Essenza e forme della simpatia di Max Scheler

Nel corso del Settecento è stata alla base dell’etica di David Hume e Adam Smith. E, nell’ambito della filosofia contemporanea, il filosofo Max Scheler le ha addirittura dedicato una intera opera. Deriva dal greco sun “con” e pàschein, “patisco, subisco”. Quindi “patire insieme” o “provare un’emozione con”.
Stiamo parlando della simpatia, cioè dell’interdipendenza delle cose, che si influenzano reciprocamente. Quando applicata all’ambito umano, indica la possibilità di un individuo di condividere, o almeno comprendere, emotivamente le esperienze degli altri.

Diversa dall’amore o dalla fusione emotiva, per Scheler si può provare simpatia o compassione per un dolore altrui, senza per questo provare questo stesso dolore. Si può partecipare al sentire dell’altro senza però provarlo direttamente.

«Ciò che noi, attraverso la percezione dell’altro, non potremo mai “percepire” sono soltanto gli stati del corpo vissuti dall’altro, cioè soprattutto le sensazioni degli organi e i sentimenti sensoriali ad essi connessi»1.

Quindi, di fronte allo stato di sofferenza in cui si trova immerso un altro soggetto non potremo rivivere il medesimo dolore, che inevitabilmente, essendo vincolato a quel determinato corpo e a quella determinata vita, ci è inaccessibile.
Ma la simpatia rimane essenziale per la comprensione degli altri e il riconoscimento dell’alterità delle persone. Questo perché si pone come disposizione attraverso cui noi possiamo farci carico, condividendolo, uno stato emotivo appartenente ad un altro soggetto. Si dà simpatia quando le emozioni vissute da una persona provocano una certa risonanza, originando così uno stato di “sentimento condiviso”.

In Essenza e forme della simpatia, opera pubblicata nel 1913 ma profondamente rivista e ampliata in occasione dell’edizione del 1923, Scheler parla della simpatia, considerata per lungo tempo un sentimento morale e identificata con la compassione, nonché assurta con Darwin a origine della socialità umana e della morale, in maniera opposta alla tradizione.
Per Scheler, essa rappresenta uno dei nodi cruciali e articolati dell’esperienza: si costituisce attraverso l’apertura al mondo e ai suoi significati, con un movimento di superamento dei confini dell’io e di ricezione, risposta, partecipazione e condivisione di ciò che è altro. La simpatia diventa così accesso al mondo, alle persone e alle cose.

Ma la stessa simpatia, come spiega Scheler, ha diverse forme: è co-sentire ma anche contagio, ad esempio. Se nel primo caso noi prendiamo parte alla sofferenza o gioia dell’altro volontariamente e consciamente, nella forma del contagio invece siamo come trascinati involontariamente e inconsciamente a provare quella determinata gioia o sofferenza nella misura in cui avvertiamo il pathos dell’altro come nostro.
Caso ancora diverso è quello dell’unipatia, fenomeno per il quale ci indentifichiamo in maniera completa involontariamente e inconsciamente con un altro soggetto, non limitandoci a considerare come nostro un vissuto altrui, come invece accade nel contagio, ma facendo del nostro io un tutt’uno con quello altrui.

«La genuina unipatia del proprio io individuale con un altro io è solo un’accentuazione, per così dire, un caso limite del contagio. Qui infatti un determinato processo affettivo altrui non solo vien considerato inconsciamente come se fosse proprio, ma anche l’io altrui viene addirittura identificato con il proprio io. Anche qui, l’identificazione è tanto involontaria quanto inconscia»2.

Nell’opera scheleriana, tra gli scritti più importanti dedicati dal filosofo alla costruzione fenomenologica di una filosofia della persona, si parla anche di amore, ovvero di ciò che è interamente diretto ai valori positivi della persona. E che, in quanto tale, è base essenziale dei rapporti autentici.
Il filosofo propone al lettore una chiara differenza tra amore e simpatia. Il primo si differenza dalla seconda perché è riferito a un valore e per sua stessa natura non può essere mai “simpatia con se stesso”. Inoltre, l’amore non è un “sentire”, una funzione, ma un atto spirituale, un movimento. Secondo Scheler, ha un senso trattare l’amore e l’odio come moti dell’animo e non come sentimenti o affetti perché questi ultimi comportano un riferimento al sentire e, di conseguenza, a una condizione di passività che l’amore, in quanto attivo, non conosce.
Se quindi, ad esempio il com-patire, forma di simpatia, è un portare insieme all’altro una sua gioia o una sua sofferenza, l’amore e l’odio sono invece un’azione verso di lui.

Secondo Scheler, ci è data la possibilità di amare (o odiare) qualcuno indipendentemente da quello che l’altro sta provando. Per questo amore e odio non scaturiscono come risposta a un sentimento provato dall’altro ma spontaneamente. Il sentire su cui si fonda la simpatia è invece un acquisire, sia il senso dei valori sia quello degli stati come il patire, il sopportare, il tollerare.

E se l’amore è, soprattutto, un atto spontaneo – e lo è anche nell’amore ricambiato, «qualunque possa esserne il fondamento»3 – ogni simpatia, al contrario, è un comportamento reattivo. Eppure, ogni simpatia è in sé fondata su un amore, e cessa qualora venga a mancare d’un qualsiasi amore. Ma nonostante questo, si può provare simpatia per un individuo particolare, senza per questo amarlo.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, trad. it. a cura di Laura Boella, FrancoAngeli, Milano 2012, pag. 239.

2. Ivi, pag. 51.
3. Ivi, pag. 152.

[Photo credit Toa Heftiba via Unsplash]

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Una citazione per voi: Aristotele e il desiderio di conoscenza

 

• TUTTI GLI UOMINI HANNO UN INNATO DESIDERIO DI SAPERE •

 

Questa citazione è tratta dal primo libro della Metafisica ed è emblematico che Aristotele la ponga all’inizio della sua trattazione: tutti gli uomini hanno bisogno di risposte, ciò che rende l’uomo diverso è il meravigliarsi di ciò che lo circonda ed avere la capacità di alzare gli occhi al cielo per indagare, capire, sperimentare e cosa straordinaria mettersi e mettere in dubbio l’essenza di ciò che lo circonda. Questo è l’inizio della storia della filosofia nonché la storia del percorso del pensiero umano.

Gli uomini attraverso le loro sensazioni e sin dal loro primo approccio con il mondo che li circonda sono portati naturalmente al voler conoscere, ecco l’origine del mito, delle genealogie: l’uomo ha bisogno di risposte ai suoi perché, l’uomo vive grazie alle sue domande che ne permettono il progresso. L’uomo è capace di tecnica, di ragionamenti, di giudizio critico e morale e tutto nasce dalla sua naturale propensione al voler comprendere i meccanismi del mondo che lo circonda.

È di primaria importanza ricordare che Aristotele quando parla del desiderio di conoscenza naturale nell’uomo ne parla come di un desiderio sciolto da una qualsiasi utilità: l’uomo non aspira a conoscere solo in virtù di ciò che gli può essere utile, anzi l’uomo aspira al sapere perché naturalmente proteso verso questo, aspira alla conoscenza in sé. L’uomo aspira a voler conoscere la realtà che lo circonda in quanto è capace di andare oltre le contingenze.

Ciò che rende meravigliosa la storia dell’evoluzione del pensiero è che pur cambiando le contingenze, l’epoca, i mezzi di cui l’uomo si serve, si può osservare come le domande degli uomini sulla vita, sulla morale, sul mondo, sull’origine di esso e sulla morte non siano mai mutate, ma ne è mutata ed evoluta la risposta attraverso i secoli. La natura umana e con essa la sete di sapere unisce l’uomo nei secoli e il fascino della filosofia è poter prendere parte alla storia del nostro pensiero e provare a contribuire con una nostra risposta.

 

Francesca Peluso

 

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Non c’è amore che non sia naturale: l’omosessualità nel “Simposio” di Platone

Tutti noi conosciamo, almeno per sentito dire, l’espressione amore platonico, talvolta abusata ma comunque divenuta parte del linguaggio ordinario anche di chi non sa cosa significhi e da dove provenga. Essa trova la sua massima formulazione nel Simposio1, un dialogo di Platone tra i più noti, sul quale si è detto e teorizzato tanto. Ha attraversato in lungo e in largo i secoli, imbevendo delle sue magnifiche parole sull’Amore pagine e pagine di filosofi, pittori e letterati. Eppure non sempre ha trovato spazio un momento specifico del Simposio: il discorso di Aristofane.

Conosciamo molto bene il punto più alto dell’opera, il grande discorso di Socrate che, riportando le parole della sacerdotessa Diotima, ci racconta della natura doppia di Eros, figlio di Poros (espediente) e Penìa (povertà). Questi si troverebbe a metà tra il mortale e il divino, sarebbe cioè un daimon, e consisterebbe nel desiderio di qualcosa di bello e buono che ancora non si possiede. Ma che dire di quanto vien detto prima di questa perspicua sezione del dialogo? Tra i tanti partecipanti del convivio dedicato all’Amore in occasione dei festeggiamenti della vittoria del poeta tragico Agatone, prende infatti parola Aristofane, il commediografo noto per la sua avversione nei confronti di Socrate.

Ed in effetti le sue parole son tutto meno che insignificanti. Nell’arco testuale 189A-193E si parlerà di Eros con una bellezza ed una salienza che verrà eguagliata solo dalle parole di Socrate. Per parlarci dell’Amore, Aristofane si avvale di un mito noto come mito degli androgini. In origine – ci dice il commediografo – esistevano tre sessi di uomini: i maschi, le femmine e gli androgini, composti per metà dal maschio e per metà dalla femmina. Del tutto autosufficienti e a sé bastanti, tali uomini erano così pieni di sé da sfidare gli dei, peccando di hybris e portando Zeus all’estrema decisione di folgorarli e scinderli in due individui destinati a un agognato destino: cercare in lungo e in largo la propria metà. Eros diviene così una tensione all’Unità, la nostalgia di un’interezza perduta e mai più ritrovabile, giacché, anche se in comunione, le due parti non produrranno mai un intero indissolubile, essendo il Tutto maggiore della somma delle parti.

«Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore del uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura» (191D).

Non solo il mito degli androgini si rivela stimolante e suggestivo, ma ci permette di fare un passo in avanti verso un’altra considerazione. Per la prima volta nella storia della filosofia, infatti, Platone sembra offrire una legittimazione all’omosessualità senza che questa passi per promiscuità, disadattamento o deviazione. Anzi, è lo stesso Platone a parlare dell’amore come ricerca dalla propria originaria natura: non c’è nulla di più normale dell’uomo che cerca il suo uomo o della donna che cerca la sua donna. È vero, d’altra parte, che il mito degli androgini si chiude alla possibilità della bisessualità, non contemplando un soggetto che tenda a due nature, a due generi. Non è tanto interessante la centralità dell’amore omosessuale, che in Platone, coerentemente con l’ethos greco classico, trova spazio in svariati scritti (compreso lo stesso Simposio, se pensiamo alle parole messe in bocca a Pausania, che fa un elogio dell’amore tra uomini dello stesso sesso e un’apologia della pederastia, altra pratica amorosa tipica dell’antica Grecia). Semmai è interessante la razionalizzazione filosofica, la volontà di legittimare sia in forma mitica che in forma teorica l’unione omosessuale come sana, naturale e principio di felicità. Addirittura leggiamo, a proposito dell’amore tra uomini dello stesso sesso:

«In verità, alcuni sostengono che sono degli impudenti. Ma mentono, perché essi non fanno questo per impudenza, ma per arditezza, per fortezza e per virilità, in quanto hanno inclinazione verso ciò che è simile a loro. […] E quando siano diventati uomini si innamorano dei ragazzi e non si preoccupano delle nozze e della procreazione dei figli per loro natura, ma sono costretti a far questo dalla legge» (192B).

Stupisce, insomma, che non è tanto una necessità naturale, quella dell’unione eterosessuale, né lo è la procreazione, quanto una norma giuridica, un prodotto dell’ethos della polis, in altre parole una convenzione. Insomma, nel Simposio e nelle parole di Aristofane, l’omosessuale trova una prima illuminante illustrazione della sua normalità. È reso ordinario, naturalizzato e, soprattutto, ospitato dal discorso filosofico. Perché che si sia uomini o donne, il risultato non cambia, l’Amore rimane tensione all’Unità, desiderio, da due, di diventare uno solo, al di là di ogni tabù.

 

Nicholas Loru

 

NOTE
1. L’edizione adottata è: Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017.

[Photo credit Hush Naidoo via Unsplash]

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Una citazione per voi: Spinoza e Dio

 

DEUS SIVE NATURA

 

Quest’affermazione di Baruch Spinoza – filosofo olandese del XVII secolo – è ripresa dall’Etica, il suo testo fondamentale contenuto all’interno del volume Opera posthuma pubblicata nel 1677 pochi mesi dopo la morte dell’autore. Spinoza è uno dei pensatori fondamentali della modernità, che ha condizionato enormemente gli sviluppi futuri della filosofia, tanto che qualsiasi filosofo a lui successivo non ha potuto non confrontarsi con la sua dottrina.

Carattere peculiare di Spinoza è un assoluto determinismo, che verrà definito anche determinismo logico, poiché egli ritiene che è solamente la nostra ignoranza della catena causale che porta a un determinato evento a permetterci di parlare di “libero arbitrio” o di “finalismo”. Nonostante questa ferrea causalità, nell’Etica, Spinoza ritiene comunque di riuscire a dimostrare la non-schiavitù dell’uomo.

La sua metafisica si snoda intorno al concetto fondamentale di sostanza: «Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare». Data questa definizione, per Spinoza è allora inevitabile che esista un unica sostanza, Dio, che consta di infiniti attributi. Di questi attributi l’uomo conosce solamente pensiero ed estensione e tutti gli enti finiti esistenti non sono che modi, ovvero modificazioni di questa unica, eterna e infinita sostanza e dei suoi attributi. Si comprende immediatamente come il Dio di Spinoza sia assolutamente diverso da quello della tradizione ebraica e cristiana: in prima battuta sottolineiamo come non possieda i caratteri qualitativi classici (bontà, misericordia ecc). Anche questa diversità ha causato il suo allontanamento dalla comunità ebraica e accuse di eresia che non abbandonarono la sua figura se non dopo molto tempo. Il suo sistema, infatti, veniva accusato di panteismo, e la sua celebre citazione «Deus sive natura» ricalca quest’etichetta: essa, infatti, significa «Dio, quindi, natura»; «Dio, ovvero, natura». Un Dio, dunque, non antropomorfo; bensì un’unica sostanza infinita ed eterna nel cosmo, di cui noi non siamo altro che sue modificazioni.

Potrebbe sembrare una visione “fredda” della nostra vita ma tuffandosi nell’Etica si può scoprire come il sistema di Spinoza liberi l’uomo dalla sua condizione di mortalità e da legami granitici con le idee di “bene” e “male” (non per nulla Nietzsche sarà catturato dal filosofo olandese). Questo fa conseguire un’enorme carica di responsabilità da parte delle comunità e degli individui, infatti la produzione spinoziana non si limiterà a trattati metafisici ma anche polititi e teologici, promuovendo – semplificando – la laicità dello stato e la costituzione democratica.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Immagine modificata da Google]

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Oltre la linea: Jünger e Heidegger sul nichilismo

Oltre la linea (Über die Linie) è scritto da Jünger nel 1950 in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, che gli risponde nel 1955, e oggi il testo completo della corrispondenza è pubblicato in una breve opera.
Il testo di Jünger vuole essere un omaggio all’autore che aveva rivoluzionato il lessico filosofico moderno ed aperto a nuove riflessioni sulla metafisica e sul Nichilismo dei valori e del senso. Heidegger aveva anche a lungo studiato e discusso i testi di Nietzsche e nel momento in cui legge il Nichilismo Europeo si dice “distrutto”. Ciò lo spinge a riprendere il dibattito sul tema portandolo anche all’attenzione dei suoi allievi a metà degli anni ’40 in diversi corsi all’Università di Berlino.

La linea citata nel titolo è il limite simbolico che una volta varcato potrebbe portarci al di là della condizione nichilistica storica che viviamo; di particolare importanza è la particella iniziale über che rimanda all’attraversare: sebbene la particella possa rimandare ad un attraversamento completo, ciò che intende Jünger è la possibilità di poter attraversare la linea restando quasi in biblico sul limite e dando uno sguardo dall’alto alla condizione storica che si sta vivendo.

«L’attraversamento della linea, il passaggio dal punto zero, indica il punto mediano non la fine. La sicurezza è ancora molto lontana» (M. Heidegger, E. Jünger, Oltre la linea, 1950).

Le domande che inevitabilmente verranno a porsi saranno: è possibile questa transizione ipotizzata dal filosofo o la soluzione migliore è accettare di vivere in una condizione storica nichilistica? Quale è la soluzione che ci porta alla transizione, e la storia che ruolo ricopre?

Afferma Jünger nella prima parte del testo: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione costante di sfuggirne conosce ben poco la nostra epoca» (ivi). Il niente di cui parla il filosofo è l’assenza di meraviglia dell’individuo moderno, il quale sembra essersi assopito: gli manca il contatto con le arti, con i valori, manca la fiducia nelle idee. L’essere umano moderno è stato dilaniato dalle guerre mondiali ed ora cerca di ricostruirsi attraverso il progresso della tecnica, ma nel farlo perde il contatto con l’Assoluto1. L’unica speranza per andare attraverso la linea è recuperare il rapporto con le arti, perché solo attraverso queste l’individuo può recuperare anche il dialogo con sé stesso. Le contingenze storiche lo hanno messo alla prova ponendolo dinanzi al pieno Nichilismo dei valori; ciò nonostante il filosofo è speranzoso e fiducioso in questa nuova rivoluzione a cui il soggetto moderno dovrà dare vita.

La risposta di Martin Heidegger non si fa attendere, ma si discosta da ciò che aveva prospettato Jünger: il Nichilismo, non si può varcare né attraversare, non si può guardare dall’alto perché ne faremo sempre parte, l’esperienza del niente fa parte della vita dell’uomo perché è parte essenziale della sua storia:

«La pietra di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del Niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia e dalla storia» (ivi).

L’individuo deve farsi carico del Nichilismo avendo la consapevolezza che l’ospite più inquietante, come lo definì Nietzsche, non potrà mai essere messo alla porta ed anzi la sua esperienza è ciò che profondamente caratterizzerà la vita di ognuno. Il compito del filosofo sarà guidare l’individuo nel percorso che lo porterà ad accettare e vivere la sua condizione attraverso la riflessione, il dialogo, l’analisi. Vivere nichilisticamente significa accettare che non c’è alcun legame con l’Assoluto, tutto è umano ed è solo il singolo che definisce il senso e il valore al mondo che lo circonda; tutto sembra essere umano, forse troppo umano.

L’opera ci porta a riflettere sulle possibili soluzioni al Nichilismo imperante nell’epoca contemporanea e senz’altro il suo merito è di darci la possibilità di indagare il problema dell’analisi del Nichilismo da due punti di vista. Da un lato la necessaria accettazione di esso; dall’altro il dover recuperare ciò che sembra essere perso anche oggi: la fede negli ideali, il rapporto con l’arte e il dialogo con noi stessi, l’unico mezzo attraverso cui possiamo rapportaci agli altri. Infatti, sebbene il Nichilismo non sia superabile, è possibile però accettarlo e vivere nella storia e facendo la storia, una storia che si costruisce con l’altro.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. L’Assoluto di cui parla l’autore si deve intendere come uno Spirito Trascendente che pervade la storia e la pervade di senso, strettamente collegata a questa concezione è la teoria dell’arte come salvifica essendo uno dei mezzi attraverso cui questo si manifesta.

[Photo credit Artyom Kabajev via Unsplash]

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Una citazione per voi: de Beauvoir e l’essere donna

 

• NON SI NASCE DONNE, SI DIVENTA •

 

Tra le personalità e le autrici che nel Novecento hanno contribuito allo sviluppo dei movimenti femministi e delle rivendicazioni sociali e politiche delle donne è impossibile non ricordare Simone De Beauvoir. Filosofa e pensatrice controversa di estrazione alto-borghese, nasce a Parigi il 9 gennaio 1908 e si laurea alla Sorbona, dove conosce quello che diventerà il compagno e l’amico di una vita, Jean Paul Sartre. È nel 1930 che inizia ad insegnare, per poi lasciare la cattedra ed entrare nel comitato di redazione della rivista Les Temps Modernes.

È nel Secondo Sesso che Simone De Beauvoir ci lascia in eredità la sua citazione più famosa: Non si nasce donne, si diventa. Un’opera che viene pubblicata nel 1949 e concepita come una trattazione teorica, ma che presto diventò uno dei testi di riferimento per le attiviste e i primi movimenti di emancipazione femminile. L’obiettivo di Simone è chiaro: per pensare l’uguaglianza in un contesto di dominazione maschile, è necessario appellarsi all’universalità della ragione. “Diventare” donne significa che “per natura” non lo siamo: quello che ci rende tali non è una presunta essenza innata con caratteristiche e “virtù” ben definite, ma la nostra storia, l’infanzia e le cicatrici che portiamo sul corpo. E quindi quel che definiamo “natura femminile” con tutti i suoi “valori” cos’è? È una categoria che nasce in seno alla società, frutto di secoli di dominazione maschile e di una tradizione filosofica millenaria, che vede “uomo” e “donna” come due essenze radicalmente distinte. In tal senso la donna ha giocato il suo ruolo solo in relazione all’uomo, come “secondo” sesso. Così scrive Simone: «la donna si determina e si differenza in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro»1.

Non esiste quindi alcun destino biologico o psicologico che possa definire una donna in quanto tale, essa costruisce sé stessa solo attraverso la sua vita e i suoi desideri. È innegabile che ci siano delle differenze biologiche tra uomo e donna, ma ciò che afferma la filosofa è diverso: l’insistenza con cui sono state affermate queste differenze nel corso della storia ha fatto sì che elementi sociali e culturali venissero letti come qualcosa di innato da accettare solo passivamente. È su questo pretesto che si è costruita la condizione femminile nel corso dei secoli.

Se l’opera e il pensiero di Simone porterà con sé critiche, discussioni teoriche e rotture in seno ai movimenti femministi, è innegabile che il suo contributo sia stato fondamentale per ripensare la donna “libera” dalla subordinazione al “primo sesso”. La sua battaglia contro gli stereotipi di genere ha aperto la strada alla costruzione di una nuova soggettività autonoma e consapevole.

Cosa ci lascia in eredità oggi? In una conferenza del 1966 Simone sottolineava come il problema della disparità tra uomo e donna non fosse solo culturale, ma anche politico. La democrazia borghese rivela in sé una grande contraddizione che coinvolge la donna: se da una parte vuole essere un regime dove vige perfetta uguaglianza (il diritto di voto rappresenta l’espressione di questa), dall’altra l’ordine borghese si fonda sulla disuguaglianza ed è in questo senso (disparità salariale, disoccupazione femminile) che le donne vengono mantenute in uno stato di inferiorità. Il discorso aperto da Simone è più attuale che mai, basti considerare oggi l’occupazione femminile e il gender pay gap: in Italia, infatti, la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7%2.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. S. De Beauvoir, Il Secondo Sesso, p. 22
2. Analisi Eurostat che tiene conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda

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“L’arte della guerra” e l’importanza di affrontare i conflitti

Non sono molte le opere che riescono ad attraversare lo spazio e il tempo e a conservare ancora oggi quella saggezza antica capace di guidarci nella nostra quotidianità. Una di queste è sicuramente l’Arte della Guerra o Sun Tzu1.
Scritto in Cina trecento anni prima della nascita di Cristo, il Sun Tzu è considerato ad oggi come uno dei più antichi trattati di strategia militare e non solo. Esso, infatti, non si limita a dare esclusivamente consigli su come sconfiggere i nemici sul campo di battaglia, ma insegna anche a gestire, in modo profondo e non distruttivo, tutti quei conflitti nei quali ognuno di noi è quotidianamente impegnato.

Nel corso dei secoli quest’opera conobbe un grande successo e fu in grado di modellare il pensiero strategico di tutta l’Asia orientale, grazie anche all’introduzione di una prospettiva radicalmente nuova secondo la quale era possibile portare un esercito alla vittoria senza combattere. Sì, avete capito bene: vincere senza combattere. Secondo il Sun Tzu la vera forza di un generale sta nel conquistare senza aggredire, sia esso un conflitto esteso o limitato, personale o nazionale. Questo perché per il Sun Tzu conquistare il nemico intero ed intatto significa conquistarlo in modo da mantenere, per quanto possibile intatte, sia le nostre risorse che quelle avversarie. Tale tipo di vittoria lascia infatti in vita qualcosa su cui poter costruire, mentre la distruzione lascia solamente dietro di sé devastazione; non solo per la parte sconfitta, ma anche per i conquistatori che cercheranno di imporre a tutti i costi la loro “pace”. La vera vittoria, quindi, è la vittoria sull’aggressione, una vittoria che rispetti l’umanità del nemico rendendo così inutile un ulteriore conflitto.
In uno dei distici più famosi leggiamo infatti:

 «Perciò, ottenere cento vittorie in cento battaglie non è prova di suprema abilità.
Sottomettere l’esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità»
(L’arte della guerra, 2014).

Nel corso dell’ultimo mezzo secolo questo “manuale” è diventato un testo fruibile per tutti coloro che desiderano cambiare il proprio modo di affrontare i conflitti, siano esse guerre, contese in affari o semplicemente questioni di vita quotidiana. Questo perché la saggezza del Sun Tzu parte da una verità di fondo: il conflitto è una componente integrante della vita umana, in quanto esso si trova costantemente dentro ed intorno a noi. Talvolta riusciamo abilmente ad evitarlo, è vero, ma la maggior parte delle volte non possiamo far altro che affrontarlo direttamente. Da qui allora l’importanza di mostrare un modo sano, corretto ed efficace per gestirlo. Tutti noi abbiamo verificato, sia personalmente sia nei disastri prodotti dai conflitti armati, il potere distruttivo insito nell’aggressione e i limiti presenti nella gran parte delle risposte politiche e personali a tali aggressioni.
Ed allora, come gestire tutto ciò in modo più chiaro ed efficace? E soprattutto, come può questo testo aiutarci ed insegnarci ad affrontare il conflitto con maggiore efficacia?
Il Sun Tzu raccomanda che la risposta al conflitto inizi dalla conoscenza di noi stessi e degli altri:

«E così, nelle operazioni militari:
Se conosci il nemico e conosci te stesso,
Nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo,
Se non conosci il nemico ma conosci te stesso,
Le tue possibilità di vittoria sono pari a quelle di sconfitta.
Se non conosci né il nemico né te stesso,
Ogni battaglia significherà per te sconfitta certa» (ivi).

La conoscenza di se stessi è quindi non solo una componente fondamentale per affrontare la propria vita o l’unico obiettivo che l’uomo deve perseguire come amava ripetere il filosofo greco Socrate, ma è una consapevolezza che ci consente di conoscere a pieno quali siano le nostre forze quando sono al massimo e quelle del nostro avversario.

«Se so che le mie truppe sono pronte a combattere, ma non che il mio nemico è inattaccabile,
Le mie possibilità di vittoria sono dimezzate.
Se so che il nemico è attaccabile, ma non che i miei soldati non sono pronti a combattere,
Le mie possibilità di vittoria sono dimezzate.
Se so che il nemico è attaccabile e che i miei soldati sono pronti a combattere, ma non che le condizioni del terreno sono insidiose,
Le mie possibilità di vittoria sono dimezzate» (ivi).

Solo così saremo in grado di raggiungere il nostro obiettivo: imparando a gestire direttamente il conflitto senza ignorarlo, soffocarlo, arrenderci ad esso o semplicemente tentando di negarne l’esistenza.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

NOTE:
1. Tradizionalmente, L’arte della guerra viene ricondotta al generale Sun Tzu (la cui traduzione corretta secondo il sistema ufficiale pinyin sarebbe Sun Zi), vissuto in Cina intorno al IV secolo a.C., anche se la paternità dell’opera è per certa misura incerta. Comunemente si è soliti riferirsi all’opera con il nome del presunto autore (Sun Tzu) invece che con il suo titolo proprio (Bing fa), come avviene, per esempio, anche con il Tao tê ching e il suo tradizionale autore Lao Tzu (o Lao Zi).

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“La logica della scoperta scientifica” di Popper

«La scienza non persegue mai lo scopo illusorio di rendere le sue risposte definitive, e neppure probabili».
K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1974.

Nel 1934 viene data alle stampe La Logica della scoperta scientifica, prima e più importante opera del filosofo austriaco naturalizzato britannico Karl Popper. Il libro, nella prefazione alla traduzione italiana del 1970, è presentato dall’autore come un tentativo di rispondere a quesiti di non poco conto: possiamo conoscere? Se sì, cosa e con quale grado di certezza?

Secondo Popper, alla base della scienza non c’è nulla di assoluto. Non a caso, il filosofo paragona le teorie scientifiche a edifici costruiti su palafitte erette su una palude: quando ci fermiamo davanti a una determinata teoria non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Piuttosto, riteniamo più semplicemente che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili da reggere, per il momento, la sua struttura.
Popper utilizza anche un’altra metafora, questa volta ripresa dal filosofo tedesco Novalis, che paragona le teorie scientifiche a reti gettate sulla realtà: per coglierne (e conoscerla) il più possibile, dobbiamo rendere la loro trama sempre più fitta. E nella scienza questo avviene grazie alla critica e alla sostituzione delle teorie con altre considerate migliori. Così, il motivo della crescita del sapere dipende dalla dinamica di congetture che, se superano il vaglio delle confutazioni (cioè delle smentite), spingono alla formulazione di nuove congetture da sottoporre a loro volta a nuove confutazioni.

Per il filosofo austriaco la validità di una teoria risiede infatti nella sua disposizione a essere sottoposta a controlli empirici, che potrebbero falsificarla, e a resistere ai falsificatori potenziali, cioè alle affermazioni con cui la teoria si pone in contraddizione e il cui accertamento si tradurrebbe in una falsificazione. Per questo, ciò che permette di riconoscere una teoria sensata da una che tale non è, sarebbe la falsificabilità e non la verificabilità (che è la possibilità di confermarla attraverso il confronto con i dati dell’esperienza). Per questo, secondo Popper, non esisterebbero teorie vere definitivamente ma solo ipotesi “corroborate”, non falsificate dalle prove cui sono state finora sottoposte. Per avvicinarsi alla scienza bisogna allora sostituire alle teorie falsificate (smentite) altre ipotesi più resistenti alla falsificabilità, in un continuo processo di modificazione critica delle conoscenze precedenti.

«Secondo la mia proposta, ciò che caratterizza il metodo empirico è la maniera in cui esso espone alla falsificazione, in ogni modo concepibile, il sistema che si deve controllare. Il suo scopo non è quello di salvare la vita a sistemi insostenibili ma, al contrario, scegliere il sistema che al paragone si rivela più adatto, dopo averli esposti tutti alla più feroce lotta per la sopravvivenza» (ivi).

Così la scienza sarebbe sottoposta a un processo simile a quello avanzato dal modello evoluzionistico darwiniano. Da una parte, la competizione tra le teorie scientifiche porta a selezionare quella che si dimostra “la più adatta” a sopravvivere, in quanto, fino ad allora, è stata l’unica ad aver superato i controlli più severi e ad essere stata controllata nel modo più rigoroso. Dall’altra, la lotta per la vita porta alla selezione e alla sopravvivenza degli organismi “più adatti”.

Per Popper, una volta avanzata, nessuna teoria dovrebbe essere sostenuta dogmaticamente: il metodo di ricerca sostenuto dal filosofo non propone infatti di difenderla ma, anzi, di metterla in discussione, capovolgendola continuamente.

«I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate: sono il solo organo, i soli strumenti di cui disponiamo. E per guadagnare il nostro premio dobbiamo azzardarci ad usarli» (ivi).

Quelli che, al contrario, non espongono volentieri le loro idee perché temono la smentita, secondo Popper «non prendono parte al gioco della scienza» (ivi). Questo perché non è il possesso della conoscenza e della verità indiscutibile “a fare l’uomo di scienza” bensì l’impegno nella ricerca critica, persistente e inquieta, della verità.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Michael Longmire su Unsplash]

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Una citazione per voi: Socrate e la conoscenza

 

• SO DI NON SAPERE •

 

Questa frase, attribuita a Socrate (469-399 a.C.), è certamente una delle asserzioni più note, citate e riportate della storia del pensiero occidentale, al punto da essersi ormai inserita da tempo nel linguaggio quotidiano. Filosoficamente è utile comprenderne il senso originario in vista di una maggior consapevolezza teorica e conseguentemente di una maggior puntualità d’utilizzo.

Platone nell’Apologia di Socrate1 – resoconto che è una libera rievocazione del processo del tribunale ateniese al proprio maestro – principia con il responso dell’oracolo di Delfi il quale, dopo essere stato interrogato su chi fosse l’uomo più sapiente del tempo, aveva risposto facendo propriamente il nome di Socrate. Platone racconta che il maestro, non completamente persuaso da tale affermazione, si era recato presso gli uomini che erano ritenuti sapienti, come per esempio politici, poeti, artisti, intrattenendosi con loro in lunghi dialoghi, scoprendo infine che costoro, pur ritenendosi saggi, non lo erano affatto. Riconoscendo che tutti erano meno savi di lui e attirandosi per questo non poche ostilità, Socrate era dovuto convenire con il responso dell’oracolo: proprio lui era l’uomo più saggio.

Ma in che cosa consiste effettivamente la sua sapienza? Quali sono i caratteri di tale saggezza? Socrate sostiene di aver capito di essere il più saggio proprio perché sa di non sapere, riconosce dunque che la fonte della conoscenza risiede unicamente nella divinità. «Unicamente sapiente è il dio»2, si legge nel racconto platonico. Il filosofo ateniese afferma costantemente di non sapere: riconosce che nel mondo circostante non vi è nulla che gli consenta di sapere, proprio perché il sapere nel senso pieno del termine è legato alla conoscenza ferma, incontrovertibile e rimanda dunque alla verità. Leggi, abitudini sociali, credenze, dottrine filosofiche, principi morali, non sono per Socrate occasioni per “sapere”. In merito Emanuele Severino scriveva che: «dichiarare di non sapere significa dunque che nessuna delle convinzioni umane a lui note gli si presenta come verità»3. La novità intellettuale che l’oracolo gli aveva anticipato e che egli stesso riconosce dopo una accurata ricerca e numerosi confronti, consiste nel fatto che mentre i più non sanno di non sapere, lui lo sa, ne è consapevole. I più vivono scambiando per verità contenuti, credenze, idee che non hanno i caratteri propri della verità che i primi pensatori hanno portato alla luce. Pur non sentendosi “arrivato”, Socrate ha ben chiara l’idea forte della verità che si collega con la ricerca interminabile, con la messa in discussione di tutto ciò che si tende a dare per scontato, con l’analisi e la critica della società4 e il «rifiuto di tutto ciò che si va scoprendo privo di verità»5. Quel saper di non sapere, in cui è radicata la sua sapienza, è il motore del dubbio, del domandare, del porre in questione, del problematizzare ciò che viene smerciato come verità a buon mercato.

Quanto la figura di Socrate e il suo insegnamento in questo senso possono comunicare anche all’uomo del tempo presente. L’intramontabile eredità socratica può ancor oggi stimolare un atteggiamento di ricerca interiore, di parola ragionata, analisi critica del proprio tempo al fine di non rimanere ostaggio delle interpretazioni dominanti. Socrate ci invita ad essere persone che all’ideologia dei punti esclamativi, delle vane certezze, delle illusorie verità del mercato e della demagogia politica, preferiscono i punti interrogativi, l’inesauribile domandare che solo può mantenere vigili le coscienze e attive le menti di ciascuno.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Cfr., Platone, Apologia di Socrate, tr. it. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari, 201818.
2. Ivi, p. 17.
3. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 201710, p. 109.
4. Scrive Severino: “la critica di Socrate alla società è ancor più radicale di quella dei sofisti; e la condanna di Socrate da parte della società ateniese è la naturale reazione e difesa di una società che si sente minacciata nel modo più pericoloso”, Ivi, p. 110.
5. Ibidem.

[Immagine rielaborata da Google Immagini]

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Il “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir: le origini del femminismo contemporaneo

Fino agli anni sessanta/settanta del XX secolo, salvo rare eccezioni, le donne non hanno fatto parte dei dibattiti storici, politici, filosofici o artistici, se non in qualità di esseri subordinati alla supremazia maschile, considerata un fattore naturale.
Uno dei testi principali a fondamento del femminismo contemporaneo è Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, nel quale la filosofa francese solleva la questione dell’impossibilità delle donne di poter scegliere liberamente il proprio percorso di vita. Questo avviene perché vengono catapultate dalla nascita in una dimensione che le induce ad asservire agli obblighi di buone mogli e madri dunque prive di pensarsi come autonome sia nella vita professionale che in quella intellettuale. Tale condizione viene, secondo la de Beauvoir, accettata passivamente dalle donne, le quali sono plagiate da questi ideali che rispondono alla logica del potere maschile:

«L’umanità è maschile e l’uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso […]» (S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 2016).

Inutile affermare che questo testo, pubblicato in prima battuta nel 1948 su Le Temps Modernes, destò non poco scalpore considerando non solo i suoi contenuti, ma anche il fatto che l’autrice facesse parte del circolo degli esistenzialisti francesi, fosse una sostenitrice del libero pensiero e che intrattenesse una relazione aperta con Jean-Paul Sartre. Si pensi, infatti, che in quei tempi la maggior parte delle donne si definiva soddisfatta della propria vita e chi, al contrario, avvertiva un senso di insoddisfazione veniva additata come “isterica”.

Il libro della de Beauvoir si inserisce perfettamente nella corrente esistenzialista e appare come un riuscito esperimento di applicazione di tale corrente filosofica. Infatti, raccontando parallelamente la sua individuale esperienza e quella di altre donne affronta, di fatto, un problema dell’intera umanità, sovvertendo l’ideale comune secondo il quale il sesso potente sia quello maschile.

La scrittrice sosteneva che nella logica comune ambo i sessi tendono a porre come centro di ogni prospettiva il sesso maschile, utilizzando ad esempio la parola “uomo” come termine generico per indicare l’intero genere umano. Questo, chiaramente, fa sì che le donne guardino il mondo che le circonda attraverso la prospettiva maschile, della quale sono esse stesse oggetto e motivo per il quale esse tendono a passare ore davanti allo specchio, rendendosi un chiaro esempio di quella che Sartre definiva “malafede”, ossia oggettivando se stesse:

«Per la ragazza, la trascendenza erotica consiste nell’accettare di farsi preda. Essa diventa un oggetto; si sperimenta come oggetto […]» (ivi).

Nel mondo contemporaneo non si può certo dire che le cose siano cambiate radicalmente: per quanto siano stati fatti considerevoli passi in avanti in favore delle donne, ancora oggi si ritiene che il sesso più sensuale ed erotizzato sia da ricercarsi in quello femminile e sono spesso le donne stesse ad avallare l’idea secondo la quale il corpo femminile sarebbe più desiderabile di quello degli uomini. È importante comprendere come la cultura maschilista abbia ostacolato nel corso del tempo le donne, trasformandole in eterne seconde, ma:

«Farsi oggetto, farsi passiva, è tutt’altra cosa dall’essere un oggetto passivo» (ivi).

Si pensi alle problematiche odierne legate a tale logica e che, ad esempio, continuano a far sì che a parità di lavoro una donna guadagni meno di un uomo o che non venga rispettata la scelta di una donna in carriera di avere dei figli, senza rischiare il licenziamento o peggio la mancata assunzione.
Fortunatamente oggi sono moltissime le donne che credono fermamente nella loro individualità e nella loro assoluta indipendenza, considerandosi primariamente in funzione di se stesse. È più che mai giusto che le donne possano autodeterminarsi, senza assoggettarsi ad una figura maschile; il che non vuol dire che non si possa stare in coppia o crearsi una famiglia, ma che all’interno della coppia ci si possa esprimere non come un surrogato dell’altro, ma, per dirla con Hegel, come individualità in sé per sé.

L’esempio di Simone de Beauvoir, donna libera per eccellenza, deve riecheggiare non solo nella mente femminile odierna, che si sta muovendo sempre più verso la consapevolezza delle proprie risorse, ma ancor di più nella mente maschile, spesso ostile al pensiero che una donna possa non essergli seconda:

«La disputa continuerà finché gli uomini e le donne non si riconosceranno come simili […]» (ivi).

È quindi necessario comprendere l’importanza delle differenze che caratterizzano di natura uomini e donne, affinché si possa educare la società al rispetto e alla considerazione delle stesse come ricchezza e non come unità di misura della superiorità o inferiorità dell’uno sull’altra.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Jake Melara via Unsplash]

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