L’articolo della discordia: “il” presidente non è la stessa cosa

Non so ancora decidermi su cosa sia più fastidioso: sapere che la nuova – e prima – Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana pretenda di essere chiamata “il” Presidente, o vedere paginate su paginate di giornali pieni di “Giorgia di qua, Giorgia di là”, “Giorgia fa questo, Giorgia fa quello”. Forse la cosa più fastidiosa di tutte è che non ci si renda conto che sono due facce della stessa medaglia: la mancanza di riconoscimento del valore di un individuo femminile.

Perché la nostra nuova Prima Ministra ci casca di continuo. Nel suo primo discorso alla Camera ringrazia Tina, Nilde, Rita e compagnia per averle aperto la strada verso lo sfondamento del “soffitto di cristallo”. Peccato che non stia parlando delle amiche con cui gioca a golf ma di individui straordinari, coraggiosi, intelligenti che hanno fatto la storia di questo Paese e che se solo fossero stati uomini sarebbero stati chiamati dignitosamente per cognome. “Lo ha fatto per un sentimento di sorellanza”, dice qualcuno con spirito conciliante. Peccato che a nessuno sia mai venuto in mente di parlare di Garibaldi, Fermi e Pirandello chiamandoli Giuseppe, Enrico e Luigi.

Questa breve divagazione vuole arrivare a un punto: se la nostra Prima Ministra parla dei pilastri del femminismo italiano citandoli per nome di battesimo, c’è da stupirsi se i giornali fanno lo stesso con lei? E pensa davvero che facendosi chiamare “il” Presidente – ignorando per altro una basilare regola grammaticale che finora non ha mai infastidito (per esempio) nessuna insegnante e nessuna docente – i giornali, i colleghi, il mondo intero la tratteranno con maggiore rispetto? Eppure, è la prima Presidente del Consiglio italiana, la prima leader donna del nostro Stato da quando esiste. Un peso che – stando alle sue parole – porta sulle spalle come un fardello, è un onere – e un onore no? – per lei aver conquistato una sedia che è sempre stata prerogativa maschile. Peccato che non basti essere donne per essere femministe e già dalle primissime mosse e dichiarazioni dei membri del suo governo e dei nuovi rappresentanti di Camera e Senato sono emerse le solite trite e ritrite posizioni cieche e sorde davanti a una società che – più che cambiare – finalmente esce allo scoperto, trova fiato in gola e voglia di lottare per ciò che sente di essere, per ciò che desidera: diritti, riconoscimento, uguaglianza.

Tutto questo passa anche per la lingua, splendida cartina tornasole del sentimento sociale. Le regole linguistiche esistono eccome ma vengono sistematicamente attaccate o aggirate, motivo per cui il congiuntivo è ormai un animale in via d’estinzione e i termini inglesi proliferano come funghi in un sottobosco. Chi scrive non è una simpatizzante di parole come “call” o “spoilerare”, eppure sono entrate nel nostro vocabolario prima ancora del loro riconoscimento ufficiale nei dizionari scritti1, per cui non c’è motivo di dimenarsi: sono una realtà e non è possibile nasconderli sotto il tappeto. Così come le ministre, le sindache, le chirurghe, le mediche, le architette, le avvocate: esistono, e sempre di più, quindi perché nasconderle sotto il mantello di un “il” e di una “o”? Parole che tra l’altro, diversamente da “spoilerare”, non sono neologismi ma semplicemente l’applicazione della regola grammaticale a un sostantivo: la novità sta appunto nel fatto che prima non c’erano ministre e adesso sì. Se ci sono, però, vanno anche nominate. Come spiega la sociolinguista Vera Gheno, nominare qualcosa significa riconoscerne l’esistenza, in modo semplice e immediato, e darne visibilità2. Se dico “il Presidente Meloni” e chi mi ascolta è vissuto fino a un minuto fa in una grotta sperduta, penserà certamente che sto parlando di un uomo; se invece dico “la Presidente Meloni” saprà fin da subito che sto parlando di una donna. E attenzione: ciò non è per sottolineare che è una donna: la questione è riportare un dato reale, ovvero che Meloni non è un uomo. Usare le professioni al femminile significa riempire anche il nostro immaginario collettivo di donne in determinate cariche e mansioni, perché nella realtà sta accadendo proprio questo. Perché creare ambiguità? Vogliamo nascondere sotto il tappeto un fatto solo perché il termine che lo descrive ci sembra cacofonico? Se davvero tutto il problema sta nella cacofonia gli (autoeletti) arbitri elegantiae non potranno che farne l’abitudine, come per centinaia di altre parole prima di queste; perché se le cose continuano ad andare in questa direzione – e c’è da augurarselo –dovranno abituarsi al fatto di avere sempre più ministre e (le) presidenti da nominare e citare, quindi se il fatto reale non dà fastidio, difficilmente alla lunga lo darà la parola.

Perché le parole, tutte, a guardarle da vicino, sono mondi meravigliosi. Chiunque abbia studiato il greco antico – lingua estremamente duttile e creativa – probabilmente ricorderà quel verbo che fa sghignazzare da secoli gli studenti ginnasiali, il famoso “rafanidòo” = “infilare un ravanello nell’ano” inventato da Aristofane in una commedia e bene o male mai più usato. Ora, è improbabile che l’italiano possa regalare perle linguistiche altrettanto elevate, ma non pensiamo che la nostra lingua sia una bella statua di marmo: essa cambia perché cambia chi la parla. Forse, piuttosto, se si teme il cambiamento della lingua si teme il cambiamento della nostra società. Che però fortunatamente in certi casi – come per sindache e (le) ingegnere – è un cambiamento da accogliere a braccia aperte.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 Per chi non lo sapesse, «oggi una parola entra nel vocabolario se arriva ad avere un certo ‘peso’ nell’uso. Il termine deve rispondere a tre criteri oggettivi: essere usata da un numero sufficientemente alto di persone, per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, in contesti differenziati» in V. Gheno, Femminili singolari, Effequ, Firenze 2021, p. 28
2 Cfr. ivi p. 15, p. 33.

 

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Il bisogno di rifare: reboot, remake e sequel

La nostalgia mitiga l’ansia, dicono in Matrix resurrection, quarto capitolo della saga uscito da poco nelle sale cinematografiche. Sarà per questo che il cinema e le serie tv stanno vivendo di reboot, reunion, sequel e quant’altro?
Il già citato Matrix, ma anche Harry Potter e Friends, che di recente sono stati protagonisti di due reunion con il cast, per non citare anche Sex and the city, tornato dopo anni con un sequel, And just like that. La tendenza è iniziata già una decina di anni fa, all’incirca, e non accenna ad esaurirsi.

Sono prodotti che vengono divorati, forse perché siamo tutti un po’ desiderosi di ricongiungerci con un tempo passato che ci figuriamo ora come un periodo incantato, pieno di promesse e amenità. Oggi le novità è meglio schivarle, perché in esse potrebbero nascondersi pericolose trappole. Fuori il nuovo e dentro il vecchio, insomma.
Abbiamo finito le idee? Abbiamo finito la felicità – per citare una canzone de Lo stato sociale? La felicità dobbiamo ricercarla nel passato, come i neoclassicisti nel ‘700, come gli Scolastici medievali che si sentivano nani sulle spalle dei giganti del passato? Oppure quella odierna è una nuova arte, fatta di mash up, un po’ patchwork, intrisa di quella nostalgia malsana e sana al contempo?

Necessitiamo di pillole blu alle quali siano ormai assuefatti, pillole che ci rassicurano e cullano? Che ci fanno stare in casa al sicuro, booster o no, green pass o no, guarigione o no. Oppure è anche questo un modo per preparare il terreno alle novità, che da sempre si innestano su un terreno già coltivato e fertile? Difficile a dirsi. Scomodando quel tuttologo di Hegel, che conosce tutte le risposte e sa sempre cosa fare, potremmo dire che non è possibile emettere una sentenza adesso, mentre stiamo vivendo in prima persona questo tempo pieno d’ansia e apatia, mentre ci intratteniamo con questa abulica arte che stimola il “come eravamo” piuttosto che il “come saremo”.

In Matrix resurrection si fa notare come l’essere umano sia sempre in bilico tra paura e desiderio. La paura, in quest’epoca, è forse la tonalità emotiva che prevale. Ma l’uomo è anche un animale desiderante, vive e sopravvive grazie a un desiderio schopenhaueriano impossibile da sopprimere o da razionalizzare. Ecco quindi due probabili chiavi per interpretare i vari remake e reboot: tendiamo a rifare perché abbiamo paura e vogliamo rivedere e riprendere le storie da dove le avevamo lasciate, ma allo stesso tempo desideriamo dare vita a qualcosa di nuovo, che rinasca dalle ceneri delle vecchie idee che un tempo hanno funzionato. Dopotutto c’è coraggio anche in questo atto, perché qualcosa di compiuto che ha avuto successo o che è divenuto iconico, non viene lasciato a se stesso, archiviato e intrappolato nei tempi che furono, bensì viene ripreso, riaperto, riconsiderato, proseguito.
Un’azione sicuramente impavida: la compiutezza non c’è più, prevale il desiderio che non si arresta e prosegue all’infinito, dando il via ad un processo di incompiutezza che per sua stessa definizione risulterà imperfetto, manchevole. Eppure è qualcosa di vitale, qualcosa che si muove: significa che dietro c’è qualcuno che fa, che agisce, che si mobilita per un pubblico che nonostante tutto guarda, ascolta, riflette – anche se poi denigra oppure, al contrario, osanna.

Abbiamo forse paura di perdere il grande capolavoro del passato, paura che ormai oggi, per noi, non significhi più nulla o quasi. Ma temiamo anche di mancare il capolavoro di oggi, e allora tendiamo a rifare quello vecchio, lo reinventiamo, mossi dal desiderio di qualcosa di nuovo.

Non dimentichiamo però, che l’industria cinematografica e seriale è soprattutto e prima di tutto pragmatica, ossia pensa al denaro, al guadagno: rifare significa anche puntare su una mano che si è già rivelata vincente in termini economici.
Ma non tutto si può sempre ridurre a una mera prospettiva materiale. O meglio: se chi questi prodotti li confeziona e li vende sceglie di farlo, ci sarà un motivo – siamo noi il motivo, noi e il nostro bisogno insopprimibile di rivivere, rifare, ricreare ciò che ci era piaciuto, alla ricerca di quel conforto e quella felicità che paiono perduti. E francamente, da un certo punto di vista, qualsiasi rimedio contro l’ansia che siamo chiamati ogni giorno a vivere, è ben accetto.

 

Francesca Plesnizer


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Comprendere l’emarginazione sociale attraverso il pensiero sistemico

Nei primi decenni del ‘900 alcuni pensatori cominciarono a riflettere sul concetto di emergenza che, lontano dall’indicare una situazione improvvisa a cui far fronte, iniziò a riferirsi anche a ciò che affiora da un sistema complesso, come conseguenza dell’interazione degli elementi che lo costituiscono.
Il concetto di emergenza si lega, quindi, a doppio filo con le nozioni di sistema e complessità, entrambe fortemente interdisciplinari e usate come strumenti per spianare un terreno comune e favorire dibattito riguardante i problemi sollevati dalle neuroscienze con l’avvento dell’intelligenza artificiale e dalla loro interazione con psicologia, linguistica, antropologia e, ovviamente, filosofia.

Oltre a risultare utile per spiegare i fenomeni mentali, derivanti dalle reti neurali cerebrali, l’emergentismo1 diventa una vera e propria corrente epistemologica, seguendo la quale sembrerebbe possibile dirimere l’eterno conflitto tra monismo materialista e dualismo cartesiano, rinunciando a qualsiasi forma di riduzionismo. L’emergenza diventa un nuovo paradigma per interpretare la realtà e tutta una categoria di fenomeni emergenti, che parrebbero privi di senso se osservati alla luce delle sole leggi che descrivono e governano le singole componenti del sistema che li genera. È bene anche dire, però, che allo stato delle cose, non è possibile creare modelli di sistemi complessi che riproducano fedelmente tutte le proprietà o gli eventi emergenti esperibili: certe cose ancora accadono senza un’apparente spiegazione.

Punto cardine dell’approccio sistemico è considerare le proprietà emergenti, come si è detto, un effetto delle interazioni degli elementi che compongono un sistema, in un moto generatore che va dal basso verso l’alto, instaurando un rapporto di causalità definito bottom up; viceversa, il sistema continua il suo processo di adattamento anche influenzato da ciò che egli stesso ha generato e da altri fattori esterni, avviando una causalità definita top down.
Questi processi sono fondamentali quando le scienze umane – e quindi la filosofia – applicano il “nuovo” concetto di emergenza, nonché gli strumenti della sistemica in campi estremamente pratici come quello sociale, del quale mirano ad analizzare tutti quegli eventi che sono proprietà emergenti dall’interazione delle parti che compongono la collettività e che influenzano lo sviluppo della società stessa. È interessante, a questo punto, capire quali siano alcuni fenomeni che affiorano come conseguenze del dispiegarsi del nostro complesso sistema d’organizzazione collettiva, tanto più che, per alcune dinamiche, il termine “emergenza” può essere inteso sia in senso filosofico – indicando, appunto, ciò che affiora -, sia seguendo l’accezione comune di avvenimento negativo improvviso, sul quale intervenire tempestivamente.

Si potrebbero portare infiniti esempi di fenomeni emergenti ed emergenziali: dalla crisi climatica a quelle cicliche della nostra economia, ma prenderei in considerazione, piuttosto, un fenomeno che tratto e approfondisco quotidianamente e che, per quanto di pressante attualità, non è in cima ai pensieri di molti: il problema dell’homelessness.
Stando a dati OCSE recenti, la popolazione dei senza fissa dimora supererebbe la soglia delle 2 milioni di persone nei paesi industrializzati. Al netto di precise scelte individuali e imprevedibili catastrofi personali, è semplice giungere alla conclusione che l’aumento della povertà e delle schiere di individui che vivono in situazioni di grave marginalità sociale, dipenda in primo luogo dalle conseguenze, anche imprevedibili, dell’interazione delle componenti del corpo sociale, quando immerse in un contesto economico e politico peculiare. Alcuni pensatori, in maniera considerata cinica, direbbero che la folla degli emarginati è necessaria affinché tutti gli altri continuino la loro vita nella comodità, quasi che l’indigenza di un minoranza sia il prezzo da pagare per l’agiatezza dei più. In questo caso, lungi dal far emergere le situazioni di disagio: meglio per tutti che restino sommerse.

La povertà, quindi, è proprio una di quelle caratteristiche non solo emergenti – in senso filosofico – del sistema “collettività”, ma anche, quando portata alla luce, emergenziali, poiché richiede un’attivazione improvvisa di misure non ordinarie per affrontarla. Come questa, tante altre forme di disagio sociale emergono dall’attuale stato di cose del nostro sistema-mondo e, per quanto si tenti di sopprimerle o lenirle con interventi palliativi, è necessario ricordare che, se non risolte alla radice, causeranno a loro volta pesanti ricadute sul sistema che le ha generate, minacciandone pericolosamente la tenuta.

Se è vero che non è possibile costruire modelli di apparati fisici o biologici che riescano a spiegare tutte le proprietà di tutti gli enti del mondo, è anche vero che, forse, a livello sociale siamo più in grado di predire e prevenire le conseguenze delle nostre azioni e gli effetti dei nostri meccanismi: perché, allora, non provare a cambiarli, facendo emergere i pregi del nostro, peculiarissimo, sistema complesso?

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

NOTE:
1- Quella che nell’Inghilterra degli anni Venti era sembrata un’intuizione, non risparmiata da critiche, è anche conosciuta come primo emergentismo o emergentismo britannico; questo per differenziare i primi passi di questa nuova corrente di pensiero da quelli che saranno i suoi successivi sviluppi: il secondo emergentismo, degli anni Settanta e Ottanta e l’attuale neoemergentismo.

2- Pioniere della teoria dei sistemi, che egli introdusse in campo biologico, è stato Ludwig Von Bertalanffy in numerosi scritti: questi, sebbene non apprezzati in principio, hanno rivoluzionato le basi teoriche di molteplici discipline.

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L’arte di amare da Dante a Fromm

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inferno V, v. 103): ho sempre trovato questo celebre verso dantesco incredibilmente forte quanto spiazzante. Il poeta afferma che Amore (in adnominatio, essendovi tre parole con la stessa origine etimologica, Amor, amato, amar) a nessuno (come è preferibile intendere quel nullo nel senso latino del termine nullus e non considerare come latineggiante l’intero costrutto cioè a nullo quindi “da nessuno”) se è amato risparmia, condona come se fosse una condanna, il fatto di riamare a sua volta. Se fosse così sarebbe troppo facile e troppo triste secondo me, impari a vantaggio di chi ama, non ci sarebbe scelta, solo questione di fortuna: chi viene amato non potendosi sottrarre al dardo di Amore, quasi come un automatismo, potrebbe solo sperare – verbo che a mio parere andrebbe relegato al mito di Pandora e mai più usato – di essere amato da qualcuno da cui si sente attratto e innamorato a sua volta.

Di certo tutte le creature hanno un bisogno assoluto di amore, nel senso passivo del termine, cioè di “essere amati”, ma si tratta come spiega Erich Fromm1, nel suo saggio, caposaldo della psicanalisi, L’arte di amare (1956), di un amore egoistico, infantile che «segue il principio: amo perché sono amato» e immaturo che «dice: ti amo perché ho bisogno di te» e di certo il furor amoris in quanto tale appunto è potente ma la brama di una qualche fusione erotica «è forse la più ingannevole forma d’amore che esista», perché, continua Fromm, «amare qualcuno non è solo un forte sentimento» o una sensazione che in quanto tale viene e va ma «è una scelta […] un impegno».

Facciamo un passo indietro per chiederci, come Raymond Carver2, «di cosa parliamo quando parliamo d’amore?». Intendiamo delle unioni simbiotiche attivo-passive sadomasochistiche o intendiamo una fusione interpersonale e con il mondo circostante? Ancora una volta Fromm, che nella prima parte del suo saggio ne mette in dubbio il titolo: se l’amore è un’arte e non una più o meno piacevole esperienza casuale, se l’amore significa “amare” e non come ritengono i più “essere amati”, se il focus è sulla funzione di amare e non sull’oggetto da cui essere amati e da amare allora l’amore «richiede sforzo e saggezza» nel senso che l’amore è «un sentimento attivo, non passivo, una conquista, non una resa». Riprendendo la distinzione spinoziana l’amore è un’azione non una passione, quindi l’uomo ama e può praticare il potere umano di amare solo in libertà, l’amore cioè non è la conseguenza di una qualche costrizione ma una «sensazione di vitalità e di potenza» che riempie di gioia ed è nell’atto del dare che trova la sua più alta espressione, un dare non per ricevere ma che è in se stesso traboccante di felicità e in questo senso «l’amore è una forza che produce amore» e non solo una relazione con una persona perché amare veramente significa amare il mondo e amare la vita, le altre sono «forme di pseudo-amore che in realtà sono forme di disintegrazione dell’amore».

Nella società occidentale contemporanea capitalistica, in una civiltà quindi non orgiastica, l’individuo moderno in una routine di lavoro meccanico e di divertimenti passivi, ben nutrito e soddisfatto sessualmente, consuma alcol, droghe e atti sessuali senza amore per produrre uno stato simile a quello provocato dalla trance cioè per andare avanti in modo momentaneo senza soffrire troppo ma senza in realtà riempire il baratro che lo divide dai propri simili da cui resta estraneo tutta la vita. Spiega Fromm che «la felicità odierna consiste nel divertirsi» e «divertirsi significa consumare», tutto è oggetto di scambio e consumo, in realtà palliativi che aiutano a essere, forse consapevolmente, inconsci della propria solitudine perché «gli autonomi non possono amare, possono scambiarsi i loro fardelli di personalità e sperare in uno scambio leale».
Alla base c’è l’errore freudiano di considerare l’amore esclusivamente come espressione dell’istinto sessuale che al contrario è invece una manifestazione di un bisogno di amore, lo spiega sempre Fromm con parole che andrebbero tenute ben in mente: «L’amore non è la conseguenza di un’adeguata soddisfazione sessuale ma la felicità sessuale – e la conoscenza della cosiddetta tecnica sessuale ‒ è una conseguenza dell’amore».

Innamorarsi è l’emozione più meravigliosa della vita, è un attimo, è una freccia che scocca in direzioni reciproche e che scombussola, disorienta, cambia, è desiderio di uscita da sé e di fusione ma l’intensità del folle amore iniziale va superata con l’intensità del sentirsi permanentemente innamorati, secondo me è questa l’arte, che in sanscrito vuol dire “andare verso”, di amare, l’alternativa è provare l’intensità della solitudine, perché sembra un paradosso ma in amore «due esseri diventano uno e tuttavia restano due». L’amore maturo è unione che preserva l’integrità e dice «ho bisogno di te perché ti amo».

 

Rossella Farnese

 

NOTE:
1. Erich Fromm (1900-1980) sociologo, filosofo e psicanalista tedesco, autore di un saggio di psicologia politica, Fuga dalla libertà (1941), arricchito con il successivo Dalla parte dell’uomo (1947), del best seller internazionale L’arte di amare (1956), cui seguì un altro best seller Avere o Essere? (1976). Nei suoi studi si è occupato soprattutto del processo di formazione e della dialettica tra individuo e società.
2. Raymond Carver (1938-1988) scrittore, saggista e poeta statunitense, autore della raccolta di racconti brevi Di cosa parliamo quando parliamo di amore? (1981, trad it. Garzanti 1987), cui segue Cattedrale (1983, trad. it. Mondadori 1984).

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La donna, la roba e altre proprietà

Quando i media occidentali decidono di mettere in cattiva luce un dittatore, un governo oppure un’ideologia, puntano tutto il loro arsenale di riflettori sui diritti umani, o meglio, su come i diritti umani in quel Paese vengano ampiamente calpestati.
Se in passato il mito del buon colonizzatore bianco – che persiste tuttora – si reggeva su quante scuole, strade e ospedali aveva costruito per elevare le popolazioni indigene alla civiltà, oggi l’occidentale plaude sé stesso per come, a differenza di altri, tratta la donna.

Attraverso i media, quindi, siamo portati a demarcare un confine oltre il quale vi è la barbarie, il medioevo1, l’ignoranza e la superstizione; come se tutte queste singole cose non ci riguardassero o facessero parte di un passato remoto, quasi biblico. Aprendo il testo sacro su cui si basano completamente, o in parte, le tre grandi religioni monoteiste si legge infatti: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Esodo: 20,17).

La donna, la moglie, è considerata parte dei beni materiali dell’uomo, magari non annoverabile propriamente tra gli oggetti, ma nella filosofia patriarcale tutto deve sottostare all’autorità del pater, cioè del maschio più anziano all’interno del nucleo famigliare. Estrapolare tutto questo da un paio di righe può sembrare azzardato, ma dove non arriva l’Antico Testamento arrivano diversi teologi e pensatori, che non solo presero alla lettera quanto scritto, ma lo rielaborarono solo per articolare i ruoli di genere, le caratteristiche che avrebbe dovuto avere la donna ideale ed il corretto rapporto che l’uomo avrebbe dovuto tenere con essa. Uno di questi fu senza dubbio Paolo di Tarso, che contribuì a delineare il ruolo della donna all’interno della famiglia e della società.

«La donna impari in silenzio, in piena sottomissione / Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva / Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di preservare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza» (Paolo di Tarso, Prima lettera a Timòteo, 2:11,13,15).

Al suo discepolo Tito lo stesso Paolo scrisse: «[insegna alle donne] a essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti» (Paolo di Tarso, Lettera a Tito, 2:5). Se è vero che si tratta pur sempre di un teologo vissuto all’alba della nostra epoca, è altrettanto vero che l’idea della donna sottomessa al marito restò sempreverde anche quattrocento anni dopo, quando Sant’Agostino d’Ippona, nelle sue Confessioni, scrisse a proposito di sua madre:

«Molte altre signore, […] portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l’aspetto, e nelle conversazioni tra amiche deploravano il comportamento dei mariti. Essa deplorava invece la loro lingua, ammonendole seriamente con quella che sembrava una facezia: dal momento, diceva, in cui si erano sentite leggere il contratto matrimoniale, avrebbero dovuto considerarlo come la sanzione della propria servitù» (Sant’Agostino d’Ippona, Confessioni, IX.19).

Sorgono ora spontanee alcune domande: possiamo veramente affermare che la mentalità intrisa nelle citazioni precedenti sia scomparsa dalla società occidentale e che essa resista, sotto altri principi religiosi, in Medio Oriente tra i popoli arretratiSiamo sicuri che non esista, nel civilissimo Occidente, una non trascurabile spinta ideologica che vorrebbe ritrovare nella contemporaneità le esortazioni di Paolo di Tarso? O, ancora, che non esistano uomini capaci di concepire la propria compagna unicamente come proprietà?

Ha risposto a queste domande il regista Luigi Comencini che, tra il 1977 e il 1978, girò il documentario d’inchiesta sociale L’amore in Italia2 nel quale emerge una concezione della donna identica a quella di duemila anni prima. Ha risposto anche l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore – quello che salvaguardava l’onore di una minorenne stuprata da un adulto – dal codice penale solo all’inizio degli anni ‘80, praticamente l’altro ieri3.

Rispondono, infine, in modo del tutto cristallino: la mentalità del maschio alpha dominatore; l’ossessione per la tradizionalità dei ruoli di genere all’interno di una famiglia anch’essa tradizionale e la paura spasmodica della sua scomparsa; il Femminicidio ovvero «ogni pratica sociale violenta che attenta all’integrità, allo sviluppo psicofisico, alla salute, alla libertà o alla vita della donna, col fine di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico» (M. Cavina, Nozze di sangue, 2011) e tutte quelle uscite infelici di uomini – e purtroppo anche donne – che in un sottile gioco di parole tendono quasi sempre a giustificare la violenza di un patriarcato duro a morire.

Difficile scardinare concezioni millenarie, difficile farlo dall’oggi al domani, ma lo è ancor di più evidentemente fare i conti con noi stessi, incapaci di riconoscere nel dramma di altre donne, in altri contesti, un difetto che appartiene certamente anche alla nostra società che di avanzato, civile o migliore di altre, per certi versi, sembra non avere proprio niente.

 

Alessandro Basso

 

NOTE:
1. Nota bene: a differenza di come viene utilizzato nel gergo comune, il Medioevo non fu un periodo buio.
2. https://www.raiplay.it/programmi/lamoreinitalia .
3. Nota bene: l’abolizione legislativa non implica quella consuetudinaria.

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Fenomenologia dell’idiota tra comunità e individuo

Non fa mai piacere sentirsi definire un “idiota”; tra le varie offese a disposizione del vocabolario italiano, però, questa è una delle più “nobili”, che affonda le proprie radici nella Grecia classica e che, etimologicamente indica qualcosa di ben diverso da un soggetto irrimediabilmente stupido.

Nella polis greca, ἰδιώτης (idiòtes) deteneva una doppia valenza: letteralmente “individuo privato”, indicava da un lato coloro privi di cariche pubbliche, che non partecipavano perciò alle assemblee, esclusione normalmente dovuta alla mancanza di istruzione, e base linguistica per il latino idiota, “ignorante”, da cui poi l’offesa italiana. Il secondo significato, invece, è molto più pregnante e interessante: l’idiota era colui che, all’interno della polis, guardava al proprio interesse privato disinteressandosi del bene comune, sacrificando la cosa pubblica al benessere particolare.

Con tutte le limitazioni classiste, etniche e sessiste del caso, la Grecia classica aveva ben chiaro un concetto fondamentale a qualsiasi democrazia, riassumibile in una visione organicistica della polis: la città era manifestazione fisica della koinè, della comunità, e come tale era vista come un unico organismo, in cui ognuno ricopriva un ruolo fondamentale al benessere, alla prosperità e perfino alla vita di tutti. Lo scopo di ogni componente sociale doveva essere il bene comune, da questo sarebbe derivato anche quello individuale: chi ignorava il primo per dedicarsi al secondo, o invertiva la sequenza dei due, era un corrotto, un tiranno, o più semplicemente un idiota.

Dalla polis greca ad oggi i tempi sono chiaramente cambiati, la società si è fatta più stratificata e complessa, i numeri da soli impediscono lo svolgimento di una vita pubblica anche solo lontanamente simile a quella della Grecia classica, costringendo la democrazia a mutare da diretta a rappresentativa. Il nodo centrale dell’ideale greco, però, rimane, almeno teoricamente, inalterato: la società democratica esiste per amministrare le risorse pubbliche in modo da garantire il benessere di tutti, con ogni componente impegnata, ognuno nel suo specifico, al conseguimento di questo obiettivo.

Tra i tanti danni che il consumismo nella sua forma più becera e decadente ha portato alla società occidentale, però, c’è anche una frammentazione sistemica di questo originale patto sociale. Quella che Carlo Menghi (1990) ha definito la «società dei desideri» si è andata pian piano unendosi e confondendosi alla originale «società dei diritti», accuratamente tralasciando la parte “… e dei doveri” teorizzata nel modello francese di riferimento. Ogni individuo, ogni gruppo più o meno grande e rappresentato, rivendica diritti per sé, spesso e volentieri non per migliorare il tessuto sociale, ma per cambiare esclusivamente la propria condizione, reale o percepita. Nessun problema, ovviamente, quando questo deriva da un’effettiva situazione di discriminazione o di violenza sistemica: la lotta per i diritti dei neri che va avanti in America da due secoli almeno, migliorando la condizione di un gruppo minoritario oppresso, di fatto rafforza il tessuto sociale in quanto tale, aumentando la ricchezza sociale e culturale dell’intero gruppo. Ben diversa è la situazione quando l’autoreferenzialità dei richiedenti è tale che si ritiene soggetti terzi oggetto del proprio diritto: emblematico è il caso dei cosiddetti incel, i “celibi involontari”, che denunciando una sorta di complotto relazionale ai propri danni da parte del genere di interesse, rivendicano un nebuloso “diritto al sesso”, in cui un altro individuo pensante è reificato per il soddisfacimento di un proprio desiderio, tentativamente istituzionalizzato in diritto.

Saper distinguere i due tipi di rivendicazioni è di per sé complesso, e lo diviene ancora di più quando la scena pubblica si affolla di sempre nuove istanze, di sempre nuovi desideri scambiati per diritti, mentre molti diritti non riconosciuti rimangono a languire lontani dal palcoscenico di un dibattito che non li ritiene sufficientemente interessanti o trendy.

Un corpo in cui una gamba rivendica diritti propri a scapito di altri arti o organi è un corpo votato alla morte. Allo stesso modo, una società i cui membri sono concentrati esclusivamente sulle proprie rivendicazioni, disinteressandosi totalmente delle altre componenti della comunità, è destinata a una frammentazione tale che demolisce il tessuto sociale in quanto tale, una società in cui ognuno pensa per sé e pretende che lo Stato garantisca per legge ogni desiderio ottusamente considerato un diritto. Una società di idioti.

 

Giacomo Mininni

 

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Se il problema c’è, l’essere umano non risponde

Aristotele nella sua Politica, opera del IV secolo a.C., attribuisce all’essere umano una socialità innata, un istintivo senso di aggregazione che si può facilmente riscontrare nella presenza di variegati gruppi sociali, ognuno con la sua storia, le sue leggi, le sue identità culturali.
Ancora oggi troviamo difficile poter pensare a noi stessi in un’isola deserta, alla Robinson Crusoe o alla Cast Away, senza provare un vasto senso di smarrimento o angoscia che può indurre alla follia; ci collochiamo sempre all’interno di una famiglia, una compagnia di amici, un gruppo etnico-regionale, una nazione.

Nonostante ciò è capitato a tutti noi di provare un senso incolmabile di solitudine, causato da dinamiche fuori dal nostro controllo, o in altri casi ricercato spontaneamente, in modo da separarci per un periodo più o meno breve dal resto del mondo.
La domanda che sorge spontanea è: come può un animale sociale sentirsi solo?
La risposta può essere individuata sulla natura della socialità dell’essere umano, quindi aggiungiamo un’altra domanda: perché siamo animali sociali?

L’essere umano utilizza la socialità, la forza che solo una collettività può fornire, per realizzare i propri sogni; in altri termini l’essere umano è consapevole di non poter sopravvivere – fisicamente in natura, materialmente nell’epoca contemporanea – senza far parte di una società di suoi pari.
Aggiungendo per completezza un aggettivo all’affermazione aristotelica, l’essere umano è contemporaneamente un animale sociale e individuale.

A questo punto possiamo rispondere anche alla prima domanda: l’animale sociale può sentirsi solo perché quando si trova in difficoltà spicca la sua specificità di singolo e gli animali sociali che lo circondano difficilmente provano empatia per qualcosa che non appartiene a loro.
Proprio nei momenti difficili emerge questo atteggiamento, quando l’individuo risulta più fragile emotivamente.
Gli esempi sono innumerevoli, ma individuando i più estremi, di conseguenza siamo in grado di comprendere tutti gli altri.

Suicidio e tossicodipendenza sono due tematiche tristemente comuni in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, pur essendo delle costanti storiche, eppure facciamo ancora fatica a concepirle come mali che, sebbene colpiscano individui, ricadono inevitabilmente sull’intera collettivitàIn passato attorno a questi due drammi si è costruita una moralità che prevedeva l’ostracizzazione, il bando, l’emarginazione, sia della persona sia, in ambito religioso, della sua anima, concetti molto forti che oggi tendiamo a non comprendere ed erroneamente a confinare in epoche ormai sorpassate.

Tuttavia è sufficiente leggere i commenti sui social sotto a notizie di cronaca nera, per rendersi conto che le cose non sono molto cambiate. Negli anni c’è stato un approfondimento, un arricchimento nozionistico, per malattie emotive in passato totalmente ignorate, sconosciute o banalizzate a semplici sbalzi d’umore di persone deboli, eppure ci si scontra quotidianamente contro un muro di incomprensione.
Un commento alla notizia dell’ennesimo decesso per overdose nella mia città, mi ha particolarmente colpito e sostanzialmente recitava così: “Non capisco perché una persona debba drogarsi, non lo capisco e non lo voglio capire”Mentre se si fosse trattato di suicidio, in un contesto completamente diverso, sono certo che avrei raccolto numerosi e laconici “Egoista” rivolti al malcapitato.

Oltre all’immensa superficialità con cui molte persone affrontano mali dai confini molto poco definiti, e per i quali non esiste una cura specifica o un farmaco particolare proprio perché attaccano l’animo e l’autoconsapevolezza del singolo, il problema si concentra sulla sbagliatissima convinzione implicita che possano essere circoscritti a persone predisposte, fragili, deboli eccNon si prendono minimamente in considerazione le variabili che intervengono nell’arco dell’esistenza di ciascuno di noi, che se per anni possono sorriderci, possono anche farci precipitare da un momento all’altro in un baratro senza fine.
Non si comprende che imparando a conoscere queste problematiche potrebbe essere anche più agevole affrontarle quando ci colpiscono direttamente, o quando colpiscono un nostro amico, un figlio, un nostro caro.

E infine c’è la disumanizzazione della vittima, che non è più un nome, una persona con dei sogni andati alla deriva, con delle difficoltà superabili se solo non avesse trovato silenzio attorno a sé. Chi muore diventa un numero per la statistica, finisce in pasto a chi condanna l’uso della droga, a chi vorrebbe ammazzare gli spacciatori e i discorsi sull’immigrazione spiccano il volo che è un piacere. Così gli animali sociali preferiscono litigare sfruttando le vittime dell’indifferenza, piuttosto di affrontare la realtà.

 

Alessandro Basso

 

[Photo credit Pixabay]

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A lezione di globalizzazione da un presepista napoletano

Le strade del centro di Napoli riservano sempre un tesoro tutto da scoprire di voci, odori, sapori, ma soprattutto di incontri, un ambiente unico in cui il caos apparentemente anarchico che si osserva guardando la città dall’alto svela il suo ordine intrinseco, il suo flow, e lo apre a chi si avventura tra i suoi dedali e le sue piazze ritagliate tra i palazzi proiettati vertiginosamente in verticale.

È stato proprio muovendomi tra queste strade che mi è capitato di avviare uno dei dialoghi più gustosi e memorabili delle mie vacanze, affacciandomi alla finestra di una cantina che dava sulla strada per ammirare il lavoro di un artigiano, intento a lavorare su un presepe che avrebbe finito con ogni probabilità giusto in tempo per il prossimo Natale. Affatto disturbato dall’improvviso pubblico, il presepista (“per hobby”, ci ha tenuto a sottolineare, “non lo faccio per mestiere”) ha esposto volentieri il proprio lavoro, mostrandomi giganteschi presepi montati su cardini che ruotano a 360 gradi, personaggi finemente intagliati, e soprattutto la sua ultima opera, del quale era pronto solo lo scheletro della struttura portante, modellato sulla Tour Eiffel, e la “capannuccia”, una barchetta rovesciata su un fianco, simile a quelle che affollano da anni il Mediterraneo colme fino allo stremo di disperati in cerca di un nuovo inizio, con scritto sulla fiancata “Io sono la Speranza”.

“Questa è un’opera contro la globalizzazione”, mi dice, e nella descrizione che segue appare chiaro come si tratti in realtà di un’opera contro l’attuale modello di globalizzazione, più che contro il principio in sé. Indicando la base della Tour Eiffel, vi posiziona la barchetta, che andrà a fare da riparo alla Sacra Famiglia, nella sua versione non solo esule ma anche naufraga; attorno, dice, metterà “figure di politici da tutta Europa”, ognuno riconoscibile come solo le figure del presepe napoletano sanno essere. Al piano superiore, bandiere da ogni parte del mondo, mentre sulla cima della torre, il globo terrestre, “probabilmente in mano a Nostro Signore, che se non rimescola Lui gli animi, non ci si capisce proprio…”

Con tutta la semplicità del mondo, con immediatezza e chiarezza, il falegname indica le storture di un sistema di globalizzazione guasto, probabilmente in partenza, focalizzando l’attenzione sulle sue conseguenze più tragiche, riassunte in una barchetta rovesciata di fronte ai potenti del mondo; in quel “rimescolare gli animi”, poi, sta tutta la saggezza di chi sa che sentirsi parte di un tutto deve venire prima dei trattati commerciali, degli accordi doganieri, delle revisioni dei confini, accordi sacrosanti ma distanti da una sensibilità comune lasciata sola davanti a un cambiamento epocale, senza gli strumenti per coglierlo né i necessari elementi di contatto umano che avrebbero davvero potuto rendere il mondo “uno”.

In quel presepe in fieri, c’è tutto quel che è sbagliato nella globalizzazione, e tutto quel che c’è di giusto nel mondialismo: a una Theresa May che dichiarava che «se credi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla»1, l’artigiano risponde con un mondo piccolo, in bilico su una torre, riunito attorno alla stessa scena, come tante volte durante quest’anno ci è capitato di vedere, con eventi che riguardano sempre di più il pianeta in quanto tale; dall’altro lato, a chi rimarca ottimisticamente che “siamo tutti sulla stessa barca”, la nuova capannuccia ricorda che siamo tutti sullo stesso mare, ma non necessariamente sulla stessa barca, e che si può navigare su uno yacht sicuro e lussuoso o su una barchetta sgangherata e destinata spesso e volentieri al naufragio.

Si è fatto tanto parlare, scrivere e dibattere sulla più o meno teorica “identità globalizzata”, quella della “generazione Erasmus”, quella dei social network, delle chat e dei forum intercontinentali, dei soft power e delle contaminazioni culturali, ma nel concreto si stenta a sentirsi parte di un unico mondo, ancora tutti immersi nel “piccolo” del nostro paese e degli immediati dintorni. L’entusiasmo e l’ospitalità dell’artigiano, però, erano tali che, se il nostro dialogo fosse andato avanti anche solo qualche altro minuto, mi avrebbe probabilmente invitato a cena per continuare lo scambio. Chissà, forse bastano questi piccoli momenti di amicizia spontanea e di smisurata accoglienza per “rimescolare un po’ gli animi” in modo che, persino nel naufragio, le nostre barche possano comunque chiamarsi Speranza.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1.Se ne parla in questo articolo.

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2020: i mente-piattisti

Al contrario dei terrapiattismo, il fenomeno dei mentepiattisti spopola nella società mondiale ottenendo un grande successo mediatico. La caratteristica fondamentale di questa categoria di soggetti è la sostanziale carenza di consapevolezza delle proprie azioni e degli effetti che possono avere sugli altri, unita a una generale difficoltà di analisi e lettura dei contesti in cui si vengono a trovare. Contesti, per allacciarsi alla ormai celebre boutade di Umberto Eco1, muniti di minor controllo e con un pubblico sempre più ampio.

Il problema di fondo riguarda le Credenze e Conoscenze di cui questi individui presumono di farsi portatori: queste rappresentano gli elementi che ci spingono avanti nel nostro processo di valutazione del mondo2, nell’evoluzione del nostro pensiero epistemologico. A partire dagli studi di Wellman (1990) fino a quelli di Alexander, Dochy, Murphy, Guan (1995 e 1998) si è giunti all’evidenza che queste due entità linguistiche e concettuali siano di fatto differenziate ma parzialmente sovrapponibili: basti pensare alla sottile linea che divide la non-certezza (Credenza) dalla certezza (Conoscenza) di una data notizia. Qualora venisse meno il dinamico processo di confronto tra questi due termini, rischieremmo di spingerci fuori strada nella valutazione delle cose: uno dei rischi maggiori è quello di sovrapporre e di far coincidere indiscriminatamente questi due termini.

L’impegno ad approfondire le nostre ricerche secondo logica e buonsenso è quanto mai necessario a gestire il rapporto tra credenze e conoscenze: proviamo infatti a considerare la nostra esperienza di tutti i giorni con tutto quello che può mostrarci di vero e falso, attendibile e non attendibile.

La domanda di profondo gusto etico è: “Quanto penso di conoscere?”.
Se ognuno di noi portasse avanti questo interrogativo ammettendo socraticamente di sapere di non-sapere avremmo maggiori possibilità di contrastare il cosiddetto effetto Dunning-Kruger – presente in misura diversa in ognuno di noi – per il quale all’erronea comprensione delle cose è collegata l’incapacità di riconoscere la propria ignoranza e connettersi dialogicamente agli altri mettendoci in discussione. Quando ci si rifiuta di ampliare i propri criteri di giudizio il nostro pensiero e lo stesso linguaggio diventano un circolo vizioso nel quale ogni significato tende a diventare assoluto e autoreferenziale e quindi non adattivo verso il mondo: l’esatto contrario di un linguaggio generativo ed evolutivo che riconosce i propri limiti ed è capace di elevarsi e ampliarsi oltre di essi. Purtroppo, l’ignoranza è, e sempre sarà, più “grande” della conoscenza: la Scienza ad esempio, per il suo carattere dinamico e incompiuto, non potrà mai mettere a tacere definitivamente le credenze intorno ai fatti e alle origini del mondo; al massimo potrà farlo solo ad un certo punto del processo. Ogni branca del sapere finisce per smentire sé stessa: a noi non resta che partecipare in modo adeguato a questo dibattito.

La mancanza di una percezione critica del mondo impedisce di prenderne realmente consapevolezza, impedendo di potervi avere realmente a che fare: è paradossale come la comunicazione di tali individui – tanto ridondante e piena di echi – non abbia realmente nessun vero potere di generare “nuovi mondi” nel corso della storia. A riprova di questo è possibile notare come le fake news si ripresentino ciclicamente configurandosi come semplicistici nessi causali senza nessun adeguamento ai giusti aspetti del sapere, ai modi complessi in cui progredisce e al linguaggio complesso necessario per descriverlo. Sempre Wittgenstein: «È più giusto e interessante non dire: questo è nato da quello, ma: questo potrebbe esser nato così», poiché ogni spiegazione è un’ipotesi che dev’essere trattata adeguatamente3.

Ciò che il filosofo austriaco aveva temuto agli inizi del 1900, il complicarsi fuorviante e ridondante della civiltà contemporanea, assume oggi un carattere ancora più grottesco: masse di persone che si accalcano per elargire un giudizio, sentenziare, urlare un commento privo di armatura e sostegno.
Il nostro linguaggio è pieno di mitologia e per questo è necessario affinare la nostra percezione perspicua4, dissodare il nostro linguaggio onde meglio delineare, scoprire e comprendere il significato. Il monito di Socrate torna inevitabile dopo 2470 anni: una vita non indagata non è degna di essere vissuta.

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. “Il Web dà diritto di parola a legioni di imbecilli, i quali prima parlavano solamente al bar dopo due-tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società”.
2. Mason-Boldrin, Conoscenze e credenze sono percepite come costrutti differenti?, in “Giornale italiano di psicologia”, 2007, p 629.
3. L. Wittgenstein, Note sul ramo d’oro di Frazer, p. 50.
4. Chiara, trasparente.

[Photo credits Timo Voltz su Unsplash.com]

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Urbanicidio, ovvero uccidere una città

Arrivare ad Amatrice dal versante sud è un’esperienza sconfortante: a distanza di più di tre anni dal terremoto che ha raso al suolo la cittadina del reatino, il centro storico è ancora un ammasso di macerie, le ricostruzioni non sono mai cominciate, la popolazione vive ancora in alloggi sempre meno “temporanei”, quel che resta delle case, degli edifici storici, delle chiese non è neanche stato rimosso, e tra le macerie si possono addirittura intravedere resti di mobilio, di arredi, perfino di vestiti. Sarebbe tragico se la situazione fosse dovuta a una mancanza di fondi, ma diventa fonte di indignazione quando invece la ricostruzione di Amatrice, come degli altri paesi del cratere del terremoto 2016-17, è bloccata da un’ottusa miopia burocratica, che applica le normative in uso per le costruzioni ex novo anche alle ricostruzioni emergenziali. Causato da calcolo o da stupidità, considerate le conseguenze tragiche che questo stallo ha sulla popolazione e sulla comunità cittadina, esiste un termine per definire quanto sta avvenendo: urbanicidio.

La parola è entrata nel linguaggio comune nel 1991, allorché alcuni giornalisti furono lasciati entrare in ciò che restava di Vukovar, una delle città più fiorenti e culturalmente attive della Slavonia, in Croazia. Pur non essendo vittima dei conflitti sociali ed etnici che caratterizzavano altre cittadine balcaniche durante la guerra, Vukovar fu sistematicamente annichilita dalle milizie serbe, che dopo un lungo assedio procedettero a distruggerne gli edifici più importanti e caratterizzanti, a estirparne l’identità, a passarne la popolazione a fil di spada secondo i criteri della pulizia etnica in corso. Di fronte a quello scempio, i reporter sul campo non poterono che constatare la scientifica “uccisione” della città, colpita ai propri organi vitali per impedire che potesse rinascere1.

Se la parola urbanicidio è relativamente nuova, il concetto in sé affonda le proprie radici nell’antichità: la distruzione di Troia, secondo il mito, risponde alla stessa volontà di annientamento dell’anima di una città prima ancora che delle sue mura e dei suoi palazzi, così come quella di Cartagine da parte di Roma, col sale sparso sull’area della pianta cittadina per impedire perfino all’erba di ricrescere. Più recentemente, la tedesca Odessa e le giapponesi Hiroshima e Nagasaki, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno rischiato il destino di miriadi di piccoli paesi e centri rurali, soprattutto italiani e francesi, spazzati via dal conflitto.

L’urbanicidio assume senso partendo dalla considerazione che una città non è solo un insieme di edifici, abitativi o lavorativi, di luoghi di culto, di aree verdi, di centri più o meno storici, quanto piuttosto l’incarnazione in pietra, legno, acciaio e cemento dell’identità dei suoi cittadini, costruita e tramandata generazione dopo generazione, forte abbastanza da imprimersi su mura, porte, strade, palazzi e parchi, e da definire e in-formare a sua volta il carattere e la percezione che di sé hanno i vecchi e nuovi cittadini. Una città ha una sua personalità, un suo apporto unico e fondamentale al coro delle comunità umane, è più antica degli Stati e con ogni probabilità sopravviverà ad essi. È partendo da queste considerazioni che il Secondo Dopoguerra ha visto il fiorire di movimenti per i diritti delle città, prima di tutto il diritto alla vita, fondando anche organi internazionali come il Parlamento Mondiale dei Sindaci, tesi a tutelare l’integrità fisica e morale delle città contro gli abusi e le violenze cui sono sottoposte, il più delle volte dagli stessi Stati2.

Abbandonare una città a se stessa dopo una catastrofe naturale, non solo non facendo quanto possibile per facilitare la ricostruzione ma operando attivamente per bloccare ogni tentativo di rinascita, non è troppo diverso dal distruggerla scientemente con bombe e mortai: in entrambi i casi, si impedisce a una comunità di ritrovare il proprio spazio comune, di recuperare il tesoro di vita, esperienza e carattere stratificato nelle pietre di strade e edifici, di tramandare uno spirito consegnato alle generazioni future da quelle passate e custodito tra vie e parchi, in chiese e torri. Uccidere una città è un crimine non troppo diverso dall’uccidere una persona: in entrambi i casi, il coro del mondo perde una voce insostituibile, e il patrimonio umano si fa un poco più povero.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1. Cfr. P. Rumiz, Maschere per un massacro, 1996
2. Cfr. G. La Pira, Le città sono vive, 1957

[Nell’immagine di copertina: Serjilla, Siria]

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