Roald Dahl: Willy Wonka e la fabbrica del revisionismo

<p>Una pila dei libri di Roald Dahl</p>

La fabbrica di cioccolato, Il GGG, Gli Sporcelli, Le streghe, Matilde, James e la pesca gigante: sono solo alcune delle storie che hanno accompagnato da ottant’anni a questa parte la crescita di milioni di bambini in tutto il mondo. L’autore è uno, Roald Dahl, scrittore indubbiamente eccentrico, dalla fantasia esuberante quanto la sua personalità.

La Roald Dahl Story Company, detentrice dei diritti dei romanzi, delle raccolte di racconti e di poesie e in generale di tutto il materiale mai prodotto da Dahl, è stata recentemente venduta dagli eredi dello scrittore a Netflix, il colosso delle piattaforme streaming on-demand in vena di espansione trans-mediale, e i risultati non hanno tardato a farsi notare. Non è di molto tempo fa la notizia che le prossime ristampe dei classici di Dahl saranno modificati da Puffin Books “per venire incontro alla sensibilità delle nuove generazioni”, con interventi mirati su termini considerati oggi esclusivi, offensivi, politicamente scorretti, che vanno dalla rimozione di aggettivi come “ciccione” e di sostantivi come “padre” e “madre” (sostituiti dal più neutro “genitori”) alla riscrittura di interi passaggi e all’aggiunta di nuovo materiale che addomestichi commenti troppo salaci o descrizioni irrispettose.

La questione non è certo trascurabile, e per più motivi: si pone intanto uno scomodissimo precedente nell’intervento sul lavoro di un autore scomparso, che non può certo dire la sua e che tra l’altro, a detta dell’amica e collaboratrice Amelia Foster, “avrebbe trovato ripugnante tutto ciò che oggi è politicamente corretto”. Secondo le leggi vigenti sul diritto d’autore, poi, l’opera di un autore è considerata un’estensione della sua persona, e la sua integrità va (teoricamente) tutelata come tale.

L’episodio tocca il cuore della cosiddetta cancel culture e ne evidenzia i suoi aspetti più problematici. Per quanto brutale, l’intervento è ben difeso da chi approva il modificare libri, ma anche film e testi musicali, per adattarli a un più avanzato e raffinato (?) senso morale, limando gli spigoli degli anni di origine, aprendo all’inclusività parole e concetti all’epoca non sufficientemente “evoluti”.

Opporsi a un’operazione di questo tipo, però, non è necessariamente un’istanza da conservatorismo fine a se stesso, casomai il contrario: saper riconoscere il bello nel diverso, il valore in ciò che ci è lontano per epoca, per geografia o per sensibilità, è la base di qualsiasi dialogo interculturale e di qualsiasi coabitazione “inclusiva” e “rispettosa”. Ci emozioniamo ancora con i versi dell’Iliade, anche se non viviamo più in una società guerriera come quella che ha ispirato i valori cardine dell’opera. Ci appassioniamo ai romanzi di Jane Austen, anche se le regole sociali sono fortunatamente cambiate. Possiamo immergerci nella lettura di Moby Dick anche se gli inserti “scientifici” sono al più risibili con le conoscenze di oggi, e seguiamo le avventure di Robinson Crusoe nonostante il notevole retrogusto colonialista.

C’è un episodio esemplificativo nel Mahabharata, testo sacro induista, che vede l’eroe Arjuna da solo nella foresta. A un tratto gli appare il mostro Navagunjara, una chimera composta da parti di animali diversi: spaventato, Arjuna solleva l’arco per colpirlo, ma nota poi che, tra le varie parti che lo compongono, Navagunjara ha una mano umana. Basta questo dettaglio per creare un ponte tra i due, terreno comune su cui ritrovarsi: l’eroe non uccide il mostro, che si rivela come una manifestazione di Vishnu, che lo stava mettendo alla prova.

L’incapacità di vedere il valore nell’altro-da-sé, di apprezzare il bello anche in sensibilità che ci sono distanti, di trovare un punto di incontro al di là di ciò che distingue, è un preoccupante segno dei tempi, segno del trionfo del narcisismo delle piccole differenze che frammentano la società in tanti microcosmi non comunicanti (con l’intento dichiarato, invece, di fare spazio a tutti). Cancellare il passato – o, peggio ancora, riscriverlo per far finta che la propria “illuminata sensibilità” sia sempre esistita – non è solo un’idea stupida e arrogante, è anche e soprattutto un colpo di mano totalitario e miope che impoverisce l’esperienza umana, che da sempre si arricchisce con il confronto e la compenetrazione delle differenze.

Di questo passo, si finisce solo con l’annientare quella stessa diversità che su carta si vorrebbe difendere.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Nick Sewing’s via Unsplash]

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Chi ha festeggiato il primo maggio?

Eravamo tutti e tutte così presi dal 25 aprile, cercando di capire chi come e cosa l’avrebbero festeggiato, che ci siamo quasi persi un’altra data in calendario degnissima di essere dibattuta: il primo maggio.

Come l’avete trascorso? Molte persone avranno fatto una gita fuori porta, visitato dei monumenti, fatto grigliate o pranzi in compagnia. Un intero sistema di festa che ha funzionato grazie al lavoro di milioni di persone che questo privilegio non l’hanno avuto. Tutti gli uffici e i luoghi di produzione erano chiusi, ma che dire delle strutture ricettive? Oggi i giornali cartacei non usciranno perché ieri non hanno lavorato, ma vale lo stesso per tutto il mondo del giornalismo online? Il trasporto pubblico locale in tanti contesti si è fermato, ma l’hanno fatto anche le tratte aeree e le ferrovie? La posta non è stata consegnata, la spazzatura non è stata ritirata, ma chi ha permesso le gite fuori porta, il pranzo fuori casa, l’intrattenimento? Per non parlare dei pronto soccorso e delle guardie mediche. E stendiamo un velo pietoso sul popolo delle partite IVA, per le quali né lo Stato né Dio possono fermare una produttività imposta da un sistema malato. Sorvoliamo anche sulle casalinghe (e i pochissimi casalinghi), il cui duro impegno giornaliero non è nemmeno degno di un riconoscimento economico basic, e tanti altri lavoratori e lavoratrici che non vi è spazio di citare.

Certo, non è che il mondo si possa fermare per un giorno. Giusto? Insomma, se uno cade dalle scale ha il sacrosanto diritto di avere un ospedale che lo accolga e che lo curi. Ma siamo proprio sicuri che tutti i servizi ieri aperti erano proprio necessari? I giorni rossi sul calendario oggi sono pause in una corsa frenetica verso un poco chiaro traguardo: un riposo necessario ma che meriterebbe anche un briciolo di riflessione. Quanto ci siamo accapigliati i giorni prima del 25 aprile sulla presenza o meno dell’antifascismo nella Costituzione, e quanto abbiamo poi festeggiato la Liberazione quando il fantomatico giorno è arrivato? E il primo maggio, quanto abbiamo approfittato in nome del nostro relax e della nostra festa delle persone che non hanno potuto godersi lo stesso diritto?

Questione annosa e spinosa quella del delicato equilibrio tra lavoro (dunque produttività, performance) e diritti all’interno di un sistema capitalista. Sicuramente sono stati fatti enormi passi avanti rispetto alla fine dell’Ottocento, periodo a cui risale l’istituzione di questa festività che unisce molti Paesi democratici del mondo. Ma quali voragini esistono tra quanto la stessa nostra Costituzione prevede, i sogni dei costituenti e delle costituenti scritti nero su bianco nel 1947! Le questioni su cui una rivoluzione culturale nel mondo del lavoro non è solo auspicabile ma anche necessaria sono infinite – benessere lavorativo, parità salariale, opportunità per i cittadini svantaggiati, lavoro in nero e caporalato, equilibrio tempo vita-lavoro, e potremmo andare avanti a lungo – ma soffermiamoci su una delle tante: quella femminile.

L’articolo 37 della Costituzione recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. A che punto ci troviamo, a quasi 80 anni di distanza? I dati del 2022 ci mostrano un quadro italiano in cui il gender pay gap (la differenza di retribuzione lavorativa tra uomini e donne) è di circa il 20%1. In particolare il gap nella retribuzione oraria è del 5% ma sale fino al 18% in quella annua; sale anche quando si alza l’età della donna, il suo titolo di studio e il suo livello gerarchico, ed è anche più alto nei contratti a tempo indeterminato; senza contare che la percentuale di donne neet (cioè che non lavorano né studiano) è più elevata rispetto agli uomini (44,6% contro il 26,4%). A giustificazione di tutto questo, la letteratura scientifica offre innumerevoli studi sulle modalità con cui i bias cognitivi orientano il mondo del lavoro e delle assunzioni, confermati per esempio dalla piccola rivoluzione avvenuta nel mondo delle orchestre da quando negli anni Ottanta si sono cominciati a fare i provini “al buio”2.

Infine, la questione della genitorialità. In questo caso la società si sta sicuramente evolvendo verso un’equiparazione tra il ruolo di madre e di padre nella cura dei figli. Forse in questo caso ancora più della legge: dal 2022 il congedo parentale per gli uomini (retribuito al 100%) sale da 4 a 10 giorni, mentre per le donne resta di 5 mesi. Una novità che è una conquista, ma lo squilibrio salta ancora all’occhio e dimostra un diverso modo di pensare al lavoro in base al genere. Una prima riflessione per un’inversione di rotta è auspicabile, e magari si può partire proprio dal nostro ufficio o azienda o negozio, forse proprio dalla nostra famiglia. Magari proprio il primo maggio, ma anche il due, il tre e il quattro…

 
Giorgia Favero

 

NOTE:
1 – https://alleyoop.ilsole24ore.com/2022/09/19/cosa-sappiamo-e-cosa-non-sappiamo-sul-gender-pay-gap/#_ftn1 
2 – https://www.theguardian.com/women-in-leadership/2013/oct/14/blind-auditions-orchestras-gender-bias 

[Photo credit: unsplash.com]

Per un 25 aprile consapevole

Nell’agosto del 1944 Irma Bandiera venne torturata e accecata poiché non voleva rivelare dove si trovavano i suoi compagni. Venne poi uccisa e gettata in strada, perché si sapesse qual era la fine destinata ai partigiani.

Il 25 Aprile è senz’altro il simbolo dell’antifascismo, della resistenza contro la dittatura. Resistenza, ovvero il rifiuto della dittatura e di tutto ciò che essa impone: negazione della libertà, della dignità, umiliazione, eliminazione fisica di coloro che escono dai rigidi confini dell’ideologia su cui si fonda.
A ben pensarci, la lotta per la libertà non può non configurarsi come una resistenza: la libertà per sua natura non può essere imposta, ed è questo il tratto che la distingue da un regime. La libertà si ottiene e si mantiene impedendo che venga soppressa con la forza. La libertà, cioè, si guadagna resistendo. In questo senso, l’orrendo episodio di cui sopra è uno dei più alti esempi di difesa della libertà.
Ma il 25 Aprile va al di là di questo: è una ricorrenza che ci ricorda più in generale che ci sono cose che valgono più della vita. Per Irma Bandiera ve n’era almeno un’altra: l’amicizia, che è la responsabilità che abbiamo nei confronti delle persone a cui vogliamo bene.

Credo che oggi sia un’occasione per fermarci un momento e riflettere proprio su questo: la responsabilità. Vi è una tendenza sempre più diffusa a pensare, più o meno consapevolmente, che libertà significhi fare quello che si vuole, e qualunque cosa risulti in qualche modo d’intralcio a questa indeterminata ed ideale espressione di sé viene vista come una limitazione della stessa, e di conseguenza percepita da noi con insofferenza.
Stare al mondo significa inevitabilmente relazionarsi a situazioni, avvenimenti, persone, poiché dal momento in cui facciamo il nostro ingresso in questa scena siamo immersi in un intrico di relazioni, e non possiamo sfuggirne, neanche isolandoci in una fredda grotta di montagna. L’idea della libertà come assenza assoluta di vincoli è una vuota astrazione che non tiene conto che ognuno di noi vive in un mondo, e che le nostre azioni hanno delle conseguenze sul contesto nel quale ci troviamo.
In questo senso, la democrazia può, se vogliamo, essere vista come un’immagine della nostra condizione nel mondo. Democrazia significa che ognuno è responsabile dei propri pensieri e delle proprie azioni, perché è tenuto ad esprimersi e a prendere una posizione all’interno della società, a prendersi cura del contesto in cui vive e delle persone con cui vive. È fondamentale cercare di sentire questa responsabilità, che non è un’invenzione, bensì la condizione reale del nostro stare al mondo.

Irma Bandiera la sentiva: sapeva che anche in quell’orribile situazione nella quale si trovava, in mezzo a quei soprusi disumani e agghiaccianti – soprattutto in mezzo a quei soprusi – era importante mantenere ciò che rende una vita degna di essere vissuta: la responsabilità nei confronti di ciò che è giusto. E la vera libertà non può essere dissociata dal sentimento e dalla consapevolezza del nostro ruolo nel mondo, un ruolo che ognuno di noi ha dal momento in cui è al mondo, perché basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto.

Noi siamo più fortunati: non ci troviamo davanti alla scelta di morire per quello in cui crediamo o piegarci alla violenza e all’ingiustizia. Sicuramente però è importante per noi prenderci un momento per riflettere su questi temi, e soprattutto sul fatto che, se abbiamo questa fortuna, è perché molti giovani ragazzi non l’hanno avuta, e hanno deciso di dare la propria vita per qualcosa di più prezioso di essa: la libertà, e questo in virtù della responsabilità che sentivano nei confronti dei loro cari, dei posteri e del mondo.
Questo giorno, la democrazia, l’antifascismo, la libertà, la responsabilità, tutto ciò è legato assieme da un elemento, ossia la consapevolezza del nostro ruolo in quanto uomini: ecco cosa possiamo trarre da questa ricorrenza. Prendiamoci un momento per pensare a tutto ciò. Come scrive Michele Serra, basta un minuto per sentire che oggi è il 25 Aprile1.

 

Pietro Bogo

 

NOTE:
1- Michele Serra, L’amaca del 25 aprile 2017

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Salvare il pianeta scrivendo storie migliori

Troppo spesso il tema cambiamento climatico è abbandonato agli scienziati, che ci dicono cosa sta succedendo, a che velocità e con quali probabili (catastrofici) risultati futuri. Manca ancora un solido coro di voci che racconti tutto questo in modo diverso, un modo che possa far breccia nella mente e nello spirito delle persone. Come scrisse Magnason ne Il tempo e l’acqua (Iperborea 2019) riportando un dialogo con uno scienziato di nome Lucht, «pubblichiamo grafici ed esiti di simulazioni computerizzate che parlano la lingua delle nostre discipline: la gente li guarda, annuisce e forse in un certo senso li assimila, ma non li capisce nel vero senso della parola […] La gente i numeri non li capisce, ma le storie sì. Tu che sai raccontare storie, devi raccontare questa»1.

Dello stesso avviso sembra essere la scrittrice americana Rebecca Solnit, che in un recente discorso all’università di Princeton e poi riportato sul “Guardian” propone una prospettiva nuova: «dobbiamo trovare storie di un futuro vivibile, storie di forza popolare, storie che motivino le persone a fare quel che serve per creare il mondo di cui abbiamo bisogno»2. L’idea è che di storie ce ne siano parecchie ma che non vengano raccontate, o almeno non con la frequenza e l’intensità di cui avremmo bisogno. La rivoluzione energetica è in crescita, il quadro generale dal lato scientifico-tecnologico (per esempio legato alle rinnovabili) è «incoraggiante e persino sorprendente» in termini di fattibilità, produzione e costo, eppure «le persone trovano fin troppo credibili le narrazioni deprimenti, che siano fondate su fatti o no», rischiando così di giungere alla profezia (catastrofica) che si autoavvera. Nel 2022 infatti “Nature” ha condotto un sondaggio dal quale emerge che la maggior parte degli statunitensi crede che solo una stretta parte di cittadini (37-43%) sia favorevole all’azione contro la crisi climatica, mentre in realtà lo è una sezione ben più ampia di popolazione (66-80%).

Questo avviene anche perché ci manca l’immaginazione. Anche se si tratta di un processo lungo, lento e faticoso, «è conquistando l’immaginazione popolare che si cambiano le regole del gioco e i suoi esiti possibili». Non siamo capaci di immaginare delle soluzioni diverse rispetto al modo in cui viviamo adesso, non siamo in grado di dipingerci un finale che non sia catastrofico – grazie anche allo zampino della cultura di massa, dal cinema alla narrativa – e quindi non ci aspettiamo altro che l’estinzione. Paradossalmente, invece, come sottolinea bene Solnit, può venirci incontro proprio la storia. La storia ci insegna quali enormi cambiamenti abbiamo fatto anche soltanto negli ultimi decenni: in termini di stile di vita ma anche di diritti civili, e anche in termini ecologici. L’autrice per esempio ricorda che fino agli anni Sessanta la produzione energetica del Regno Unito si basava quasi esclusivamente sul carbone, mentre ad oggi ne ottiene più della metà da fonti a bassa emissione di CO2.

Dobbiamo anche rivedere la storia della responsabilità individuale. Un tema stupendo che dovremmo comunque rispolverare, magari leggendo Il principio responsabilità di Hans Jonas del 1979. Però va presa con opportuni distinguo. Per esempio, diversificando la responsabilità individuale di un italiano (o di un americano) rispetto a un bengalese. Ma anche ricordando che come individui non siamo solo consumatori – quindi non basta cambiare alimentazione, lasciare a casa la macchina e abbassare di un grado il riscaldamento – ma siamo anche molto di più: cittadini, ovvero esseri che si aggregano e che insieme possono fare anche di più. L’impronta individuale è un’ansia ecologica che per convenienza hanno creato le grandi aziende, per esempio nel settore dei combustibili fossili, i maestri assoluti di greenwashing. «I soccorritori di cui abbiamo bisogno agiscono soprattutto in modo collettivo: movimenti, alleanze, campagne, società civile […] Ci mancano storie in cui sono le azioni collettive o la paziente determinazione degli attivisti a cambiare il mondo».

Un coro è più facile da sentire di una singola voce e può produrre un’eco importante. Il tema climatico viene raccontato per grandi eventi e non per piccoli passi, eppure iniziative di singole città, piccoli stati, singole aziende, nuovi cantieri, progettazioni su scale interregionali possono segnare un precedente e spingere all’emulazione a cascata. Esempi significativi e storie di speranza che meritano di essere raccontate a gran voce. Storie che non nascondono l’imbiancamento dei coralli, lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità, l’estinzione di sempre più animali e così via, però ci contestualizzano all’interno di una battaglia che – se siamo disposti a combattere con rinnovata energia – forse possiamo ancora vincere.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1-A. S. Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea, Milano 2019, pp. 69-70.
2-R. Solnit, If you win the popular imagination, you change the game: why we need new stories on climate, in “The Guardian”, https://www.theguardian.com/news/2023/jan/12/rebecca-solnit-climate-crisis-popular-imagination-why-we-need-new-stories. Il testo è stato riportato su “Internazionale”, n. 1500, 17-23 febbraio 2023, pp. 88-94.

[Photo credit unsplash.com]

L’impossibile scelta tra pace e giustizia

Non è mai stato facile essere pacifisti, né è mai stato immediato capire cosa fosse giusto fare, dire, pensare nel momento in cui grandi avvenimenti storici arrivano a sconvolgere una quotidianità che tenta ingenuamente di considerare la propria relativa tranquillità come eterna.

Lo sapeva bene Lev Tolstoj, che fu addirittura scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa in merito alle sue posizioni fieramente pacifiste. Non solo nei suoi romanzi, ma anche e soprattutto in altri scritti meno conosciuti, in Contro la guerra russo-giapponese, nella lettera allo zar del 1881 e in quelle al filosofo Hugo Engelhardt (1882-1883), nei saggi della maturità La mia fede e Il regno di Dio è in voi, Tolstoj insiste fermamente sulla necessità di non agire mai attraverso la violenza, attraverso le armi, attraverso la forza, fosse anche per difendersi. Il mondo nuovo, dice, potrà nascere solo da un rifiuto radicale di ogni forma di conflitto, che avrà modo di “contagiare” l’umanità come fosse un’epidemia.

Di idee radicalmente opposte era il filosofo, contemporaneo e compatriota eppure estremamente distante, Ivan Il’in. Monarchico e hegeliano, Il’in fu un fervente sostenitore dello zar, e fu costretto alla fuga quando Lenin e l’Armata Rossa presero il potere durante la Rivoluzione di Ottobre. In numerosi articoli e interventi – e soprattutto in una delle sue opere più famose, Resistenza al male con la forza (1952)  Il’in deride i fiacchi e inconcludenti appelli per la democrazia del mondo europeo verso l’Unione Sovietica e insiste che, al momento in cui il male si presenta, è dovere morale reagire a esso con la forza, col conflitto armato, con la violenza. Cercare la pace, in questo caso, sarebbe un atto di complicità col male che andrebbe invece sradicato.

Non è un caso che i due autori presi in causa siano entrambi russi. Impossibile non tentare in qualche modo di riportarne le riflessioni a un’attualità che, ormai da più di un anno, bussa prepotentemente alle nostre porte, condizionando la nostra (ora lo sappiamo) fragile quotidianità di lavoro, famiglia, svago, in modi che non avremmo ritenuto possibili fino a poco fa.

Ma chi ha ragione? Tolstoj o Il’in? Cosa fare, dire o pensare per ritenersi “dalla parte giusta”? In un dibattito pubblico che si arrocca sempre più e sempre peggio in tifoserie da stadio, in cui ogni barlume di pensiero critico e sistema complesso è scartato come inutile sovrappiù, dove schierarsi per essere a posto con la propria coscienza? Questa guerra nel cuore dell’Europa somiglia da vicino ai test che gli studenti universitari discutono nelle ore di Filosofia Morale. Il più famoso è senza dubbio il “dilemma del carro ferroviario” di Philippa Ruth Foot, che invita l’ascoltatore a scegliere se lasciare che un treno lanciato a tutta velocità travolga cinque persone sui binari, o deviarne la corsa scegliendo di ucciderne una sul binario a fianco. Non agire e lasciare che cinque persone muoiano, o intervenire attivamente ed essere responsabili materiali e morali della morte di un innocente?

La questione è la stessa in politica estera, lo stesso aut aut che lascia poche alternative. O continuiamo a inviare armamenti sempre più sofisticati, contribuendo attivamente al prolungamento di una guerra che sta mietendo migliaia di vittime, o ci facciamo da parte, rifiutandoci di intervenire in nome della pace, lasciando così che la fiera popolazione ucraina sia travolta e fagocitata dal regime russo.
Non c’è un’alternativa che sia eticamente soddisfacente, non c’è una ricetta o una “mossa” che garantisca la propria appartenenza alle schiere dei giusti in contrapposizione a una massa di “cattivi” da poter additare a cuor leggero sui social. C’è il destino di due paesi in gioco, dell’intero pianeta se l’escalation continua, milioni e milioni di vite uniche e non rimpiazzabili sulle quali non è possibile fare secondi tentativi.

In una simile situazione, è la coscienza di ognuno che decide quale sia il “bene superiore” da perseguire, che sia il pacifismo di Tolstoj o l’interventismo di Il’in. Basta ricordarsi che il Bene, quello vero, è già da un pezzo fuori dalla rosa di scelta.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christian Wiediger via Unsplash]

 

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Binario 21: la Memoria come vaccino contro l’indifferenza

Oggi, 27 gennaio, si celebra il Giorno della memoria dedicato alle vittime dell’Olocausto. Questa ricorrenza ci chiede di non dimenticare la violenza inutile della Shoah e ci ricorda di mantenere attiva la nostra memoria. Ricordare non è, infatti, così semplice come qualcuno potrebbe pensare, soprattutto in una società come la nostra, focalizzata sul presente. Proprio per questo, oggi è fondamentale fermarsi e soffermarsi sul passato, anche se doloroso e difficile da affrontare.

Come anticipato, ricordare non è semplice. Perché? Perché non si tratta solo di pensare a ciò che è successo ma è necessario anche agire. L’agire concreto può avvenire in diverse forme: leggere, chiedere, conoscere, parlare, approfondire e visitare. Concentrandoci sull’ultima, tra i luoghi da visitare per meglio comprendere la storia della Shoah vi è il Memoriale della Shoah a Milano, sviluppatosi intorno a Binario 21, luogo da cui partirono le deportazioni naziste verso i campi di concentramento e sterminio. Binario 21 era il luogo, sotto la stazione di Milano Centrale, dove arrivavano uomini, donne, bambini e anziani che venivano spinti con violenza e infilati nei vagoni. Caricati come merci, partivano su questi vagoni per una destinazione ignota. Da qui, è iniziato anche il viaggio agghiacciante di Liliana Segre. Le parole della senatrice – che si batte perché non si commettano più atrocità simili e non si dimentichi ciò che è accaduto, – spiegano la relazione tra memoria e indifferenza:

«Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare».

Grazie a questa frase comprendiamo perché, accedendo al memoriale, ci si trova di fronte a un lungo muro in cui è incisa la scritta Indifferenza, scelta proprio da Liliana Segre.

«Ho visto e ho provato quanto l’indifferenza sia molto più grave della violenza stessa. La violenza non ci trova di solito impreparati. Dalla violenza cerchiamo di difenderci, magari nascondendoci, preparandoci a combatterla. Ma combattere l’indifferenza è impossibile, è come una nuvola grigia che incombe e non sai dov’è il tuo nemico. In fondo non è un tuo nemico, non fa nulla. Ma è terribile non fare nulla, voltare la faccia dall’altra parte».

Le sue parole ci ricordano che chi è indifferente non è innocente, ma complice della violenza e, dunque, colpevole. Così come l’indifferenza ha portato allo sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale, oggi l’indifferenza contribuisce all’odio e alla violenza che quotidianamente colpisce chi è debole, diverso o considerato estraneo rispetto al concetto di “normalità” che, seppure non dovrebbe esistere, qualcuno ancora oggi sostiene. Il male ci coinvolge, sia direttamente che non, e noi non possiamo e non dobbiamo fare finta che non esista: ciascuno di noi deve impegnarsi a contrastare la violenza, fisica o verbale, che persiste nella nostra società.

Foto verticale

Proprio questo è l’intento del progetto artistico Binario 21, ideato dal coreografo Matteo Mascolo e dalla ricercatrice e scrittrice Bianca Pasquinelli: condannare l’indifferenza e incoraggiare la memoria. Si tratta di un’opera coreografica di danza contemporanea nata da sei giorni di introspezione in cui Matteo, Bianca e sei danzatrici (la sottoscritta, Chiara Riva, Costanza Costantini, Giada Biglieri, Giulia Zandarin e Letizia Ferrario) hanno investigato i temi dell’indifferenza e della memoria. Attraverso il movimento dei loro corpi, le danzatrici hanno voluto dare forma a queste parole del coreografo Matteo: «Ricordare ci permette di combattere l’indifferenza e tentare di non commettere più non solo i gesti atroci che hanno segnato la storia, ma di prevenire anche i gesti di violenza quasi invisibile che possiamo trovare nella quotidianità».

 

Oggi dobbiamo ricordare il passato per capire che la violenza e l’indifferenza sono mali che colpiscono chiunque. Il seme della violenza è, infatti, sempre presente tra noi e basta poco perché dia vita ad atti inaccettabili contro gruppi, ristretti o meno, di uomini. Noi non possiamo e non dobbiamo in alcun modo dare a questo seme terreno fertile in cui vivere. Impegniamoci piuttosto a coltivare e praticare gentilezza, bontà ed empatia, curandoci della nostra coscienza e, soprattutto, della vita altrui.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit dell’autrice]

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Il valore come mezzo oltre che misura dello scambio

Gli eclatanti, problematici sviluppi degli ultimi anni, verificatisi in ambito economico, sociale, ambientale e politico, ci inducono ormai a percepire la condizione di crisi come elemento strutturale del nostro vivere individuale e collettivo.

Se, alla luce di emergenze come i cambiamenti climatici, alcuni si spingono a richiamare la necessità di mutare i nostri paradigmi economici (è il caso del movimento Fridays For Future), ben più consolidato è il riferimento alla “sostenibilità”, intesa come principio guida che consente di non superare i limiti posti dal rispetto dell’ambiente e dall’esigenza di coesione sociale. Tuttavia, rischia di rivelarsi illusoria l’idea di poter mantenere in equilibrio un sistema di cui si ignorano o danno per scontati alcuni presupposti, fra cui il predominio dell’economia sulla politica, o la non praticabilità di soluzioni terze rispetto alle tecnocrazie e ai populismi.

In un contesto in cui si forniscono incentivi monetari a compiere scelte come inquinare di meno – o si sanzionano comportamenti di segno opposto – è illuminante rileggere le riflessioni di Georg Simmel (1858-1918), relative al modo in cui il denaro strumentalizza tutti i fini e i valori, divenendo esso stesso il solo tangibile punto di riferimento delle nostre relazioni sociali. E, per riprendere una distinzione kantiana, sarebbe almeno onesto chiarire che la nostra civiltà vive esclusivamente di imperativi ipotetici, condizionati dagli scopi delle proprie azioni, emarginando gli imperativi categorici capaci di esprimere la propria autonomia morale.

In nome dell’anarchica, consistente nello scegliere i mezzi più conformi a mutevoli e soggettivi fini, non si concepisce neppure la possibilità di una individualità che, orientandosi a principi di fondo, a narrative trasversali ai ruoli sociali e alle biografie, si possa elevare al di sopra di interessi contingenti. Un’ottica dell’autonomia favorirebbe d’altra parte la definizione di una volontà generale (per dirla con Rousseau), o almeno di una concezione non strumentale di giustizia, quale quella suggerita da John Rawls. Rousseau, infatti, evidenziò ne Il contratto Sociale (1762) come la volontà generale è orientata al bene comune, mentre la volontà di tutti non è che una somma di volontà particolari. Rawls ha proposto nello scorso secolo che i principi di giustizia vengano scelti dietro un velo di ignoranza, ovvero non basandosi sugli specifici ruoli che si rivestiranno nella società. Anche tale ottica rimanda, peraltro richiamandosi all’ideale kantiano, al trascendimento delle convenienze contingenti.

Il mercato e le transazioni economiche possono ancora essere dotati di una dimensione etica, finalizzata a una nozione di bene comune. La mercificazione dominante non deriva principalmente dal libero scambio tra attori consenzienti, ma dall’assenza di mezzi di scambio connotati in senso valoriale, con la conseguente impossibilità di interpretare la transazione economica come un atto che vada oltre la soddisfazione di esigenze private e l’istante del pagamento, della cessione di denaro.

Si potrebbe immaginare la definizione per legge di indicatori volti a connotare determinate azioni come rilevanti in base a principi come l’ambientalismo (ad esempio una certa riduzione delle emissioni inquinanti da parte delle imprese) e la giustizia sociale (ad esempio la riduzione della dispersione salariale nelle imprese e della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, nell’ambito delle regioni). Una piattaforma potrebbe consentire a individui, imprese e comunità locali di scambiare documenti, ciascuno dei quali, riferito a un determinato valore morale, organizzativo o culturale, elencherebbe i benefici, ad esempio reputazionali, sperimentati in passato adottando una o più iniziative in linea con i detti indicatori (cfr. M. Senatore, Scambiare autonomia, 2013).

Tali documenti potrebbero essere ceduti in cambio di beni e servizi, e fungerebbero pertanto da mezzo di pagamento, ma non sarebbero scambiabili con denaro. D’altra parte, essi avrebbero un controvalore monetario, precisamente per poter essere scambiati con merci. Tale controvalore, o prezzo, sarebbe funzione sia del numero di esperienze contenute in ciascun documento, sia della domanda e offerta di tutte le esperienze sul mercato, collegate al valore cui il documento si riferisce. Il livello iniziale del prezzo delle esperienze sarebbe commisurato al costo medio da sostenere per conformarsi agli indicatori rilevanti. Prezzare i documenti fornirebbe un incentivo a partecipare agli scambi: la possibilità di cedere ognuno di essi a un controvalore monetario superiore a quello di acquisto, come risultato da un lato dell’aggiunta di nuove esperienze, dall’altro dello scegliere un valore destinato a divenire più rilevante per i partecipanti al mercato.

Determinare un “valore dei valori”, senza la mediazione del denaro, consentirebbe di interpretare gli scambi economici non come un momento necessario esclusivamente per confermare il proprio ruolo sociale, nel nome di un’efficienza puramente quantitativa, ma anche come un’occasione per modificare tale ruolo e, nel far ciò, contribuire a una deliberazione pubblica sul bene comune.

 

Marco Senatore

Marco Senatore (Genova, 1975) è un dipendente pubblico impegnato nel contesto della governance economica dell’Unione europea. Dopo la laurea in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma, ha approfondito la propria formazione negli ambiti dei mercati finanziari e del commercio internazionale. Ha inoltre avviato un progetto individuale di indagine orientato al dialogo tra economia ed etica. Esprime le proprie esigenze creative tramite la poesia, la narrativa, la fotografia, la musica, e ha da alcuni anni intrapreso una più profonda ricerca spirituale.

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La forza gentile delle donne

Quel giorno, erano le 11.30, stavo tornando a casa in macchina. Ascoltavo un po’ di musica alla radio, quando la vettura che mi precedeva si ferma di colpo. Mi accorgo di movimenti concitati nell’abitacolo. Fermo anch’io la mia corsa. Affianco l’auto. Vedo l’uomo sferrare un pugno alla donna che sedeva dietro, accanto a suo figlio. Un’altra auto sopraggiunge. Faccio segno all’uomo di fermarsi subito. Mi manda a quel paese. Scendo dalla macchina e gli vado contro. La donna, che era alla guida di quell’altra auto, mi affianca. Esce un tesserino dalla tasca. Lui cambia espressione. La donna chiede alla signora cosa stesse accadendo. Abbiamo visto tutto, la possiamo aiutare. Lei – ricordo ancora quello sguardo – mette la mano sulla spalla dell’uomo. “Nulla. Non sta accadendo nulla. È mio marito. Andiamo a casa”. L’uomo si allontana, impaurito (gigante di argilla). La donna ci ringrazia: “Grazie, ma ora andate via”.

 

Mi ricordo ancora il silenzioso urlo di dolore di quella donna, soffocato nella vergogna. La dignità offesa. E poi il figlioletto, terrorizzato, muto testimone di tutto.

La violenza di genere è un fenomeno noto in ogni tempo. Antigone e Ipazia ci hanno raccontato le loro storie. Ma negli anni, purtroppo, poco è cambiato. Non sono mancate, certo, le motivazioni morali contro la violenza e in particolare contro la violenza su donne e bambini. Sono mancati invece quei meccanismi, quelle leve giuste per attivare nuovi processi culturali, istituzionali, politici, legislativi. Ha ragione Luisa Muraro quando, provocatoriamente, scrive: «la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle» (L. Muraro, Dio è violent, 2012).

Quella tanto cara ragione moderna, dell’uomo adulto, universale ed emancipata, si è rivelata una gabbia di ferro, funzionale al controllo generalizzato. Quel pensiero non ha solo voltato le spalle alle donne, ha aggiornato i modelli di subordinazione, di sottomissione. Una razionalità tanto lontana dal privilegiare l’intersoggettività, il rapporto con l’altro, la concretezza, l’attenzione al tempo presente, il pensiero circolare. Non ne faccio una questione ideologica o di appartenenza. È un fenomeno diffuso in tutte le società del mondo.

Alcuni anni fa, l’Orchestraccia rivisitò Lella (di Edoardo De Angelis), un classico della tradizione musicale romanesca, nella quale viene raccontata la storia di un femminicidio. Nel video dell’Orchestraccia, però, la storia cambia. Ci sono donne ferite, che portano i segni delle offese, ma che si rialzano e che cancellano da sole le tracce delle percosse, i lividi e le cicatrici. Quelle che vengono rappresentate sono donne che non cedono e non hanno paura di uomini violenti. Donne forti, ma di una forza differente; non quella, per intenderci, alla quale prelude la cosiddetta “legge del più forte” ma una forza immortale, vigente, effettiva e gentile, tutta rivolta alla pace, direbbe Maria Zambrano. Questa forza cambia la storia strappando quel “velo di Maya” che nasconde la realtà delle cose, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione delle donne iraniane che si tagliano i capelli e si tolgono il velo. Sono gesti che allargano lo spettro semantico e simbolico di tutto quello che ci circonda.

La violenza non è solo quella del sangue e del corpo. È violenza anche la sottrazione di beni, materiali e non. C’è la violenza psicologica e dei sentimenti. L’ingiustizia, l’emarginazione, l’isolamento, il pregiudizio: sono espressioni di una violenza nelle relazioni sociali, spesso accompagnata da una violenza nell’interazione comunicativa. Nessuno può dirsi estraneo, cognitivamente, a tutto ciò. Allo stesso tempo mi chiedo quanto sia motivata la nostra volontà e il nostro desiderio di uscire da questi cortocircuiti del pensare.
Me lo chiedo perché non si può cambiare la società con la violenza, anche se in fondo è quello che abbiamo sempre fatto o tentato di fare. L’azione violenta è la distruzione di ogni possibilità; è pura disperazione. Così come la legge del più forte è la negazione di ogni giustizia, di ogni bene. Io penso, invece, ad un’azione differente. Un agire non femminista, ma femminile, che liberi le donne dalla sofferenza di relazioni malate.

Una rivoluzione che è un “agire creativo”, ispirata al bene e alla giustizia, orientata da un pensiero dell’alterità e della differenza che, in una nuova alleanza donna-uomo, affermi ogni giusta pretesa e abbassi l’arroganza dei potenti, preluda a forme migliori dello stare insieme e dia parole nuove per nuovi pensieri. Mi riferisco a un’azione “disobbediente”, non alle leggi, ma al pensiero conformista della maggioranza e all’indifferenza, e che aiuti tutti ad essere persone migliori.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Katherine Hanlon via Unsplash]

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L’articolo della discordia: “il” presidente non è la stessa cosa

Non so ancora decidermi su cosa sia più fastidioso: sapere che la nuova – e prima – Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana pretenda di essere chiamata “il” Presidente, o vedere paginate su paginate di giornali pieni di “Giorgia di qua, Giorgia di là”, “Giorgia fa questo, Giorgia fa quello”. Forse la cosa più fastidiosa di tutte è che non ci si renda conto che sono due facce della stessa medaglia: la mancanza di riconoscimento del valore di un individuo femminile.

Perché la nostra nuova Prima Ministra ci casca di continuo. Nel suo primo discorso alla Camera ringrazia Tina, Nilde, Rita e compagnia per averle aperto la strada verso lo sfondamento del “soffitto di cristallo”. Peccato che non stia parlando delle amiche con cui gioca a golf ma di individui straordinari, coraggiosi, intelligenti che hanno fatto la storia di questo Paese e che se solo fossero stati uomini sarebbero stati chiamati dignitosamente per cognome. “Lo ha fatto per un sentimento di sorellanza”, dice qualcuno con spirito conciliante. Peccato che a nessuno sia mai venuto in mente di parlare di Garibaldi, Fermi e Pirandello chiamandoli Giuseppe, Enrico e Luigi.

Questa breve divagazione vuole arrivare a un punto: se la nostra Prima Ministra parla dei pilastri del femminismo italiano citandoli per nome di battesimo, c’è da stupirsi se i giornali fanno lo stesso con lei? E pensa davvero che facendosi chiamare “il” Presidente – ignorando per altro una basilare regola grammaticale che finora non ha mai infastidito (per esempio) nessuna insegnante e nessuna docente – i giornali, i colleghi, il mondo intero la tratteranno con maggiore rispetto? Eppure, è la prima Presidente del Consiglio italiana, la prima leader donna del nostro Stato da quando esiste. Un peso che – stando alle sue parole – porta sulle spalle come un fardello, è un onere – e un onore no? – per lei aver conquistato una sedia che è sempre stata prerogativa maschile. Peccato che non basti essere donne per essere femministe e già dalle primissime mosse e dichiarazioni dei membri del suo governo e dei nuovi rappresentanti di Camera e Senato sono emerse le solite trite e ritrite posizioni cieche e sorde davanti a una società che – più che cambiare – finalmente esce allo scoperto, trova fiato in gola e voglia di lottare per ciò che sente di essere, per ciò che desidera: diritti, riconoscimento, uguaglianza.

Tutto questo passa anche per la lingua, splendida cartina tornasole del sentimento sociale. Le regole linguistiche esistono eccome ma vengono sistematicamente attaccate o aggirate, motivo per cui il congiuntivo è ormai un animale in via d’estinzione e i termini inglesi proliferano come funghi in un sottobosco. Chi scrive non è una simpatizzante di parole come “call” o “spoilerare”, eppure sono entrate nel nostro vocabolario prima ancora del loro riconoscimento ufficiale nei dizionari scritti1, per cui non c’è motivo di dimenarsi: sono una realtà e non è possibile nasconderli sotto il tappeto. Così come le ministre, le sindache, le chirurghe, le mediche, le architette, le avvocate: esistono, e sempre di più, quindi perché nasconderle sotto il mantello di un “il” e di una “o”? Parole che tra l’altro, diversamente da “spoilerare”, non sono neologismi ma semplicemente l’applicazione della regola grammaticale a un sostantivo: la novità sta appunto nel fatto che prima non c’erano ministre e adesso sì. Se ci sono, però, vanno anche nominate. Come spiega la sociolinguista Vera Gheno, nominare qualcosa significa riconoscerne l’esistenza, in modo semplice e immediato, e darne visibilità2. Se dico “il Presidente Meloni” e chi mi ascolta è vissuto fino a un minuto fa in una grotta sperduta, penserà certamente che sto parlando di un uomo; se invece dico “la Presidente Meloni” saprà fin da subito che sto parlando di una donna. E attenzione: ciò non è per sottolineare che è una donna: la questione è riportare un dato reale, ovvero che Meloni non è un uomo. Usare le professioni al femminile significa riempire anche il nostro immaginario collettivo di donne in determinate cariche e mansioni, perché nella realtà sta accadendo proprio questo. Perché creare ambiguità? Vogliamo nascondere sotto il tappeto un fatto solo perché il termine che lo descrive ci sembra cacofonico? Se davvero tutto il problema sta nella cacofonia gli (autoeletti) arbitri elegantiae non potranno che farne l’abitudine, come per centinaia di altre parole prima di queste; perché se le cose continuano ad andare in questa direzione – e c’è da augurarselo –dovranno abituarsi al fatto di avere sempre più ministre e (le) presidenti da nominare e citare, quindi se il fatto reale non dà fastidio, difficilmente alla lunga lo darà la parola.

Perché le parole, tutte, a guardarle da vicino, sono mondi meravigliosi. Chiunque abbia studiato il greco antico – lingua estremamente duttile e creativa – probabilmente ricorderà quel verbo che fa sghignazzare da secoli gli studenti ginnasiali, il famoso “rafanidòo” = “infilare un ravanello nell’ano” inventato da Aristofane in una commedia e bene o male mai più usato. Ora, è improbabile che l’italiano possa regalare perle linguistiche altrettanto elevate, ma non pensiamo che la nostra lingua sia una bella statua di marmo: essa cambia perché cambia chi la parla. Forse, piuttosto, se si teme il cambiamento della lingua si teme il cambiamento della nostra società. Che però fortunatamente in certi casi – come per sindache e (le) ingegnere – è un cambiamento da accogliere a braccia aperte.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 Per chi non lo sapesse, «oggi una parola entra nel vocabolario se arriva ad avere un certo ‘peso’ nell’uso. Il termine deve rispondere a tre criteri oggettivi: essere usata da un numero sufficientemente alto di persone, per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, in contesti differenziati» in V. Gheno, Femminili singolari, Effequ, Firenze 2021, p. 28
2 Cfr. ivi p. 15, p. 33.

 

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In lapsus veritas

La scuola freudiana, e la psicanalisi in generale, con i lapsus va a nozze. Un bambino che chiama la maestra “Mamma”, suscitando le risate dei ben poco compassionevoli compagni di classe, tradisce un’identificazione delle due figure femminili autorevoli della sua vita. Un uomo che sbaglia il nome della compagna con quello di un’amica o di una ex avrà modo, se sopravvive all’errore, di pensare a quali siano effettivamente i suoi sentimenti nei confronti della seconda. Il lapsus linguae, in sintesi, sarebbe un barlume di schiettezza e verità sfuggito al controllo rigoroso del Super-Io, un errore che tradisce il vero pensiero, sentimento, umore di chi parla, rivelandolo contro quanto imposto dalle norme sociali, dalla buona educazione o, come nel caso del nome della ex, dalla pura e semplice autoconservazione.

Andrebbe quindi dato il giusto peso anche a lapsus più illustri, come quello dell’ex Presidente USA George W. Bush che, in occasione di una conferenza stampa dello scorso 18 maggio, si è lasciato sfuggire una gaffe non da poco. Parlando del conflitto in corso in Ucraina, Bush ha rimarcato con convinzione: «Condanneremo sempre e senza mezzi termini la brutale e totalmente ingiustificata invasione dell’Iraq!» – momento di imbarazzato silenzio degli astanti, attimo di realizzazione, correzione – «Volevo dire, dell’Ucraina».

«Scusatemi, ho 75 anni», si è giustificato l’ex Presidente, ma Freud e i suoi allievi non si berrebbero una simile giustificazione. A distanza di vent’anni dal conflitto che ha definitivamente destabilizzato buona parte dell’area mediorientale, con il pretesto delle armi di distruzione di massa nascoste dal dittatore Saddam Hussein definitivamente rivelato come una spudorata menzogna, con tutti i documenti desecretati durante lo scandalo WikiLeaks, i parallelismi tra l’invasione dell’Iraq da parte degli USA e quella dell’Ucraina da parte della Russia sono lampanti, e il subconscio di Bush dev’esserci arrivato prima del suo Ego cosciente.

In entrambi i casi, assistiamo alla soverchiante prepotenza di un super-stato troppo forte per poter essere fermato, che si beffa perciò del diritto internazionale, che accampa scuse insostenibili alla prova dei fatti per la propria condotta, che schiaccia beatamente sotto i cingoli dei propri tank civili non combattenti in nome di sicurezza, giustizia, democrazia. In entrambi i casi, i movimenti pacifisti sono stati messi a tacere, l’opinione pubblica è stata ignorata, gli interessi nazionali sono diventati l’unica norma da seguire in spregio a qualsiasi mediazione, le responsabilità delle conseguenze dell’attacco neanche troppo velatamente scansate.

Un lapsus del genere non dovrebbe essere ignorato, anche perché rivela qualcosa che buona parte del resto del mondo già sa da tempo. Non è un caso che siano pochissimi gli stati che hanno accettato di imporre sanzioni alla Russia, con un grandissimo numero di rifiuti soprattutto tra i paesi del cosiddetto terzo mondo. Prima ancora che motivazioni ideologiche, quel che spinge i neutrali o addirittura i filorussi a rifiutare il supporto all’Ucraina è l’ipocrisia delle potenze occidentali, che adoprano due pesi e due misure per giudicare condotte assolutamente analoghe a seconda di chi le fa proprie, che divinizzano democrazia e volontà popolare solo quando non sono i loro interessi ad essere in ballo, che ignorano il diritto internazionale ogni qualvolta si prospettano profitti, salvo poi ribadire di appartenere al “blocco delle regole” se a fare lo stesso sono paesi al di fuori della propria cerchia ristretta.

Chi ci rimette, in questo gioco di verità taciute e rivelate, è al solito la vittima designata, il cui fato interessa poco agli attaccanti quanto ai difensori. La popolazione ucraina soffre e muore sotto le bombe, i civili vengono violentati, torturati e uccisi, i campi devastati, le città distrutte, le strade minate. Il supporto manca (anche) perché buona parte del mondo si è stancata dei soprusi, dei giochini neocoloniali e delle imposizioni di USA ed Europa. Si è stancata di un’ipocrisia che ha vissuto sulla propria pelle e che è chiara da anni. Da ben prima che a George W. Bush “scivolasse la lingua”.

 

Giacomo Mininni

[Photo credit Levi Meir Clancy via Unsplash]

la chiave di sophia 2022