale tipico di ciò su cui l’uomo non ha alcun potere – chiamavano Anánkē.

Il superamento dell’oppressione naturale, violenta e superstiziosa del mondo primitivo si ha con la comparsa storica del Leviatano: un assemblaggio spersonalizzato di individui che aderiscono al patto sociale e si organizzano tecnicamente per esercitare un dominio prometeico su Anánkē. È questo il passaggio contrattualistico dallo stato di natura allo stato positivo, reso possibile dalla rinuncia di parte della libertà individuale in favore dei progetti collettivi della società – secondo Freud, disagio della civiltà. 

L’affrancamento progressivo dalle necessità naturali e dall’oppressione primitiva che questa esercitava ha dunque la forma del ribaltamento: «in breve, sembra che l’uomo, nei riguardi della natura, passi per tappe dalla schiavitù al dominio»2. Da Marx in poi, sappiamo che tale passaggio si svolge mediante trasformazioni materiali nella progressiva liberazione delle forze produttive.

Eppure, continua Simone Weil seguendo la scia odorosa dell’intuizione marxiana, «questo dominio collettivo si trasforma in asservimento non appena si passa al livello dell’individuo, e in un asservimento assai più prossimo a quello che comporta la vita primitiva»3. È questa l’oppressione del sistema produttivo capitalista, che svuota il lavoro del suo senso più profondo e colloca homo faber in una condizione di alienazione e istupidimento: «la religione delle forze produttive, […] mette gli uomini al servizio del progresso storico e della produzione»4. 

L’organizzazione produttiva che ci ha permesso di affrancarci dalla natura nasconde dunque un prezzo umano altissimo, che in filosofia prende il nome di eterogenesi dei fini: l’uomo non è il fine dell’attuale sistema di produzione, ma solo uno dei suoi tanti mezzi. Con acuta metafora edilizia, Mandel’štam parlerà di uomo “mattone”5 e Saint-Exupéry di uomo “costruttore”6: quante vite sciupate ieri nella posa delle strade, nella costruzione delle fabbriche, nella perforazione dei pozzi di petrolio. Quante, oggi, nella catena di montaggio cinese o nei servizi a cottimo dell’era digitale americana.

Con l’assolutezza e l’ingenuità dei suoi venticinque anni, Simone Weil accetta l’ipotesi marxiana di oppressione sociale della società capitalista e produttivista sotto forma di eterogenesi dei fini, ma ne rifiuta la soluzione: la presa del potere da parte degli oppressi per il tramite della rivoluzione proletaria non risolverà il servilismo della condizione umana moderna. A valle della lotta di classe, una nuova forma di oppressione: la rivoluzione conduce sempre al suo inizio, finisce sempre con un nuovo padrone.

La soluzione di Weil all’oppressione sociale, più soave e radicale di quella marxiana, si iscrive nella coscienza che lega il pensare al volere e il volere all’agire:

«la libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l’azione; sarebbe completamente libero l’uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine»7.

Ecco la libertà dell’uomo cosciente, «il patto originario dello spirito con l’universo»8.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, p. 68.

2. Ivi, p. 46.
3. Ivi, p. 69.
4. Ivi, p. 21.
5. Cfr. O. Mandel’štam, Humanisms and the present, Ann Arbor, Ardis 1979, p. 181.
6. Cfr. A. Saint-Exupéry, Terra degli uomini. Mursia, Milano.
7.  S. Weil, op.cit., p. 77.
8. Ivi, p. 130.

 

[Credit Grant Ritchie]

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