Il pensiero è una forma d’azione: Arendt e l’attualità

Quanto è rilevante, oggi, provare a fare filosofia riflettendo criticamente e creativamente sul mondo che ci circonda? Quanto è importante dialogare con autori del passato, rintracciando nei loro discorsi rimedi utili per affrontare il presente?

In un’epoca difficile e precaria come quella che sta avvolgendo le nostre vite in questo periodo pandemico, credo sia stimolante ed interessante provare a riflettere su quella che Hannah Arendt (1906-1975), illustre filosofa e politologa tedesca naturalizzata statunitense dopo diversi anni vissuti da apolide, definisce crisi dell’agire politico. L’agire politico, e dunque l’azione, rappresenta un nucleo fondamentale nel pensiero arendtitano. Pensiero che non si traduce mai in pura e astratta contemplazione, bensì è intriso di concretezza nella misura in cui s’interroga criticamente sul presente e su problemi che riguardano tutti e che ci invitano a prendere posizione. Un presente di cui Arendt cerca di mettere in luce le brutture, i vicoli che sembrano ciechi ma che, in realtà, non sono altro che nodi di esistenza che possono essere sciolti attraverso l’ascolto ed il dialogo. Arendt, qualche decennio fa, parlava già di come la politica fosse progressivamente divenuta un potere dominato da logiche strategiche e di potere e di come mancasse una vera e propria partecipazione dei cittadini alle vicende concernenti la vita pubblica. Forse, ciò che rappresenta meglio la nostra epoca è questo. Un governo senza politica. Per Arendt, infatti, politica significa agire, prendere posizione attraverso la parola e il discorso mostrandosi agli altri nella nostra «irriducibile ed irripetibile singolarità ed unicità»1.

Nella polis, infatti, realtà pre-filosofica e pre-platonica formatasi tra il VII-V secolo a.C. ad Atene, i cittadini ateniesi liberi che avevano compiuto la maggiore età si riunivano al fine di discutere di affari della vita pubblica. Credo che a questo punto emerga una questione rilevante: al giorno d’oggi capita mai di trovare tempo e spazi per riflettere su tali temi? In che modo, oggi, facciamo politica? Credo che in molti lettori delle nuove generazioni potrebbero rispondere che i social network, effettivamente, sono divenuti mezzi attraverso cui  intavolare un dibattito. Eppure io credo che essi siano mezzi più d’espressione che di discussione, intesa come avveniva nella polis, in cui ci si disponeva in maniera circolare al fine che nessuno dei presenti fosse escluso. La polis è un esempio di realtà in cui il pensiero, la discussione, la facoltà del logos intesa come parola, discorso diviene creatrice di qualcosa. Come dice Arendt, «l’azione è un memento che gli uomini non sono nati per morire, ma per dare inizio a qualcosa di nuovo»2. Noi esseri umani, infatti, siamo inizi e iniziatori; le nostre parole, le nostre gesta hanno la possibilità di cambiare situazioni ed il normale incedere degli eventi. Il pensiero non è né una speculazione fine a sé stessa, né un ragionamento astruso, bensì l’attitudine a discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, la facoltà di riflettere sul mondo circostante e lasciare che la realtà stessa ci doni nuovi sentieri da percorrere. Attraverso l’azione del pensare diamo forma a teorie e concetti, ma al contempo lavoriamo su noi stessi, ci guardiamo dentro ponendoci sempre in dialogo critico ed aperto col mondo esterno.

Questo è, per Arendt, fare politica. Una politica che ci coinvolge, una politica di tutti senza lasciare indietro nessuno. Una politica di discussione, dibattito, una politica che fa crescere alimentando la volontà di essere sempre più protagonisti della realtà uscendo da quell’atteggiamento tranquillizzato, come Arendt lo definisce, tipico di una modernità sterile, rinchiusa in un bocciolo solipsistico annaffiato soltanto da indifferenza. Tale atteggiamento è tipico di quella che Arendt definisce la “società degli impiegati”, descrivendo la nostra società come passiva, attonita, grigia, composta da animal laborans dediti al lavoro e non più da zoon politikon, inteso come singolarità che entrano in contatto tra loro, creano legami e scoprono chi sono proprio nel momento in cui si espongono, prendono posizione mettendo in luce la pluralità delle loro differenze, nonostante riconoscano di essere parte di un Tutto che li accomuna, ma che non appiattisce tali differenze.

 

Elena Alberti

 

Sono Elena Alberti, sono nata a Brescia ma per motivi sportivi e di studio mi sono trasferita in provincia di Verona, dove sono studentessa di filosofia, che rappresenta la mia più grande passione insieme all’arte, la poesia e la letteratura.

 

NOTE:
1. Cfr. S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, 2003
2. Cfr. H. Arendt, Vita Activa, 1958

[Immagine tratta da Unsplash.com]

la chiave di sophia

C’è un medico in seggio? Elezioni in stato di emergenza

In diversi comuni italiani, è tempo di elezioni. Se è il caso anche del posto in cui vivi, puoi provare a partecipare al seguente piccolo esperimento: quando sei in giro, presta attenzione ai vari manifesti elettorali di chi si candida a sindaco o a consigliere. Bene, noti qualcosa in Comune?

A me ha colpito in particolare un aspetto: nelle immagini, più di un candidato indossa un camice da medico o farmacista, spesso brandendo uno stetoscopio, accompagnato da frasi come “la mia ricetta per città-X” o “con me sei al sicuro”. Evidentemente, non è un caso e la ragione di tutto ciò è facilmente comprensibile: effetto-pandemia, in almeno due sensi.

Il primo senso è più politico-politicante: i vari esponenti di partiti e movimenti hanno annusato l’aria e cercano di cavalcare il trend del momento. “La gente” comincia ad avere come riferimento personale sanitario di varia natura? Allora servono candidati provenienti da quelle file! “Il popolo” comincia a fidarsi di chi ha a che fare con la salute? Allora sotto con l’arruolamento di (pseudo)esperti del settore!

Il secondo senso è più politico-sociale, direi filosoficamente più interessante: che cosa significa il fatto che le persone iniziano a ritenere affidabili i “professionisti della salute”? Senza chiamare ora in causa la biopolitica (ne ho parlato qui), si può dire che stiamo assistendo alla politicizzazione di una parte della società che prima di oggi non aveva (una simile) rilevanza politica. Tra i primi sintomi abbiamo avuto la presenza e il séguito in crescita esponenziale di virologi, epidemiologi e annessi in talk-show e social: la loro diventava una voce in capitolo, se non La Voce per eccellenza – per la gioia dei neo-followers e la frustrazione dei neo-haters.

Così, quando si tratterebbe di fare politicamente sul serio (almeno in teoria), ecco che oltre alle voci servono anche “anima e corpo”: professionisti della salute di ogni tipo assumono un valore politico tutto nuovo e peculiare, come fossero in grado di agire in maniera politicamente buone ed efficace per il solo fatto di essere medici, infermieri, farmacisti, nutrizionisti e via dicendo (già, ma fin dove arriva l’elenco?). In passato, nei manifesti elettorali campeggiavano scritte come “Presidente operaio”: leggeremo presto in giro “Presidente medico”? Insomma, oggi chi si occupa di salute è investibile di un ruolo pubblico, di una funzione politica: manifesta un valore immediatamente comune.

Provo adesso a leggerti nel pensiero: “ok, ma questa cosa è un bene o un male?”. Sarò onesto: non lo so con precisione, perché mi sembra ci sia del bene e del male nella faccenda. Per capirlo, facciamoci aiutare da un’intuizione di Platone ancora significativa dopo oltre 2500 anni 1che influencer!

Una società si compone di diversi ambiti, “tecniche” per Platone e “professionalità” per noi: ciascun ambito è importante e contribuisce alla società, ma il bene sociale generale non coincide con il bene di nessun ambito preso singolarmente. Per un gommista è un bene avere gomme che si bucano ogni 5km; per un produttore di gomme, un guidatore e il traffico stesso no. Inoltre, nessuno specifico “professionista” è competente intorno al Bene complessivo della propria società, essendo preso – giustamente – dal proprio lavoro e dai propri affari. Beh, quasi nessuno, perché Platone aveva un coniglio nel cilindro, che gli è valso persino l’accusa di essere il fondatore di ogni forma di ingegneria sociale o totalitarismo tecnocratico: esiste un tecnico strano q.b., specializzato nella generalità, in grado di cogliere Il Bene DOP, dunque anche Il Bene Sociale. Perciò, tale professionista rappresenta il Candidato Ideale per agire come Politico in senso pieno: vota quindi… il filosofo, curerà l’anima tua e della società!

Possiamo ora tornare alla tua legittima domanda. È un bene che i riflettori sociali comincino a essere puntati su una categoria data per scontata, come ora i virologi (o pensa ai pompieri USA dopo l’11/09), o su una addirittura ostracizzata, come magari in futuro i sex-worker: anche loro fanno la propria parte! Eppure, è un male se si perde di vista quell’“anche”: ok, prendersela con i filosofi è più facile, perché si fatica a capire cosa davvero facciano; ma nemmeno un medico, per quanto si sappia meglio cosa faccia, incarna Il Bene Sociale o possiede una qualche Super-Competenza in merito. Insomma, vota pure il tuo medico di fiducia, ma non sperare che basterà a sconfiggere il nemico più temuto in comune: le buche stradali.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Un ottimo testo che discute tutti i seguenti aspetti è G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 
1971.

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Vivi e fai vivere: la biopolitica spiegata in sei sorsi

#biopolitica: prima della pandemia, l’hashtag era di tendenza solo per filosofi &Co.; con la pandemia, le cose sono alquanto cambiate. Se vorrai fare bella figura al prossimo aperitivo mascherato e se hai amici sufficientemente strani, potrai dire che hai seguito un mini-corso per spiegare di che cosa si tratta mentre bevete un cocktail in sei sorsi1. Se la cosa funziona, potrai chiedere in cambio che il cocktail ti venga offerto. Che la bevuta abbia inizio!

Sorso1. L’idea-base è che il potere sovrano regnava e comandava, cioè dettava legge e decideva chi vive/muore, mentre il potere biopolitico regola e mobilita, cioè norma le condizioni di vita e fa vivere. Disclaimer fondamentale: non si parla semplicemente del potere centrale statale, ma del modo in cui il campo sociale si organizza e articola i rapporti di forza. Il potere riguarda quindi non soltanto politici, sacerdoti e militari, ma anche genitori, famigliari e insegnanti, e poi ancora medici, tecnici ed esperti: sono figure con ruoli e pesi diversi, ma tutte rappresentano forme di potere!

Sorso2. Siamo al cuore della faccenda: abbiamo biopolitica quando la preoccupazione pubblica diventa l’amministrazione e la gestione della salute, cioè il modo in cui i cittadini vivono. Se un Re era un Padre Padrone assoluto, che teneva a bada i sudditi brandendo il diritto di ucciderli a piacimento, un governante biopolitico è un amministratore delegato, incaricato della governance della sanità del corpo sociale in senso ampio, cioè delle varie dimensioni del benessere e della salute pubblici. Bisogna innanzitutto ringraziare la medicina, che ha migliorato le condizioni di vita, e la statistica, che ha reso le popolazioni l’oggetto di un sapere. Il tocco finale arriva oggi con la combo “biotecnologie + digitale”: la sorveglianza diventa capillare e quasi penetra le menti, la vita viene (ri)prodotta in laboratorio e l’estrazione di dati di ogni tipo si fa al contempo massiva e personalizzata. Si apre la possibilità di monitorare costantemente le condizioni di vita – con annessi problemi, perplessità e reazioni.

Sorso3. Insomma, biopolitico è il governo (nonché il cittadino) che si premura tanto di permettere quanto di regolare un’azione come il bere alcolici, in pubblico e in privato: a un Re, questi sorsi sarebbero interessati ben poco, paradossalmente. Ecco il motto del biopotere: vivere e far vivere – a certe condizioni. La vita va prodotta, gestita, alimentata e regolata; le sue prestazioni vanno protette, potenziate e arricchite: come sempre, questo ha un lato positivo e uno negativo. Il bright side è l’opportunità di coltivare e sfruttare la vita, cioè di renderla il più possibile lunga, ricca e salutare; il dark side è che mantenere e curare la vita diventano una preoccupazione primaria, perché prima di vivere bisogna innanzitutto sopravvivere. Da qui il rischio: sacrificare il ben-vivere per il mero sopra-vivere, ritrovandosi in una condizione invivibile.

Sorso4. La domanda sorge allora spontanea: il biopotere è meglio o peggio del potere sovrano? I filosofi direbbero che la domanda è mal posta: in realtà essi sono diversi – banale ma vero. No, non farti distrarre dal sogno di una radicale abolizione di ogni forma di potere: dove ci sono esseri umani, là c’è anche un qualche potere. Ma non disperare, perché se il modo in cui funziona il potere si trasforma, cambiano anche i modi in cui resistere a esso: dove c’è potere, là c’è anche resistenza. Come posso dunque bioresistere? Risposta: almeno in due modi, uno più contenitivo e uno più opportunista. Sotto con gli ultimi sorsi!

Sorso5. Il primo modo prevede una radicale opposizione al potere: non accettare che altri decidano che cosa è giusto per la tua salute, che esista davvero una generica salute collettiva, che «biosicurezza» e «nuda vita» diventino i valori sociali per eccellenza a discapito per esempio di privacy, libertà, uguaglianza e prossimità. Oppure, si può proprio rifiutare l’invito al continuo lavoro su di sé, perché esso è una violenza mascherata da vantaggiosa offerta.

Sorso6. Il secondo modo prevede di fare libero uso del potere: mettersi a dieta, fare self-building, nel senso ampio di auto-regolarsi, curando la salute e il benessere del sé, anche a prezzo di una certa ansia e stanchezza da prestazione. Oppure, si può allargare il raggio d’azione, spendendosi anche nella cura del mondo: nella salvaguardia e promozione della vita delle generazioni presenti e future, come anche dell’intero globo e della vita stessa – Biopolitics for Future. Sembra impegnativo, ma per fortuna dopo sei sorsi nulla è impossibile!

Che dici, basterà per riuscire a scroccare il prossimo cocktail?

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Per avere un’idea della copiosa letteratura sul concetto, basta consultare un motore di ricerca. Posso qui almeno celebrare il “peccatore originale”: il M. Foucault di Storia della sessualità 1. La volontà di sapere e Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976) (Feltrinelli, Milano 2013 e 2020).

[Photo credit unsplash.com]

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Grillo, Draghi e la democrazia di Giano

Nella Roma pre-imperiale, il dio Giano era considerato l’unico dio ingenerato, eterno, preposto ad ogni inizio ed ogni fine. Testimone di una natura ciclica che da sé viene e a sé ritorna, Giano era sovrano degli opposti: di vita e morte, di acqua e terra, di mito e storia. In particolare, il suo principale tempio ai piedi del Viminale lo vedeva come Bifronte (in alcune raffigurazioni le teste del dio arrivano a quattro), un volto per i tempi di guerra, durante i quali il tempio veniva aperto, e uno per i tempi di pace, che vedevano invece il santuario chiuso. Spada o vomere, battaglia o commercio, conquista o alleanza, ogni coppia di opposti veniva unificata nella figura dello stesso nume tutelare, il Padre di tutti gli dei secondo il Carmen Saliare, molteplici aspetti di una sola, dinamica e a volte contraddittoria realtà romana.

A millenni di distanza, la situazione a Roma non è cambiata poi granché, e tra contraddizioni, stravolgimenti e piccole o grandi rivoluzioni, i giorni scorsi hanno visto conciliarsi anche l’ultimo di una lunga serie di irriducibili opposti. L’incontro tra il fiero e belligerante anti-casta Beppe Grillo e l’ex Governatore della Banca di Italia e Managing Director della Goldman Sachs Mario Draghi si è risolto con una curiosa, forse inaspettata coincidenza di vedute, una alleanza tra estremi che ha inaugurato una nuova stagione della sempre movimentata politica italiana.

Al di là di ogni considerazione di merito, non è difficile vedere come e perché una alleanza tra i due, seppure di scopo, apparisse quantomeno improbabile, considerati i rispettivi curricula. Beppe Grillo, ex comico fondatore del Movimento 5 Stelle, ha fatto il proprio ingresso in politica con il Vaffa Day, una manifestazione itinerante che non risparmiava certo strali alla “casta dominante”, passando poi la stessa impronta al Movimento, la cui vocazione iniziale era proprio quella di scardinare i sistemi di potere, abbattere i partiti, cambiare il paese. Mario Draghi, tra i più esperti e capaci economisti di Europa, è proprio l’incarnazione di quei “poteri forti” avversati dal primo M5S: banchiere, ministro del tesoro, Presidente della Banca Centrale Europea diventato famoso per un salvataggio dell’Euro scandito dall’iconico “Whatever it takes“, e per una famigerata politica di “correzione” nei confronti dell’insolvente Grecia. Difficile immaginare due figure più agli antipodi.

Eppure, i due leader del momento potrebbero essere nient’altro che i nuovi, moderni volti di quel Giano che non ha mai abbandonato la città capitolina, apparentemente distanti, ma facenti capo a un solo corpo, una sola realtà, una sola natura. A voler trovare qualcosa in comune tra due approcci così palesemente opposti, è facile rilevare come entrambi siano una critica, gridata in un caso e sottesa nell’altro, alla politica tradizionale, a un sistema azzoppato da lotte intestine, incatenato da un clima di campagna elettorale permanente concimato da televisioni e social media, accecato da una spiazzante mancanza di visione, incapace di rispondere alle sfide del tempo e alle legittime istanze della popolazione.

Negli ultimi anni, movimenti popolari “dal basso” e proteste anti-casta si sono alternati con geometrica regolarità a interventi emergenziali di professionisti e tecnocrati, il tutto rigorosamente esterno ai sistemi partitici. L’immagine della politica che ne emerge è sconfortante: da un lato, i movimenti popolari e/o populisti si fanno avanti per supplire alla carenza di contatto con la popolazione, portando violentemente alla ribalta richieste, problematiche, lamentele, stanchezze e insoddisfazioni altrimenti inascoltate; dall’altra, i tecnici intervengono quando il problema contingente è “troppo serio” per essere lasciato in mano ai politici, sottolineando la mancanza di preparazione e professionalità di questi ultimi, e riducendo la politica stessa a una macchina che chiunque è capace di guidare, ma che richiede l’intervento di un meccanico al momento del guasto, una questione meccanica piuttosto che una vocazione o tantomeno un servizio.

Dalle rovine del tempio al Viminale, Giano continua a vigilare su Roma e sulla sua doppiezza, aprendo una porta o l’altra, unendo l’uno vale uno al governo tecnico, ancora una volta riunificando gli opposti nel loro essere, entrambi a loro modo, sintomi e testimoni del fallimento della democrazia rappresentativa.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
Immagine di copertina appartenente all’archivio personale dell’autore

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Democrazia e la grande bugia: da Arendt ad oggi

Curioso come i maggiori pensatori di quella che è considerata, non esattamente a proposito, la prima democrazia del mondo occidentale fossero essenzialmente anti-democratici. Per quanto il modello dell’Atene del V e IV secolo a.C. abbia ispirato tanti politologi dei secoli successivi, infatti, ben pochi filosofi vedevano in una sua versione “estesa”, quindi in una effettiva democrazia, una forma ideale di governo. Senza scomodare l’aristocratico Platone, anche Aristotele diffidava della democrazia, che a suo avviso aveva nel proprio punto di forza, la partecipazione del popolo intero, la sua più grande debolezza: troppo facile, pensava, ingannare le masse e manipolarle con parole suadenti e menzogne, spianando così la strada a qualsiasi dittatore dalla parlantina sufficientemente sciolta e con un minimo di carisma.

Facendo un salto in avanti di più di due millenni, il monito aristotelico risuona nell’analisi di Hannah Arendt sull’origine dei totalitarismi del Novecento: alla base di ogni assolutismo, contemporaneo e non, c’è per la filosofa tedesca una «grande bugia», una menzogna ripetuta all’infinito che diventa mito fondante per il gruppo dapprima esiguo, poi sempre più ampio di seguaci del leader di turno. Per Hitler fu l’esistenza di una lobby ebraica che controllava l’economia mondiale, e che aveva decretato la sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale e la sua successiva crisi economica; per Stalin fu invece la presenza endemica di agenti capitalisti che arrivavano a lasciarsi morire di fame per fingere l’esistenza di una carestia e minare così la prosperità del comunismo sovietico.

Il punto di forza della grande bugia, per Arendt, è la sua pervasività: eliminando la libera stampa e monopolizzando i restanti strumenti di informazione, specialmente la radio per il regime nazista e la televisione per quello sovietico, il mito prende il posto dei fatti, la realtà viene riscritta secondo l’ideologia dominante, e al popolo non resta altra lente che non sia quella deformata dall’alto. La mancanza di confronto con qualcuno esposto a diversa narrazione e l’isolamento dal resto del mondo sono terreno fertile per la grande bugia, che diventa realtà ufficiale, e quello che prima era un capopopolo seguito da una sparuta minoranza diventa l’atteso condottiero capace di liberare le masse da una minaccia da lui stesso inventata e paventata.

Si potrebbe essere indotti a pensare che, in una società pluralista come la nostra, in cui molte e diverse voci si accavallano e si inseguono offrendo fin troppe versioni degli stessi avvenimenti, un rischio del genere sia quantomai lontano, eppure gli ultimi avvenimenti di Washington smentiscono una versione così ottimistica. Vedere migliaia di persone prendere d’assalto il Campidoglio, riunirsi in tutta la città invocando un golpe nel cuore di quella che è ancora la più grande democrazia occidentale, e in seguito organizzarsi online per un successivo raid in concomitanza con l’insediamento del nuovo Presidente eletto, sarebbe già di per sé sconcertante, ma lo diviene ancora di più studiando le motivazioni dei manifestanti. I complottisti di QAnon che vedono in Trump un eroe che combatte in segreto contro gruppi di satanisti pedofili e comunisti sono uniti dalla loro “grande bugia”, cui si è unito adesso l’imperituro mito della “vittoria mutilata”, altra contro-narrazione smentita dai fatti che diventa tradizionalmente humus per personaggi autoritari.

La grande bugia sarebbe dovuto essere sconfitta dalla comunicazione, dal confronto, dalla interconnessione, e la virtuale assenza di isolamento avrebbe potuto essere un ottimo vaccino, ma è accaduto invece l’opposto. Gli algoritmi dei social network che determinano i nostri interessi e le nostre opinioni, chiudendoci in tante echo chamber (= camere dell’eco) in cui il nostro pensiero risuona all’infinito rafforzato da quello di altri che portano avanti le nostre stesse idee, finiscono col privarci di uno scambio, di un confronto, di una comunicazione reale. Un gruppo su Facebook o un trend su Twitter non risultano troppo diversi dagli sparuti gruppetti astiosi e violenti che si trovavano nelle birrerie di Monaco negli anni Venti, intenti a discutere di cose che solo loro sapevano, lontani dal “popolo bue” che non vedeva oltre la versione ufficiale dei giornali.

Per quanto possiamo considerarci connessi, ci ritroviamo ancora una volta soli, in esclusiva compagnia dei nostri miti e di sodali che sono in realtà un nostro specchio, alla mercé di chiunque sia in grado di mentire abbastanza bene da convincerci che la sua grande bugia sia in realtà la “grande verità” che i “poteri segreti” ci nascondono.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Marija Zaric via Unsplash]

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La democrazia di fronte allo stato di emergenza

All’interno della situazione socio-sanitaria che si è profilata negli ultimi due mesi nel nostro paese, ritengo necessaria una riflessione sui fondamenti e le attribuzioni del potere politico. Un’analisi che si avvalga degli strumenti interpretativi approntatici dalla storia della filosofia 24politica, che si è interrogata sul carattere più o meno sociale, e dunque politico, della natura umana, o viceversa sul suo carattere egoistico, laddove la società e la politica diventavano espedienti artificiali di protezione e sicurezza.

Su questo solco, penso ad Aristotele, che sia nell’Etica nicomachea, sia nella Politica, aveva sottolineato la natura sociale dell’individuo, facendo vedere come quest’ultimo sarebbe portato ad associarsi. È proprio nel suo trattato di politica che emerge, in contrapposizione alla costruzione ideale platonica, l’esigenza “debole”, ma più realistica, di determinare la forma del migliore Stato possibile in circostanze date. Se Platone nella Repubblica aveva delineato un modello di “Stato ideale”, in condizioni ipotetiche, e tale da non tenere conto della realtà effettiva, Aristotele riteneva che non si potesse determinare in astratto quale forma di governo fosse la migliore in assoluto. Occorreva una considerazione attenta delle condizioni sociali e materiali di un paese per rilevare l’opportunità della relativa costituzione. Una forma di governo, così, poteva essere migliore di un’altra, ma il rilievo delle circostanze effettive imponeva con ciò stesso l’abbandono dell’idea di perfezione. A proposito della difficile congiuntura socio-sanitaria in cui purtroppo versiamo attualmente, è interessante notare come nella Repubblica platonica sia sviluppata una riflessione sui temi della “salute” e della “malattia”, calati nel microcosmo dell’anima individuale e nel macrocosmo dello Stato. Il quale ne sarebbe lo specchio rifrangente l’immagine in più grandi e ben visibili dimensioni.

Nell’opinione di Platone la malattia si sviluppava quando si verificava, all’interno di tali realtà, un abbandono dei compiti “naturali” di comando spettanti alle loro parti “razionali” a favore di quelle ritenute “irrazionali”. Ovvero, quando l’anima razionale non avesse sottomesso a sé la parte animosa e quella concupiscibile avremmo avuto la malattia dell’anima, e se i filosofi si fossero fatti governare da lavoratori manuali o da guerrieri, sarebbe avvenuta quella della città-Stato. Perché ci fosse salute, o “giustizia”, nell’anima singola e nello Stato stesso, doveva regnare un “consenso” generale su quale parte, all’interno di ciascuna delle due dimensioni, dovesse regnare per natura1.

Ora, questo modello di “salute” della collettività, nella democrazia attuale, è difficilmente trasportabile, essendo la democrazia strutturalmente conflitto, e mai consenso generalizzato, su chi debba governare. Nella persuasione, giusta e fondamentale, che nessuno sia stato predisposto a farlo dalla natura. La democrazia è conflitto fra parti e fra “partiti”, diremmo oggi. L’individuazione di un nemico assoluto e unico, come avvenne nei totalitarismi, fu la sua degenerazione strutturale. In questo contesto vorrei richiamare la figura di Carl Schmitt che appunto si era interrogato sulla valenza conflittuale della politica, e sulla sua capacità di determinare la figura del “nemico” e lo “stato di eccezione”. Altra categoria dolorosamente attuale3.

Lo “stato di eccezione” si configurava, secondo Schmitt, come una situazione emergenziale, in cui venivano sospese le norme vigenti del diritto, in nome della sicurezza dello Stato. In questa condizione, qualsiasi scelta che riguardasse l’interesse di esso non poteva essere derivata da una norma già esistente, ma doveva essere fondata su una “decisione” assoluta, libera da ogni vincolo normativo, un provvedimento che spettava solo al sovrano. Sono sensibili, ma rivelative, le differenze con il contesto attuale. Prima di tutto la decisione che dispone nuove normative provvisorie, o decreti, non è fondata su “un nulla normativo”, ma quanto meno sulle leggi della morale e della salute pubblica. E non cancella le norme costituzionali fondamentali, quanto piuttosto sospende il loro sfondo, il neoliberismo economico, nella prospettiva di una sua quanto più vicina rifioritura. Tutto ciò avviene nel mantenimento e nella promozione delle altre due libertà fondamentali: la vita e la proprietà.

Volendo trarre le fila del discorso, potremmo dire che nella situazione che stiamo vivendo si rivela impraticabile, come voleva Platone, l’attuazione di uno “Stato ideale”. Piuttosto si rivela più confacente l’assunzione aristotelica di tenere conto della situazione empirica e contingente in cui il paese versa per elaborare l’idea dell’opportuna e “migliore”, ma con ciò stesso imperfetta, costituzione applicabile.

Altra e connessa conclusione è che la categoria schmittiana del nemico nella situazione in cui versiamo non è decisa arbitrariamente dal potere costituito, come avveniva nei totalitarismi novecenteschi, ma s’impone con la forza della necessità al riconoscimento intersoggettivo. Ragione per cui il consenso, la concordia platonica, non è frutto di un indottrinamento ideologico, ma di un accordo naturale sulla comune minaccia, arginabile e debellabile nell’orizzonte di una costituzione, non certo ottima, ma concretamente praticabile nell’ “eccezione” imprevedibile dalla norma.

 

Margherita Pastine

Sono laureata e specializzata in Filosofia e forme del sapere, classe di lauree magistrali in Scienze filosofiche, all’Università di Pisa. Da poco tempo faccio parte della Società Filosofica Italiana (S.F.I.), per la quale ho svolto attività seminariali di approfondimento, credendo fortemente nel valore della divulgazione filosofica per ogni età della vita. Intendo la filosofia della morale e della politica come articolazioni responsabili ed individuate della filosofia teoretica, loro inaggirabile fondamento.

NOTE:
1. Platone, La Repubblica, 432a – b.
2. Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, prima ed. 1922.

[Photo credit unsplash.com]

Dalla parte di chi prende una parte

Da qualche tempo a questa parte è diventato una specie di mantra: “Smetta di occuparsi di politica e si limiti a fare x”, dove “x” è volta volta scrittore, giornalista, magistrato, capitano navale, attore, storico, presentatore televisivo, calciatore e chi più ne ha più ne metta. Il punto è sempre lo stesso: la politica, a quanto pare, è appannaggio esclusivo dei suoi protagonisti, e chiunque non rientri nella specifica categoria professionale (ma anche in quel caso sono necessari dei distinguo) deve astenersi da qualsivoglia commento e ancor più critica (sono curiosamente ben tollerati invece i plausi).

Intellettuali e figure pubbliche, insomma, devono astenersi dall’influenzare le opinioni dell’elettorato usando la propria autorità per entrare in un ambito che non compete loro. Il problema della politica, però, è che non si tratta di un ambito in senso stretto, ma piuttosto di un macro-contenitore, in cui rientrano economia, scienza sociale, comunicazione, psicologia, e soprattutto etica. Vietare, più o meno ufficialmente, prese di posizione pubbliche nei confronti della politica da parte di personalità più o meno esperte, vuol dire di fatto proibire qualsiasi voce contraria che richiami a un bene e a un male, a un giusto e a uno sbagliato, che esulino dalla dimensione partitica e si ricolleghino invece a un ambito più umano e universale. Quando poi manovre, leggi e provvedimenti sono controversi e rischiano di marginalizzare o addirittura danneggiare parti della popolazione, l’imparzialità non solo è impossibile, ma diventa criminale: come diceva Elie Wiesel, «la neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, mai il torturato»1.

La principale falla logica, però, è un’altra: i personaggi pubblici richiamati alla mitologica neutralità sono invitati non tanto a non parlare di politica in senso assoluto, quanto piuttosto a non esprimere dissenso nei confronti di una determinata politica. Quello che si vuole evitare non è una sbandierata invasione di campo da figure professionali esterne, ma un dissenso che possa fregiarsi di un’autorevolezza e una competenza pari se non superiore a quella dei funzionari criticati. In questi casi, il silenzio non è affatto definibile “imparziale”, ma assume anzi in sé una forte presa di posizione. Già nel 1932 Gaetano Salvemini aveva capito che la tanto invocata neutralità, semplicemente, non esiste, e che l’unica forma di imparzialità possibile in chi si rivolge a un qualsivoglia pubblico è quel tanto di onestà intellettuale sufficiente a mettere subito in chiaro le proprie posizioni: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere»2.

Questo tipo di imparzialità, che sia sbandierata, richiesta o imposta, non è che una trappola: parlare di etica, di società, di relazionalità, non può essere accomunato a fare propaganda, proprio perché i temi in questione sono e devono essere trasversali a qualsiasi programma partitico. La coscienza critica, unita a un minimo senso di responsabilità, porta inevitabilmente a prendere posizione, che non vuol dire automaticamente sfociare nella faziosità, ma semplicemente rivelarsi capaci di pensiero autonomo e coscienza morale.

Tutto quello che si può pretendere da qualunque giornalista, persona di spettacolo, sportivo, intellettuale che voglia affacciarsi sulla scena pubblica, è la stessa promessa trovata al punto 184 delle Massime e riflessioni di Goethe: «Posso impegnarmi a essere sincero, ma non a essere imparziale».

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1. In REGAN Tom, Gabbie vuote, Ed. Sonda, 2005, p. 6.
2. G. Salvemini, Mussolini diplomatico, ed. Laterza, 1952, Prefazione

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La politica incontra il male per il bene: Machiavelli e il Divo di Sorrentino

“Lei ha sei mesi di vita”, mi disse l’ufficiale sanitario alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo; sono morti loro.

Inizia così Il Divo, film del regista Paolo Sorrentino su la vita di Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti non era solo un politico, il Divo così soprannominato, fu l’immortale uomo di Stato, tra i maggiori esponenti della Democrazia Cristiana nel lasso 1948-1993 e pilastro indiscusso della Prima Repubblica, conclusasi in merito allo scandalo Tangentopoli.
Un uomo che ci viene raccontato magistralmente dal regista napoletano Paolo Sorrentino, in quello che lui stesso definisce il proprio capolavoro cinematografico, facendosi beffe del premio Oscar La grande bellezza.
Una pellicola dirompente tra realtà e menzogna perché tutto si è scritto sul Gobbo, ma nulla si è veramente compreso. Tutto nascosto dalla sua criptica mimetica, dall’impassibilità nel volto e dell’impenetrabilità della prassi politica. Non è bastata neppure la nota pop voluta nel film, per rendercelo familiare e neanche la maschera di Toni Servillo come interprete. Ma nei dialoghi e nelle citazioni desideranti di immedesimare l’ironia cronica del Senatore, è possibile delineare le dinamiche che lo hanno reso tale nella storia e la formazione politica che lo ha introdotto nelle istituzioni repubblicane.

Il film è ambientato tra il 1991 e il 1993, quando Giulio ancora occupava la vita politica nel Paese. Diventato per la settima volta presidente del Consiglio è in corsa per la successione a Cossiga al Quirinale. Gli ultimi ruggiti pacati del democristiano prima degli scandali giudiziari che lo videro imputato per presunte collisioni con la mafia.
Scene arricchite dai palazzi di potere, dalle correnti di partito, dalle cene e dai festini nelle più celebri palazzine di Roma. Tutto contrapposto alla perenne solitudine nella quale riversava e alle frequenti emicranie che gli impedivano lunghi periodi di lavoro.
Due soli anni per poter delineare, quello che oggi viene definito il politico di professione.
Tralasciando le sue peculiarità fisiche e intellettuali, è doveroso indagarne la formazione politica in termini di opere nelle quali è possibile collocarlo.
Uno di questi è Il Principe1 scritto da Machiavelli nel 1513 trattato di dottrina politica. Fu dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico e duca di Urbino, allo scopo di educare il giovane esuberante e ambizioso alla vita politica, che richiedeva non solo abilità intellettuali ma astuzia, scaltrezza, virtù e resistenza. Tutto per il bene della Repubblica seppur i mezzi da utilizzare possano essere definiti poco benevoli e dall’esito incerto.
Andreotti quest’opera la conosceva bene come la maggior parte della classe dirigente non solo della Democrazia Cristiana ma di tutto il mondo politico. L’ambiente d’allora lo esigeva. Infatti nella Prima Repubblica veniva attuata una democrazia puramente rappresentativa, ancora poco soggetta alle trasformazioni odierne di sistema e ad un’opinione pubblica onnipresente.

La sezione diciottesima intitolata Quomodo fides a principibus sit servanda2, ovvero in che misura i principi debbano mantenere la parola data, è uno dei capitoli più controversi del Principe, in cui Machiavelli affronta la delicata questione della possibilità o meno per il sovrano di comportarsi con astuzia e venir meno agli impegni sottoscritti ufficialmente.
Viene descritto come il principe d’allora potesse governare servendosi della forza e come dovesse essere per metà uomo e per l’altro bestia.
Una bestialità divisa tra volpe (astuzia) e leone (violenza), entrambe necessarie all’azione di governo. L’astuzia si manifesta soprattutto nella capacità di venir meno agli impegni presi e nel non mantenere la parola data, quando ciò è necessario per conservare lo Stato. Tema che si lega strettamente a quanto affermato nel capitolo XV relativamente alla necessità per il principe di comportarsi in modo non etico perché lo Stato è un valore assoluto da preservare a ogni costo, baluardo contro il disordine e l’anarchia.
Inoltre il concetto della simulazione e della dissimulazione rappresentano i mezzi utili al sovrano per, non avendo tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui, parere di averle. Ciò non significa che il sovrano debba necessariamente compiere il male ma non deve rifuggire dal compiere azioni delittuose se necessitato e, al contempo, badare che non gli esca mai di bocca qualcosa che contraddica le migliori qualità che normalmente ci si attende dall’uomo di governo, per cui egli deve apparire pietoso, fedele, umano, leale, religioso. Un’immagine che identifica Andreotti con tutti i suoi segreti e ben è stata rappresentata nel monologo finale del film di Sorrentino.

“(…)Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute (…) Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. (…) Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta.”

La politica così rappresentata deve includere dentro di sé il male – nella simulazione e dissimulazione – per il bene. Il fine che giustifica i mezzi3 riutilizzando le parole di Machiavelli così che il Principe possa conservare lo Stato nei momenti di crisi.
L’epoca odierna della politica al cui centro risiede la trasparenza incondizionata, ostacola tutto ciò considerando il bene per il bene. C’è da chiedersi dove stia la verità e il buon ordine di governo. Comunque sia, il primo passo è prendere consapevolezza della realtà, agendo di conseguenza, senza dimenticare che la politica prima delle sue correnti è partecipazione.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti
2. Quomodo fides a principibus sit servanda, capitolo diciottesimo del Il Principe, N. Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti p.154
3. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti, cap. XVIII p.155

Immagine di copertina tratta da una scena del film.

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