Home » Rivista digitale » Sguardi » Politica » Città santa, città martire

Città santa, città martire

Tra gli stretti vicoli di Gerusalemme, seminascosta dai palazzi fatti costruire da Ṣalāḥ ad-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb (l’italiano Saladino), sorge la Basilica del Santo Sepolcro, la chiesa costruita sul luogo dove tradizione vuole che morì, fu sepolto e risorse Gesù Cristo. Sulla facciata, elemento curioso, si nota una scala di legno: di anno in anno la scala rimane, per quanto abbia evidentemente cessato la propria utilità. La ragione è il cosiddetto Status Quo: la Basilica è amministrata da diverse confessioni cristiane, con compiti e aree severamente divisi per ognuna. Nessuno sa, però, chi abbia messo la scala sulla facciata e nessuno sa quindi a chi spetti toglierla; col rischio di sconfinare nel terreno di competenza altrui, tutti hanno preferito lasciare la scala dov’era, e dov’è tutt’ora. Una simile dinamica può apparire assurda in qualunque altro contesto, ma non certo al Santo Sepolcro: solo pochi anni fa, un frate francescano e un monaco ortodosso hanno iniziato una rissa perché uno dei due, spazzando, è finito a pulire il territorio dell’altro.

Questa è Gerusalemme: la Città Santa, perla del Medio Oriente, terra sacra per le tre maggiori religioni monoteiste del pianeta, crocevia di culture, lingue, popoli e nazioni, eppure spazio diviso e settorializzato come nessun altro al mondo. Ogni etnia, ogni religione e perfino ogni confessione di queste ha un suo quartiere, immediatamente identificabile dalle bandiere fieramente appese a case e luoghi di culto, territori marcati e difesi che testimoniano nella pietra il fragile ma secolarmente stabile equilibrio creatosi tra le molte anime della città. Gerusalemme è costantemente sul piatto di una bilancia, e ogni minimo cambiamento può causare ripercussioni e stravolgimenti, spesso e volentieri violenti, prima di un nuovo, sofferto assestamento.

Con tutta la grazia, l’attenzione e la delicatezza di cui ha dato ampia dimostrazione nel suo primo anno di presidenza, Donald Trump ha deciso di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv, capitale riconosciuta dello Stato di Israele, a Gerusalemme, la capitale storica del Regno di Israele, rivendicata da sempre da movimenti sionisti e neo-sionisti sempre più presenti (e violenti) sul territorio. Il trasferimento, chiaramente, non è una mera questione di indirizzo civico: con questa mossa, di fatto, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti riconoscono in Gerusalemme la capitale dello Stato di Israele, sfidando ogni sanzione internazionale sull’occupazione militare ancora in corso, sugli insediamenti abusivi, sulla politica di apartheid promossa da Israele, e destabilizzando ulteriormente un Mondo Arabo mai così vicino al punto di deflagrazione.

Gerusalemme è sì la città del Gran Re, sede del Tempio di Salomone (o di ciò che ne resta: il Muro Occidentale), ma è anche il luogo della manifestazione della salvezza per i cristiani, e quello da cui il profeta Muhammad ascese fisicamente al cielo per i musulmani. Unica al mondo, è città santa per tutti e conseguentemente città contesa, come testimoniano secoli di Crociate e guerre. Toccare Gerusalemme è toccare il mondo intero, e una simile decisione da parte di Trump, che appoggia così esplicitamente i movimenti sionisti, non rischia solo di alienargli le simpatie degli storici alleati turchi e sauditi, ma anche e soprattutto di dare fuoco a quella grande polveriera che è ormai tutta l’area mediorientale, scatenando nuovi conflitti internazionali e intestini. Il lampedusiano «Tutto deve cambiare perché tutto rimanga com’è»1 non trova posto in una realtà, in una città, che si fonda su delicatissimi equilibri tessuti in secoli di conflitto e in fiumi di sangue versato, in conquiste e in trattati. Anche quel surrogato di pace così faticosamente conquistato a Gerusalemme può andare in pezzi come cristallo a causa di una singola decisione mossa parimenti da ignoranza e arroganza.

Per il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, e per molti altri, la pace nel mondo dipendeva, in modo quasi mistico, dalla pace in Terra Santa, una pace oggi un po’ più lontana di quanto non lo fosse ieri. Non resta che associarsi alla supplica di uno dei salmi più belli consegnatici dalla tradizione ebraica, il 121/122: «Chiedete pace per Gerusalemme: sia pace a chi ti ama, pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici».

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1 cfr. Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958. 

[Immagine tratta dall’archivio personale dell’autore]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Giacomo Mininni

inquieto, contemplativo, curioso

Vivo da sempre a Firenze, non solo una città, ma un modo di essere. Sono filosofo morale, ma successivamente mi sono specializzato in filosofia delle religioni, e ho lavorato anni nell’ambito del dialogo interreligioso e dei progetti di collaborazione tra fedi e confessioni diverse. Sono felice padre di una bellissima bambina, che pur avendo poco […]

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!