Una citazione per voi: Marx e la religione come oppio dei popoli

 

• LA RELIGIONE È L’OPPIO DEI POPOLI •

Il concetto di religione come Opium des Volks, ossia oppio dei popoli, viene elaborato da Marx fin dagli Annali franco-tedeschi (1844). Egli sostiene che non esista l’individuo in astratto, ma solo in quanto prodotto della società storica della quale è figlio; motivo per il quale egli si distacca dalla visione di Feuerbach secondo cui Dio sarebbe un feticcio creato dall’uomo stesso. Secondo Marx, invece, la matrice della religione deve essere ricercata nella società che, appunto, ospita gli esseri umani.

Il senso di questa celebre citazione è quello della religione vista come uno strumento, non solo di consolazione per le ingiustizie sociali subite dalle masse che riversano fede e speranza in un’entità trascendente alienando se stesse, ma vista come un narcotizzante che fa sì che gli uomini non si impegnino abbastanza per cambiare questa vita, essendo convinti che il loro bene si possa realizzare in un aldilà. Gli individui, dunque, ricorrerebbero alla religione per crearsi una condizione artificiale per meglio sopportare la situazione materiale nella quale vivono.

La lotta di Marx contro la religione si presenta, dunque, come una lotta contro il mondo stesso, come frutto illusorio di una società malata, che in quanto tale, necessita essa stessa di essere cambiata. Infatti, Marx si fa portavoce dell’azione a scapito della mera speculazione filosofica e afferma che per disalienare la società narcotizzata dalla religione, sia necessario estirpare le differenze di classe che la caratterizzano.

Affidarsi alla religione rappresenta per Marx una condizione di felicità fallace, che poco ha a che vedere con la reale felicità alla quale gli individui potrebbero ambire. Se si attuasse il cambiamento sociale e con esso venissero meno le disomogeneità economiche e l’oppressione capitalistica, secondo Marx, crollerebbe anche la religione, poiché gli uomini non avrebbero più motivo di “drogarsi” per far fronte ad una situazione invivibile.

È quindi necessario che gli uomini prendano consapevolezza del carattere illusorio e narcotizzante della religione, per far sì che possano iniziare a muovere verso il sovvertimento delle strutture caratterizzanti la società.

 

Federica Parisi

 

[Foto rielaborata dalla redazione]

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La nascita della filosofia secondo Giorgio Colli

Nell’immaginario collettivo, quando si pensa a un classico della filosofia, si è portati a pensare a un qualche complicato trattato, corposo sia nella sostanza che nella lunghezza. Oppure a un qualche antico libro di un autore di diversi secoli fa, che risulta tutt’oggi contemporaneo al comune pensare e sentire.

Spesso a rientrare nell’insieme dei classici, meriterebbero di starci anche quei testi apparentemente secondari, ma che si rivelano poi capaci di aver racchiuso in poche pagine un sentire e pensare decisivi per un’epoca. Nel panorama variegato della filosofia italiana contemporanea, diversi sono stati gli autori e i testi che si sono imposti poi come classici del pensiero. Tra questi sta sicuramente la figura e l’opera di Giorgio Colli (1917-1979).

Colli, studioso dei filosofi antichi, filologo, traduttore e storico della filosofia, ha consolidato la sua posizione culturale di estremo prestigio al di fuori dei canoni che la cultura italiana del dopoguerra identificava come campo della filosofia. Eppure, moltissimi dei suoi spunti e delle sue indicazioni sono divenute oggi importantissimi riferimenti culturali.

Il suo La nascita della filosofia (1975) costituisce tra i suoi scritti una piccola ma intensa pietra miliare, che pone le basi sul suo pensiero in materia di filosofia antica e al contempo si pone come riferimento italiano di quella tradizione che vede la filosofia socratico-platonica non come origine del pensiero, ma come suo declino al cospetto di una tradizione precedente ben più profonda.

Se infatti Socrate e Platone sono riconosciuti come i principali cardini della filosofia antica e di tutto il pensiero filosofico occidentale, Colli sente di dover tornare e reinterpretare quelle fonti molto più antiche di sapere che solo molto dopo sono divenute quella che oggi ancora riconosciamo come filosofia moderna.

La filosofia, per Colli, ha le sue radici nell’antico culto degli dei, specialmente in Apollo e Dioniso (interpretati però diversamente da Nietzsche). Gli dei si esprimono con gli uomini lanciando enigmi – caratteristica che risuona per Colli nell’etimologia di “Apollo” – e questi enigmi gettano l’uomo in quella mania (pazzia) da cui la filosofia nasce, che è «matrice della sapienza» (G. Colli, La nascita della filosofia, 1975):

«Attraverso l’oracolo, Apollo impone all’uomo la moderazione, mentre lui stesso è smoderato, lo esorta al controllo di sé, mentre lui si manifesta attraverso un “pathos” incontrollato: con ciò il dio sfida l’uomo, lo provoca, lo istiga quasi a disubbidirgli. Tale ambiguità si imprime nella parola dell’oracolo, ne fa un enigma» (ibidem).

In questo folle dialogo tra dei e uomini accade il pensiero filosofico, che consiste nel tentativo da parte dell’uomo di sciogliere i suoi enigmi attraverso l’interpretazione dei segni divini. Avvicinarsi e comprendere l’essenza della filosofia significa dunque ritornare in quell’atmosfera sacrale dell’antica Grecia che precede i filosofi modernamente intesi e connettersi nuovamente alla dimensione divina dell’enigma.

Come si sviluppa la filosofia successiva, cos’è che cambia? Al venir meno della vicinanza con la divinità, l’uomo sostituisce gli dei agli uomini. L’interpretazione volta al risolvimento dell’enigma diventa dunque dialettica, interlocuzione tra uomini: è il momento socratico-platonico che avviene dunque nello scenario di una morte di dio ante litteram:

«Un passo ancora, cade lo sfondo religioso, e viene in primo piano l’agonismo, la lotta di due uomini per la conoscenza: non sono più divinatori, sono sapienti, o meglio combattono per conquistare il titolo di sapiente» (ibidem).

L’interpretazione di una filosofia in decadenza nell’epoca di Socrate, Platone e Aristotele, nonché nell’epoca della sofistica e delle correnti successive che hanno portato alla struttura culturale occidentale odierna, non era certo così diffusa nel corso del Novecento, se non in quei pensatori e quegli ambienti che avrebbero dovuto ancora attendere per trovare ascolto. Anche Nietzsche insistette per rivolgere lo sguardo a prima di Socrate; allo stesso modo Heidegger, Severino in Italia e tutti i pensatori che hanno sentito la necessità di ritornare ai culti misterici, all’orfismo, ai poeti lirici, ai Sette Savi, alle dottrine non scritte di Platone, per rievocare una dimensione più autentica del pensiero e del rapporto tra uomo e mondo.

Il pensiero di Giorgio Colli, anche attraverso le preziose pagine de La nascita della filosofia, è un piccolo punto di riferimento per chiunque voglia intrecciare nuovamente i fili del pensiero e del divino, della dimensione che precede ogni insegnamento, ricerca, disciplina e trova la sua linfa solo nell’intimo rapporto dell’uomo solo davanti all’essere.

 

Luca Mauceri

[Photo credit Unsplash]

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Una citazione per voi: Sant’Agostino e l’amore

 

• AMA E FA’ CIÒ CHE VUOI •

 

Sant’Agostino pronunciò questa frase in uno dei suoi commenti alla Prima lettera di San Giovanni, quella in cui l’apostolo afferma a più riprese che Dio è Amore e che noi amiamo perché lui ci ha amati per primo. Leggiamo il passo da cui essa è stata estrapolata: «Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene»¹.

Si mescolano nelle parole del filosofo la concezione cristiana del Dio-misericordia e quella pagana del Dio-Logos, autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi. La radice dell’Amore che c’è in ogni uomo ha valore ontologico, è qualcosa di preesistente all’uomo stesso e a cui egli può attingere, grazie all’illuminazione concessa da Dio. C’è una forte vicinanza alla teoria platonica della reminescenza delle Idee, ma la grande differenza sta nell’azione misericordiosa di Dio. Secondo il nostro filosofo è Dio a instillare la Verità nell’uomo, il cui compito dunque è di perseguire, attraverso un rivolgimento verso la propria interiorità, questa stessa Verità. E poiché essa coincide con l’Amore, non potrà che essere raggiunta amando. Ecco allora spiegato il senso dell’affermazione di Sant’Agostino. Se tu ami, ovvero se attingi all’Amore ontologicamente fondato che c’è dentro di te, non puoi che essere nel Bene, nella Verità. Qualsiasi cosa tu faccia, se è frutto di Amore autentico, non potrà che essere buona.

«Io amo in lui una luce», dice Sant’Agostino, «una voce, un profumo, un cibo, un amplesso amando il mio Dio, luce, voce, profumo, cibo, amplesso dell’uomo interiore che è in me»².

 

Erica Pradal

 

NOTE:
¹Agostino d’Ippona, In litteram Ioannis ad Parthos, discorso VII
²Agostino d’Ipponia, Confessioni X, 6, casa ed. Marietti, Torino

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Il “Simposio”: definire l’amore con Platone tra spirituale e materiale

Sul tema dell’amore si è dibattuto molto nei secoli e ne sono state date differenti definizioni. Ma diciamocelo, è sempre molto complicato rispondere alla domanda: “cos’è l’amore?”. Forse non esiste una risposta corretta, o semplicemente per ognuno l’amore è qualcosa di diverso.

I greci furono tra i primi a interrogarsi sulla questione e pagine significative ci sono giunte da Platone con il Simposio e il Fedro. Ciò che rende particolare il Simposio, potrebbe essere riconducibile al fatto che ci si possa rispecchiare nelle diversità dei vari commensali che inscenano dei monologhi durante il banchetto. La vicenda si svolge a casa del tragediografo Agatone e sono vari i personaggi che intervengono sul tema dell’Eros, dandone ognuno una propria definizione, per giungere infine al discorso socratico.
Coloro che parlano prima di Socrate, si preoccupano di attribuire ad Eros i più grandi pregi in maniera indiscriminata, collocandosi fuori dalla dimensione veritativa – e dunque nella doxa. Socrate, invece, è del parere che un vero elogio necessiti di dire la verità, andandosi a collocare nella dimensione epistemica:

«Io infatti, nella mia ingenuità, credevo che sulla cosa da lodare [l’amore] bisognasse dire la verità, e che questa dovesse restare a fondamento […]» (Platone, Simposio, 1996).

Come in tutti i dialoghi platonici, Socrate rovescia le posizioni degli altri dialoganti, ma in questo caso, per farlo, decide di inscenare un dialogo con un personaggio da lui immaginato: la sacerdotessa Diotima, che lo istruirà sulle cose dell’amore.

Eros, tra le altre cose, era stato presentato come mancante delle cose belle e buone, che proprio a causa di tale mancanza egli desidera. Nel dialogo tra Diotima e Socrate, invece, Eros assume la forma di intermedio tra il bello e il brutto, tra il buono e il cattivo. Tale caratteristica viene sviluppata da Platone in una duplice direzione: Eros è intermedio in senso “verticale” – in quanto non identificabile con un dio immortale, ma neppure con qualcosa facente parte della dimensione sensibile: 

     «Ma allora, dissi, che mai sarebbe Amore? un mortale?
     – Niente affatto.
     – E allora che cosa?
     – Come prima, rispose: qualcosa di mezzo fra il mortale e l’immortale.
     – E cioè, Diotima?
     – Un gran demone, o Socrate; infatti ogni natura demoniaca sta nel mezzo fra il divino e il    mortale» (ivi).

Ma la posizione probabilmente più vicina al nostro attuale modo di considerare l’amore, è la visione di Eros come intermedio in senso “orizzontale”, ossia come qualcosa che unisce caratteri opposti, come la privazione e l’acquisizione. È infatti interessante paragonare tale posizione platonica con la psicanalisi che vede nell’amante colui che ricerca nell’amato l’oggetto della propria mancanza. Tale visione dell’amore come intermedio in senso orizzontale deriva dalla natura di Eros, che Platone fa nascere dalla sintesi di due forze opposte, quella della madre Penia (Povertà) e quella del padre Poros (Ingegno). Secondo Platone, Eros avrebbe ereditato l’indigenza, il bisogno e dunque la mancanza, dalla madre Penia; mentre avrebbe ereditato la bramosia di cercare ciò che desidera con tutte le sue forze, dal padre Poros. In quanto generato durante la festa della nascita di Afrodite, massima rappresentante della bellezza, Eros sarebbe amante del bello, pertanto Platone afferma che l’amore sia il tendere al Bene, anche nel suo manifestarsi come bellezza.

«In occasione della nascita di Afrodite, […] Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno, gli si sdraia accanto [mentre dormiva ubriaco] e concepisce Amore. Ecco perché Amore […] è, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite» (ivi).

Tale concezione può risultare complessa, ma è facilmente spiegabile se si comprende che l’Eros realizza la sua tendenza al Bene mediante la procreazione del Bello, dal quale è attratto per sua natura. La bellezza, a sua volta, stimola il desiderio di procreare portando la natura all’immortalità, ma sulla questione della procreazione Platone non si limita ad alludere alla dimensione materiale. Egli afferma che tale processo avvenga anche per l’anima; infatti il Bello porterebbe l’anima a generare le sue migliori virtù e dunque ad essere sempre alla ricerca di nuove acquisizioni del sapere.

La conclusione platonica può apparire aulica e apparentemente poco pratica, tuttavia passi avanti sono stati fatti ragionando sull’amore, proprio a partire da Platone, come dimostrano le tesi freudiane sulla libido e sulla sublimazione. La mancanza che caratterizza l’amore attua il desiderio nei confronti dell’amato e su questo notiamo come convergano sia Platone che Freud. Infatti, in Platone l’amore non fa altro che spingere l’individuo oltre la morte, attraverso la procreazione che serve a mantenere nel tempo ciò che “manca” a livello corporeo, ossia l’immortalità materiale. Freud parlerà di Eros e Thanatos, rispettivamente pulsione di vita e di morte, arrivando ad affermare che Eros si ponga al servizio della pulsione di morte.
Notiamo dunque come in Freud venga ripreso il tema della mancanza e la teoria platonica dell’Eros, fino ad arrivare alla sublimazione dell’amore, secondo cui la spinta verso la meta sessuale si sublima, cioè si trasmuta in un’altra tensione nei confronti di una meta che non è più sessuale.

La teoria platonica dell’Eros risulta quindi molto più concreta di quanto non sembri, sintetizzando perfettamente la dimensione materiale e quella spirituale, impossibili da considerarsi separatamente quando si parla di amore, a prescindere dall’opinione che si abbia riguardo al tema, che ancora oggi rimane di complessa definizione.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Tim Marshall via Unsplash]

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Una citazione per voi: Hegel, la teoria e i fatti

 

• SE I FATTI NON SI ADEGUANO ALLA TEORIA, TANTO PEGGIO PER I FATTI •

 

Se c’è una diffusa e radicata convinzione sui filosofi è il crederli distaccati dalla realtà comune, dalla concretezza delle cose, dalla praticità, dalla chiarezza dei fatti. Nell’immaginario collettivo li si vede avulsi dal circostante a pensare a chissà quale teoria in cui cercano poi di incastrare gli avvenimenti del mondo.

Certamente alcuni filosofi ci hanno messo del loro. Uno di questi potrebbe essere Hegel, tra i cui pensieri si trova anche: «Se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti».

La frase non si trova scritta in alcun saggio hegeliano, ma pare fu detta da lui stesso per rispondere a un’obiezione durante la sua discussione dottorale, nel 1801. In quest’anno, per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, Hegel discute una tesi di filosofia della natura (De Orbitis Planetarum) in cui sostiene tra le varie cose l’impossibilità dell’esistenza di un pianeta tra Marte e Giove. Smentito dalla scoperta proprio in quell’anno di Cerere (considerato un pianeta all’epoca), Hegel dovette difendersi e restò sulle sue convinzioni citando quella frase. Il tempo ha però dato ragione ad Hegel e alla sua teoria: Cerere è infatti un asteroide e nessun corpo delle dimensioni di pianeta esiste tra Marte e Giove.

Al di là di come si svolsero e sono i fatti, il motto ha molto da dire: la filosofia sin dalle origini è una problematizzazione della realtà intera, anche degli aspetti più ovvi ed evidenti come possono essere i cosiddetti fatti. Nessuna rivoluzione nel pensiero o nella vita dell’uomo può compiersi senza dubitare del certo ed Hegel ha potuto dimostrare presto di essere un maestro anche in questo senso.

 

Luca Mauceri

 

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“Lettera sull’umanismo” di Heidegger: il filosofo che non vuol più fare filosofia

La Lettera sull’umanismo fu scritta da Martin Heidegger nel 1946 su sollecitazione di Jean Beaufret, amico e collega del filosofo, che in quel periodo storico si domandava quale senso potesse ancora avere la parola umanismo appunto. Come Heidegger stesso sottolinea nella sua risposta, questa domanda intende da una parte salvaguardare la parola, perché foriera di grande tradizione, e dall’altra discuterla, perché palesemente incapace di apparire credibile agli occhi dei contemporanei. Cosa risponde Heidegger?

Umanismo è per lui un progetto metafisico. Con questa espressione si riferisce a tutto ciò che argomenta il mondo, le cose e gli enti per ordinarli in un senso compiuto, comprensibile all’uomo. La metafisica è dunque una grammatica che riporta il mondo alla misura dell’uomo e che si secolarizza. Da essa sono nate tutte quelle pratiche che dispongono dell’essere e oggettificano gli enti, finalizzandoli a qualcosa. Nel caso dell’umanismo, l’azione metafisica si è premurata di mantenere l’uomo «umano e non inumano, cioè al di fuori della sua essenza» (Heidegger, Lettera sull’umanismo, 1947).

Ma così facendo, continua Heidegger, l’umanismo-metafisico fa dell’essenza umana una differenza specifica, un nome e un oggetto, e finisce con l’interessarsi, nelle sue parole, dell’umanità a partire dalla sua condizione “animale” (vedasi: «l’uomo è un animale razionale»). Qui animalitas significa esistenza in nome della differenza. Ma humanitas è di più, è altro: non può essere ricondotta ad alcuna etichetta, né ridotta alla pura biologia. Essa è e-sistenza, stare-fuori nell’essere, esistere nella consapevolezza di esistere – di esser-ci. Ed è qui, nel territorio del “ci”, che secondo Heidegger si dovrebbe cercare l’autentica essenza dell’umanità.

In questa accusa cadono anche i valori, le morali, le prassi, gli dèi, tutto ciò che è sorto in qualche modo dalla metafisica umanista. Questa caduta però non li annichilisce, come egli stesso ci tiene a precisare; invece ne mette in luce la natura di progetto e richiama il pensiero nell’arena, a considerare nuovamente il suo destino e le sue attitudini. L’accusa di Heidegger chiosa anche contro la scrittura, in quanto essa cristallizza il pensiero altrimenti libero e lo costringe a un adattamento non suo. Per ritrovare allora la verità dell’essere, e di conseguenza la sua vera essenza al di là di ogni oggettivazione, l’uomo deve

«imparare a esistere nell’assenza di nomi […] lasciarsi reclamare dall’essere col pericolo che abbia poco o raramente qualcosa da dire» (ivi).

In questo modo il pensiero potrà anche ritornare a pensare la verità dell’essere, che è infinita apertura ed eterna possibilità, impossibile a oggettivare, obliata per millenni dal pensare metafisico dell’umanismo.

Ma come fare nel momento in cui si è bocciato l’umanismo, la metafisica, la scrittura – e poi anche le filosofie in generale, dacché «i Greci, nella loro età magna, hanno pensato senza simili denominazioni» (ivi)? Forse che per esprimere sempre la verità dell’essere occorre starsene in silenzio? Se lo domanda anche Heidegger in un breve passo del testo. Ma la risposta che si dà riposa nel linguaggio: esso «è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola» (ivi). L’uomo deve diventare pastore dell’essere, non esserne despota; lasciarlo libero di essere, senza dividerlo in oggettivazioni sterili, e ritrovare una semplicità originaria che manifesta tutta la sua forza nella banale asserzione di sé.

Questo è per Heidegger il potere del linguaggio: non l’accumularsi di chiacchiere, dissidi, ostilità e discettazioni, ma la tagliente incisività di una frase ben impostata, che racchiuda in sé tutta l’etica e l’ontologia ad essa sottesa, che superi ogni contemplazione, ogni divisione e ogni materia, e si curi della physis, «della luce in cui solo può soggiornare e muoversi un vedere inteso come theoria» (ivi).

Se Heidegger allora non dà precetti per orientare questo theorein è solo perché è incapace di immaginare il futuro. Oggi però, a più di 70 anni di distanza, qualcosa possiamo avanzare. L’umanismo ha ceduto il passo a posizioni nuove, chiamate per l’appunto post-umaniste, definibili come posizioni che intendono «portare a evidenza la condizione implicitamente ibrida e relazionale dell’uomo» (R. Marchesini, Eco-ontologia, 2018) e dunque distoglierlo dalla centralità vitruviana per condurlo nella reciprocità continua. Una frase del manifesto postumanista recita nel seguente modo: «I corpi umani non hanno confini» (R. Pepperell, The Post-human Manifesto, 1995). Si tratta insomma di accettare che l’essere umano non è mai stato umano affatto – e che è in questo essere inumano, che è fluidità e prova di sé, che sta la sua umanità.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Mario Purisic via Unsplash]

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Una citazione per voi: Sartre e la condanna della libertà

 

 L’UOMO È CONDANNATO A ESSERE LIBERO 

 

L’uomo è condannato a essere libero è l’affermazione di Jean-Paul Sartre fulcro della sua opera filosofica maggiore, LÊtre et le Néant, ovvero L’essere e il nulla (1943), e della celebre conferenza L’existentialisme est un humanisme, L’esistenzialismo è un umanesimo del 1945.

Per comprendere meglio la profondità della teoria sartriana è bene partire dai due principi fondamentali di Sartre ovvero l’existence précède l’essence e la distinzione tra être en soi (essere in sé) e l’être pour soi (essere per sé), cardini della sua ontologia.

Per Sartre l’existence significa uscire da se stessi, essere in ricerca di se stessi, superarsi per realizzarsi in qualità di individui, l’essence è invece un concetto limitativo, l’insieme delle caratteristiche proprie determinanti l’individuo. L’uomo per Sartre esiste per Sartre in quanto uomo e si determina poi con le sue scelte e le sue azioni.

Attraverso l’analogia del taglia-carta, Sartre distingue gli objets, cose determinate, fisse e complete, dai subjets, liberi e responsabili, coscienti e senza un’essenza determinata. A differenza di Leibniz, per Sartre l’essenza dell’essere umano non può essere affermata perché questo sarebbe in contraddizione con la capacità dell’uomo di trasformarsi continuamente. Gli esseri umani sono liberi o meglio condannati a essere liberi ovvero a scegliere e a scegliersi: l’uomo infatti non ha una natura intrinseca o un’essenza ma una coscienza auto-riflessiva capace cioè di auto-determinarlo.

Eliminato Dio, figura deterministica, paternalistica o consolatrice, scagliati nell’esistenza, gli esseri umani sperimentano un senso di abbandono: la realizzazione di una totale libertà, di essere e di dare senso alla propria vita, e di una correlata responsabilità – scegliendo scelgo per me e per il mondo – dà luogo a un’esperienza, piuttosto che a uno stato emozionale, di angoscia.

Non ci sono scuse per eludere la libertà e comportarsi da objet, l’uomo è artigiano della propria vita cui la libertà dà l’impronta di autenticità. La libertà rende l’uomo degno di essere uomo, non la si sceglie, è parte dell’essere umano e questa condanna alla libertà è il senso dell’esistenzialismo sartriano.

 

Rossella Farnese

 

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Il Fedone: il dialogo platonico della morte come inno alla vita

«Non appena ebbe detto queste parole, trattenendo il respiro, bevve fino all’ultima goccia, senza alcun segno di disgusto e con facilità. E i più di noi che fino a quel momento eravamo stati capaci, sia pure a fatica, di non piangere, come lo vedemmo bere e che aveva ormai bevuto, non ne potemmo più. E anche a me, contro la mia volontà, sgorgarono a fiotti le lacrime, e, nascondendomi il volto, piangevo: piangevo me stesso e non certo lui, piangevo la mia sventura; piangevo di quale uomo come amico sarei rimasto privo».
Platone, Fedone, 2000.

Il Fedone è il dialogo platonico che descrive la morte di Socrate e le ore che la precedono. Egli, che per tutta la vita si è occupato del bene morale e della conoscenza autentica, berrà la cicuta – destinata alle persone nobili – e attenderà con orgoglio l’ora in cui la sua anima potrà librarsi in volo.

Nonostante la velata tristezza che percorre tutta la narrazione, ciò che emerge con forza è il sorprendente significato della morte quale compimento della vita. Fedone ha avuto la fortuna di presenziare alle ultime ore di vita di Socrate, raccogliendone le discussioni, che riferisce a Echecrate. I giorni che precedono la sua morte sono occasione per il Maestro di tirar le somme di una vita di ricerca: solo l’anima purificata dal corpo e dai sensi ingannevoli può ambire alla verità. Ecco allora spiegate la serenità e la gioia con cui Socrate si accinge allo scacco finale. Il vero filosofo non deve rattristarsi di morire, perché sa che l‘uomo è la sua anima e il corpo lo strumento di cui essa si avvale. Per questo la morte non lo colse affatto impreparato.

La prima parte del dialogo, dunque, è incentrata sul viaggio dei viaggi, quello di una vita dedicata alla conoscenza autentica, alla filosofia. I viaggi fisici possono essere degli eventi che scatenano idee o, per meglio dire, delle intuizioni da inseguire. Camminare, procedere nello studio e nell’osservazione, navigare trasportati dal vento della doxa (opinione) non sono però azioni sufficienti; anzi, esse rischiano di allontanarci dalla verità. Occorre una “seconda navigazione”, molto più lenta e faticosa che consiste nel passaggio dall’osservazione naturalistica ad una filosofia puramente razionale, libera da qualsiasi legame terreno. È la combattuta scelta di Odisseo il quale rinuncia alla vita paradisiaca nell’isola di Calipso per tentare l’ardua traversata dell’abisso su una zattera e raggiungere cosi la sua amata Itaca.

«Amici miei – disse – su questo conviene riflettere: se l’anima è immortale, bisogna avere cura di essa, non solo per questo tempo della nostra vita, ma anche per la totalità del tempo, e considerare che il pericolo, ora, sembrerebbe terribile se non si ha cura di essa» (Ivi).

Poi, però, si assiste a un cambio della guardia: il Socrate storicamente esistito – quello che non ha concesso ad alcun artificio letterario di appesantire le sue parole, di ingabbiare il volo dei suoi discorsi – lascerà pian piano il posto al Socrate platonico, impegnato a dimostrare in modo rigoroso e razionale l’immortalità dell’anima e l’esistenza di un mondo ideale dove essa è destinata a tornare. Platone ci descrive il mondo delle idee come se esse fossero l’orizzonte ultimo cui mirare, e al valore etico dell’anima immortale si aggiunge una valenza fortemente ontologica.

Socrate sa, ma incalzato da domande vuole dimostrare razionalmente il perché di tanta sicurezza e lo fa attraverso tre prove dell’immortalità dell’anima: la prova dei contrari – se dalla vita viene la morte, dalla morte deve venire la vita, nel senso che l’anima rivive dopo la morte del corpo –; la prova della reminiscenza – se la conoscenza umana è reminiscenza di verità già conosciute è necessario che l’anima sia stata prima corpo –; infine la prova della partecipazione: l’anima, in quanto soffio vitale, è vita e partecipa dell’idea di vita, pertanto non può accogliere in sé l’idea della morte.

Platone, pur regalandoci forse alcune tra le più belle pagine del suo lascito filosofico proprio nel Fedone, ha dovuto fare una scelta difficilissima, quella di ingabbiare nella scrittura le parole del Maestro, rischiando di ucciderlo a sua volta. Ma che cos’è questa se non la più potente dimostrazione dell’immortalità dell’anima? Socrate, ucciso fisicamente e metaforicamente a più riprese, vive ancora oggi con una forza senza precedenti.

 

Erica Pradal e Simone Bortolini

 

[Photo credit Andras Kovacs via Unsplash]

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Una citazione per voi: Kant e la legge morale

DUE COSE RIEMPIONO IL MIO ANIMO DI AMMIRAZIONE SEMPRE NUOVA E CRESCENTE: IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME, E LA LEGGE MORALE IN ME

(I.Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1976, pg. 197)

 

Kant pone questa citazione alla fine della Critica della Ragion Pratica, pubblicata nel 1788.

Si richiama fortemente alla rivoluzione scientifica ed uno dei punti di riferimento è Bacone; ci porta, infatti, a soffermarci su una facoltà imprescindibile di cui è dotato l’uomo: la Ragione. Rivolgere lo sguardo al cielo stellato vuol dire ricordare all’uomo di cosa è capace, cioè il poter governare e studiare la natura attraverso la sensibilità, l’intelletto e le sue categorie. L’uomo governa la natura, questa si confà alla ragione e non viceversa, l’uomo si riscopre soggetto in un mondo in cui fino a quel momento era stato oggetto. L’uomo si astrae dal suo stato di minorità e si riscopre soggetto in un mondo di fenomeni, l’uomo valica le famose colonne d’Ercole del sapere grazie alla Ragione.

Ponendo lo sguardo alla legge morale il richiamo è forte a Rousseau, ma per il filosofo la legge morale porta l’uomo a determinarsi come persona all’interno della società: nessuno ci obbliga ad aderire alla legge morale, ma chi sceglie di farlo lo fa in relazione alla società in cui vive ed è colui che è dotato di autocoscienza. Le legge morale fa parte di tutti noi e ci guida nell’azione, la domanda di Kant sorge nel momento in cui si chiede perchè decidiamo di aderire ad una morale comune nonostante nessuno ci obblighi?

La grandezza del filosofo sta nel riconoscere l’uomo come soggetto che riesce ad unire ambito morale, pratico, e teoretico. Un soggetto che è in grado di riconoscere dentro di sé un io interiore che sa domandarsi come agire secondo imperativi che ha dentro di sé. Questa citazione aprirà ad importanti dibattiti in filosofia che rimangono tuttora aperti sulla natura della morale; sarà anche ripresa da J.S. Mill che parlerà del rapporto dell’individuo con la libertà e sarà d’ispirazione per tutti gli autori successivi come Fichte o Hegel e si rivelerà fondamentale per il futuro esistenzialismo.

 

Francesca Peluso

 

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“Il nichilismo europeo”, il frammento di Lenzerheide di Nietzsche

Per questa rubrica sulla riscoperta di un classico della filosofia ho pensato di analizzare il celebre frammento di Lenzerheide in cui Nietzsche racchiude il fulcro della sua riflessione sul Nichilismo occidentale, ma anche il suo pensiero sull’eterno ritorno, la trasvalutazione dei valori e sull’Oltreuomo che inesorabilmente si collega ad una presa di coscienza della condizione nichilistica dell’uomo. Lenzerheide è una località in cui il filosofo si recava spesso per riflettere e fare lunghe passeggiate; lo scritto che prenderò in analisi è una raccolta di brevi frammenti editi negli anni ’60 da Einaudi grazie all’attenta analisi filologica di Colli e Montinari.

Il filosofo si confronta con vari tipi di nichilismo e prende spunto per la sua riflessione dal nichilismo dei valori russo, dal nichilismo religioso e dal nichilismo del senso. Nietzsche si rende conto che oramai cercare una soluzione al nichilismo sembra essere anacronistico, perché la scienza e la presa di posizione dell’uomo nei confronti della natura e del sapere stesso lo ha messo di fronte il nichilismo stesso. Noi viviamo il nichilismo e l’uomo può solo accettare questa condizione e provare a farci conti e a tracciarne una genealogia.

Ma la domanda che il filosofo si pone è: l’uomo può riuscire ad accettare di essere frutto di una casualità, che la sua vita non abbia senso e può accettare di non avere un valore in quanto uomo?

L’indagine del frammento di Lenzerheide si apre con una analisi della morale cristiana occidentale, ragionando per idealtipi si potrebbe dire che l’uomo grazie alla morale cristiana e nella speranza di una vita futura ha dato valore alla sua stessa vita e ha accettato di credere in valori morali divini che segnavano un religamen con Dio.
Il gesto eroico di Nietzsche è nel far rendere consapevole l’uomo che quei valori che aveva creduto divini in realtà sono valori umani troppo umani che l’uomo ha creato per dare un senso, un orientamento alla sua vita rendendosi conto della sua condizione. La trasvalutazione dei valori è ammettere una nuova tavola di valori che si sanno essere umani, valori che si sanno soggettivi perché frutto di impulsi, passioni, desideri e ambizioni.

La morale non ha nulla in sé di oggettivo, ma solo di soggettivo e l’atto eroico dell’uomo sta nell’ammettere questo suo carattere e smascherarla dal suo carattere di veridicità che si è portato dietro per anni, e chi porrà valori nuovi sarà l’Oltreuomo. L’interpretazione dell’Oltreuomo per anni è stata oggetto di fraintendimenti dovuti ad interpretazioni filologiche non corrette e perché troppo spesso associata a teorie politiche successive. In realtà l’Oltreuomo è colui che accetta la condizione umana troppo umana dell’uomo priva di orientamento, è colui che porrà i valori nuovi sopracitati ed è colui che saprà affrontare l’Eterno Ritorno dell’uguale.

La concezione di tempo nietzschiana è sostanzialmente diversa da quella cristiana che prevede una progressione, si potrebbe assimilare ad una retta in cui individueremmo un prima, un ora, un sarà. Quello che invece il nostro filosofo ci prospetta è una visione circolare del tempo, un tempo che non ha fine, non è direzionato e si rinchiude in sé stesso facendo coincidere ogni inizio con la medesima fine.

Come penserebbe il Superuomo l’Eterno Ritorno?

Questa è la domanda con cui si conclude la dissertazione del frammento in analisi; è difficile pensare che esista un uomo che si prenda la responsabilità di sperimentare, vivere ed accettare l’insensatezza della vita giorno dopo giorno. Eppure questo uomo deve volere l’insensatezza della vita, deve volere una nuova tavola di valori. Qui entra in gioco il concetto di Volontà di Potenza che sembra per certi versi essere un fine o l’unico valore incontrovertibile a cui si possa fare affidamento. Ma dichiarare un fine non sembra essere in contrasto con il pensiero di Nietzsche?

È una domanda a cui spesso si è cercato risposta, ma risulta difficile darne una certa.
Ciò che resta è l’eroica riflessione di un filosofo che rompe gli schemi con la metafisica precedente ed è capostipite della Storia della filosofia contemporanea come dirà Heidegger nelle sue celebri lezioni degli anni ’40; Nietzsche ci prospetta un nuovo scenario d’azione dell’uomo e mette l’uomo al centro del suo universo. L’uomo vuole il volere, l’uomo è artefice di sé stesso, l’uomo è libero e consapevole della sua condizione. L’uomo trova la sua forza nell’accettare la sua indeterminatezza: è questo il messaggio che spaventa, ma che fornisce un nuovo motivo di speranza all’uomo nelle sue capacità.

 

Francesca Peluso

 

[Photo credit Breno Machado via Unsplash]

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