Il sapere tradizionale oggi e l’opera di Gilbert Simondon

Gilbert Simondon è uno dei filosofi del ‘900 francese più discussi; la sua opera è definita enciclopedica per la vastità di temi affrontati e per l’enorme contributo al dibattito filosofico e scientifico contemporaneo: egli non solo analizza il rapporto che intercorre tra uomo e tecnica ma torna alle radici della riflessione filosofica riformulando un nuovo vocabolario in cui ambito scientifico-pratico e teorico-umanistico si intrecciano.

Il tema della tecnica e del relativo rapporto con l’essere umano, di cui Simondon si occupa nel Du mode d’existence des objets techniques, suo testo più celebre, è ampiamente discusso soprattutto dopo le due guerre mondiali, dal momento che durante gli anni ’40 vi era stato un notevole sviluppo delle biotecnologie, degli studi sulla genetica e delle nuove scoperte nel campo della fisica e della chimica che avevano messo in discussione il sapere tradizionale. L’oggetto tecnico, allora, diventa il cardine del pensiero simondoniano, in quanto simbolo del sapere umano che si concretizza e che racchiude in sé la storia dell’evoluzione umana:

«L’oggetto tecnico individuale non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui c’è genesi. L’unità dell’oggetto tecnico, la sua individualità, la sua specificità, sono i caratteri di consistenza e di convergenza della sua genesi. La genesi dell’oggetto tecnico fa parte del suo essere “umano”. L’oggetto tecnico è ciò che non è anteriore al suo divenire, ma presente a ogni tappa del suo divenire; l’oggetto tecnico uno (sic) è unità di divenire».1

L’essere umano aveva superato limiti che si ritenevano invalicabili, si era posto questioni che avevano ridefinito il suo ruolo nella società e aveva cercato di trovare nuove risposte nelle scienze, incentrando su di esse la riflessione morale e teorica tralasciando però un aspetto importante del sapere: la metafisica.
La metafisica rappresenta il capo da cui ogni scienza prende vita ma il problema, per Simondon, sta nel momento in cui nella storia del pensiero filosofico questa si è estraniata dalle scienze pratiche per chiudersi in sé stessa. La svolta del pensiero simondoniano è aprire le porte a un Nuovo Umanesimo in cui ogni arte, ogni scienza e ogni riflessione sia intrecciata all’altra: l’uomo si riscopre parte del mondo e trova in sé stesso il germe dell’alterità.

Non può esserci alcun progresso nelle scienze se non si tiene presente lo studio dell’essenza dell’essere umano e di ciò che lo circonda, l’uomo non è pura materia ma, come lo definisce Simondon, è un «soggetto transindividuale»: è materia e spirito in grado di intrattenere un rapporto dinamico relazionale con il mondo. Arrivare a un Nuovo Umanesimo vuol dire dimostrare l’inscindibile legame tra le scienze e la riflessione filosofica che grazie alla scienza si rinnova a sua volta nei temi e nei dibattitti.
Simondon non si ferma alla teorizzazione di un Nuovo Umanesimo, ma aggiunge che l’individuo contemporaneo dovrà costruire un Nuovo Umanesimo tecnologico: l’oggetto tecnico (con esso Simondon intende ogni artefatto creato artificialmente) non è altro che il risultato di un processo creativo e normativo necessario all’uomo. Non si può considerare semplicemente l’alienazione dell’individuo da esso e ciò che ne consegue, ma bisogna considerare il rapporto dinamico che l’oggetto stesso instaura con l’individuo come un vero e proprio soggetto relazionale: l’oggetto tecnico ha una matrice umana, da cui nasce, da cui viene creato e che lo permea e grazie a questa acquisisce la capacità di modificare la realtà stessa.

È così che sino agli anni ’90 del ‘900 il filosofo viene ricordato in Francia come il filosofo della tecnica. Ciò è sicuramente riduttivo dal momento che non viene tenuto conto dell’enorme contributo dell’opera e del suo influsso per la metafisica occidentale contemporanea. In ultimo è importante ricordare che la riformulazione del vocabolario filosofico è la base che getta Simondon per rielaborare alcuni concetti cristallizzati come la materia, l’individuo o l’essere: le definizioni non si servono più solo di termini derivanti dal lessico umanistico, ma il filosofo utilizza termini derivanti dalla chimica, fisica e dalla biologia a dimostrare la tesi della sua rivoluzione.

Simondon è ritenuto un pioniere della nuova metafisica occidentale e rivoluziona la riflessione filosofica dimostrando nuovamente la sua universalità e necessaria importanza per il sapere umano, il suo messaggio è di rinnovamento del sapere e ancora oggi è di monito per chi si accinge a parlare di uomo, tecnica e tecnologia.
Ponendo l’accento sulla proposta di rinnovamento del sapere del filosofo, si può affermare, infine, che il filosofo conclude un percorso iniziato con la rivoluzione scientifica in cui l’essere umano si faceva soggetto nel suo mondo; ora l’individuo non solo è soggetto ma è un soggetto agente e relazionale, aperto agli altri di cui si riscopre parte. Questa è l’immagine di uomo contemporaneo che bisognerebbe inseguire, capace di congiungere passato e presente attraverso l’intreccio della storia del sapere e delle idee che lo formano e lo hanno formato.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, 2012, pp. 60 -61.

[Photo credit Ramòn Salinero via Unsplash]

la chiave di sophia

Martin Heidegger e l’origine dell’opera d’arte

Martin Heidegger ha sempre privilegiato momenti alternativi a quelli dell’argomentazione filosofica tradizionale, quali la meditazione sul linguaggio e sull’esperienza della verità nell’arte. Questo atteggiamento trova espressione nel saggio L’origine dell’opera d’arte, che risale agli anni Trenta ma che viene pubblicato nel 1950. Nello scritto si trova il cuore della riflessione heideggeriana sull’arte attraverso l’indagine sul nesso tra arte e verità, anche se il suo contenuto viene rigorosamente determinato dal problema dell’essere. L’essere rimane infatti la questione da pensare sia nel “primo”, che nel “secondo” Heidegger e la posizione di questo saggio è di fondamentale importanza, poiché in esso il filosofo scopre un luogo concreto in cui poter fare esperienza dell’essere in quanto tale, nonché del suo carattere epocale (svelante).

per Heidegger l’opera d’arte, che si tramanda di epoca in epoca, non è riducibile a un unico significato, ma, al contrario, si può tradurre in modi sempre diversi. Persino la totalità dei significati assunti in tempi diversi non può racchiudere il suo senso ultimo, altrimenti non avrebbe più niente da dirci. Nell’opera d’arte non vi è mai nulla di completamente chiaro: luce e oscurità, velatezza e dis-velatezza, tra loro inscindibili, sono i caratteri che la rendono vibrante e che dispongono l’uomo all’ascolto e alla meraviglia di fronte ad essa. È importante ricordare che il titolo L’origine dell’opera d’arte non deve essere inteso come l’annuncio di una ricerca per determinare ciò da cui l’opera d’arte ha origine; esso indica piuttosto che l’opera d’arte è un’origine, nella misura in cui è il mondo che essa stessa apre e illumina. Heidegger tenta dunque una considerazione alternativa rispetto all’estetica tradizionale, che interpreta fenomeni quali bellezza, poesia e arte solamente in riferimento all’uomo come soggetto, levandogli portata ontologica.

Intraprendere la ricerca dell’essenza dell’opera d’arte, seguendo le opinioni comuni accettate, conduce a quello che Heidegger nei primi paragrafi chiama “un circolo vizioso”, da cui però il filosofo non intende uscire, ritenendo coerente sostare in esso e nella contraddizione da esso evidenziata: «Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un riepilogo, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero»1. Per comprendere l’essenza dell’arte, Heidegger parte allora dal concetto di “cosa”, dato che l’opinione comune considera l’opera d’arte come una cosa, dotata, in più, di valore estetico. Successivamente il filosofo passa alla nozione di mezzo, che sembrerebbe intermedia fra quella di cosa e di opera, per poi scoprire che non è la comprensione della cosa a spiegare l’opera d’arte, ma, al contrario, è la comprensione dell’opera d’arte che permette di capire il significato della cosa.

Heidegger abbandona quindi le opinioni correnti sulla cosità dell’opera d’arte, poiché è la stessa opera d’arte che rivela l’essere cosa della cosa ed è sempre in virtù di essa che si svela l’essenza del mezzo. La tesi di Heidegger è che, nello stesso momento in cui si è in presenza di un’opera d’arte, le cose cessano di funzionare e appaiono nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose. Possiamo affermare, a questo punto, che l’arte è il porsi in opera della verità: «È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità»2. Se l’arte ha dunque fondamentalmente a che fare con la verità, di conseguenza la meditazione sull’arte assume i lineamenti di una speculazione ontologica che realizza una riformulazione del problema dell’essere e dell’ente. L’arte, secondo il filosofo, è un evento che fonda la verità come accadimento, ovvero come qualcosa che si dà storicamente. A ben vedere, allora, l’opera d’arte non appartiene semplicemente a un mondo, ma lo istituisce ed è alla base della sua fondazione.

Questa fondazione o apertura, però, rappresenta soltanto uno dei due momenti, inscindibili e correlati tra loro, di quell’evento di verità che è l’opera d’arte, quello che Heidegger chiama “Mondo”. Infatti, nel suo semplice schiudersi e venire alla luce, l’opera d’arte porta con sé il suo mondo storico e il suo fondamento, ciò che chiama “Terra”. La Terra è il chiuso rispetto all’aperto del mondo, attorno al quale si dispiegano i rapporti che costituiscono l’abitare storico: «Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo»3. Il rapporto tra Mondo e Terra viene visto da Heidegger come una lotta. «Sarebbe però una banale falsificazione di questa lotta se la si intedesse come contesa e rissa»4 poiché entrambi gli elementi occorrono l’uno all’altro per potersi manifestare: il Mondo necessita del terreno su cui edificarsi, mentre la Terra, per potersi indirettamente svelare, abbisogna del Mondo.

Questa lotta tra Mondo e Terra, che si gioca nell’alternarsi di nascondimento e di svelamento, costituisce, secondo il pensatore tedesco, l’essenza della verità. Si tratta della verità intesa come non-nascondimento, «nel ripensamento della parola greca a-lètheia»5 o, secondo il termine tedesco che usa Heidegger, “Lichtung”: verità nel senso di spazio illuminato all’interno di una zona oscura. Nell’uso heideggeriano del termine “Lichtung” c’è il rimando metaforico alla radura del bosco rischiarata dai raggi del sole e alla foresta buia. Infatti Heidegger insiste non solo sulla luminosità, ma anche sull’oscurità che la circonda.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, p 4
2-3-4-5. Ivi, p. 23, p. 31, p. 34, p. 36

[Photo credit unsplash.com]

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Il “De rerum natura” di Lucrezio

Il De rerum natura (Sulla natura delle cose) è l’unica opera che abbiamo di Lucrezio – conservata integralmente da due codici del IX secolo denominati per la loro forma O (Oblongus) e Q (Quadratus) e riportata alla luce dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1418 – ed è la prima opera di poesia didascalica della letteratura latina. Pietra miliare della storia del pensiero occidentale per l’afflato universale di quel Lucrezio “relativamente ottimista”, secondo l’analisi di Francesco Giancotti (1989), o al contrario poeta dell’angoscia, secondo le riflessioni di Luciano Perelli (1969).

Articolato in sei libri e composto in esametri, il poema, sin dal titolo – che traduce l’opera più importante di Epicuro, Sulla natura appunto – intende divulgare l’epicureismo, dottrina eversiva e antitradizionalista che invitava al disimpegno dall’attività pubblica (si pensi al làthe biósas di Epicuro, cioè “vivi in disparte”) e al piacere, inteso come sommo bene intellettuale cui pervenire mediante l’atarassia, cioè l’assenza di turbamenti. Inoltre, altri cardini dell’epicureismo erano sostenere che gli dei esistono ma non intervengono nelle vicende umane e non fare alcuna distinzione tra religio e superstitio. Ciò viene esemplificato nel primo libro (vv.62-101) dove Lucrezio sceglie il sacrificio di Ifigenia come exemplum per affermare i delitti della religione: « […] la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione […] fu proprio la religione a produrre scellerati delitti […] Tanto male poté suggerire la religione».

Riprendendo modelli antichi quali Esiodo ed Empedocle, sebbene Epicuro avesse condannato la poesia come fonte di inganni che allontana dalla comprensione razionale dell’universo, Lucrezio sceglie la poesia epico-didascalica per raggiungere anche gli strati più alti della società – proprio quelli che non si erano opposti all’influenza della cultura greca – e perché considera la dolcezza dei versi un antidoto all’amara medicina della filosofia, come spiega ad esempio nel proemio del quarto libro: «Come i medici quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa fino alle labbra  e intanto beva l’amaro succo dell’assenzio […] così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica  […] ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio e quasi aspergerle del dolce miele delle Muse» (vv.10-25).

Lucrezio indaga le cause dei fenomeni, esortando il lettore-discepolo a seguire un percorso educativo, proponendogli una verità sulla quale lo chiama a prendere posizione e sostituisce alla retorica del mirabile la retorica del necessario, articolando spesso le sue argomentazioni intorno alle formule non est mirandum, nec mirum, necesse est (non c’è da meravigliarsi, è necessario) cioè i fenomeni della natura sono necessariamente concatenati tra di loro e connessi con una serie di cause oggettive. Altra cifra stilistica propria del poema è il sublime: gli scenari e i toni grandiosi sono volti a spronare il lettore affinché sia specchio della sublimità dell’universo, affinché si emozioni per la natura e affinché sia egli stesso un eroe come Epicuro, che ha liberato l’umanità dai terrori ancestrali.

Con vivace concretezza espressiva, quasi con una percettibilità corporale della vasta gamma di esempi esplicativi volti a illustrare l’argomentazione astratta, da un punto di vista contenutistico l’opera tratta l’origine della vita sulla terra e la storia dell’essere umano. Né gli animali né gli uomini sono stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze come il calore e l’umidità del terreno; il nostro mondo, nato dall’aggregazione di atomi che si muovono nel vuoto e si urtano tra di loro, è un casuale circuito di nascita e di morte e anche l’anima non si sottrae ai processi di disgregazione e muore con il corpo. Afferma così il poeta filosofo nel terzo libro (vv.839-842):

«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale […] quando non esisteremo più e si produrrà la separazione del corpo e dell’anima […] di certo nulla potrà accadere a noi che allora più non saremo […]».

L’opera è maestra anche per l’uomo contemporaneo; Lucrezio si contrappone alle visioni teleologiche del progresso umano e confuta la tesi stoica della natura provvidenziale: non c’è stata nessuna mitica età dell’oro, la natura è matrigna, segue le sue leggi e nessun dio può piegarla alle esigenze dell’individuo. Egli inoltre valuta positivamente il progresso materiale se volto al soddisfacimento dei bisogni primari, lamenta invece con una visione sconsolata la decadenza morale che il progresso porta con sé e che fa sorgere bisogni innaturali come l’ambizione e la guerra che corrompono la vita dell’uomo, che avrebbe invece bisogno di poche cose, secondo la dottrina epicurea.

 

Rossella Farnese

 

[photo credit Robert Lukeman via Unsplash]

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Plutarco e l’arte della calma

«Ciascuno di noi ha in sé gli scrigni della serenità dell’anima e dell’inquietudine, e proprio la diversità degli stati d’animo dimostra che i vasi del bene e del male non giacciono sulla soglia di Zeus ma nella nostra anima»1.

Potremmo riassumere così il pensiero plutarcheo contenuto all’interno dell’opera dedicata alla tranquillità d’animo: La Calma. All’interno di questo testo Plutarco, scrittore e filosofo greco nato nella piccola città di Cheronea intorno al 46 d.c., delinea quella che potremmo definire come un vero e proprio itinerario verso la tranquillità d’animo. L’autore fornisce infatti tutta una serie di consigli pratici rivolti soprattutto alla prevenzione e all’insorgere di stati d’ansia e turbamenti eccessivi. Questo perché ansie, angosce e paure sono tutti stati d’animo che quotidianamente o meno affliggono le nostre menti impedendoci di vivere una vita felice e a pieno delle nostre capacità.

È vero, tutti noi siamo già a conoscenza di piccoli rimendi o trucchi in grado di arginare temporaneamente queste situazioni, ma nella maggior parte dei casi essi non bastano e restiamo profondamente delusi quando non riusciamo a protendere nel tempo la nostra serenità. Alcune persone, infatti, per natura più sensibili, ne risentono maggiormente quindi per loro può risultare più complicato che per altri sentirsi in pace e tranquilli.
E allora che fare? Come affrontarli al meglio impedendo che la nostra salute emotiva ne risenta eccessivamente?

Secondo Plutarco, una delle motivazioni principali per le quali questi stati d’animo insorgono risiede nel fatto che troppo spesso compiamo degli errori di valutazione che nella maggior parte dei casi ci portano a ritenere ad esempio, che la fonte della nostra tranquillità e della nostra felicità risieda nelle cose esterne, quando essa dipende solo ed esclusivamente dal nostro stato d’animo e dalla maniera nella quale decidiamo di affrontare le cose.

È quindi inutile cercare all’esterno tanto i responsabili quanto i rimedi della nostra irrequietezza: «come, dunque, potrebbe venirci un qualche aiuto dalle ricchezze o dalla fama o dall’autorità in assemblea per raggiungere la pace dell’anima e una vita non tempestosa, se l’uso di tali beni non porta massimo piacere a coloro che li possiedono ed anzi sempre si accompagna ad essi il rammarico per tutti gli altri beni che non si hanno?»2.

Ma non solo, anche il guardare troppo ai nostri difetti dimenticandoci dei beni presenti di cui disponiamo o il dolersi delle cose perse e il non saper godere di quelle superstiti, come del resto anche il trascurare i beni comuni non tenendo conto del fatto che siamo vivi e che godiamo di buona salute sono da ritenersi responsabili di ciò.

Quello che occorre fare, come scrive il filosofo greco in La calma appunto, è riabilitare il nostro erroneo modo di pensare, preparandosi per tempo, senza attendere di arrivare, come troppo spesso facciamo, all’insorgere di uno stato di turbamento, in quanto allora sarà troppo tardi: le passioni avranno già preso il sopravvento sulla nostra ragione e placarle risulterà ormai quasi impossibile.

«Come infatti i cani […], se da un lato si agitano a qualunque grido, dall’altro sono placati solo dalla voce loro familiare, così anche i dolori dell’anima, una volta che si sono svegliati, non è facile farli cessare, se ragionamenti ormai familiari e consueti non intervengono a frenare quelli nuovi che si stanno sollevando»3.

Ecco allora l’invito rivolto a ogni uomo ad organizzare durante i periodi di tranquillità un piccolo repertorio, una piccola “cassetta degli attrezzi”, composta di ragionamenti utili per vincere le passioni, da utilizzare nel momento del bisogno. Ed è proprio nella costruzione di tale repertorio che la filosofia, con le sue analisi e continue domande fornisce il massimo aiuto. Questo perché nella visione di Plutarco il compito primo della filosofia e in particolar modo dell’etica, è quello di condurre l’uomo sulla via della virtù e della vera felicità attraverso lo sviluppo della ragione, intesa come guida essenziale e necessaria della nostra parte passionale-emozionale-irrazionale.

Quindi, ascoltate Plutarco, guardatevi dentro ed individuate la fonte di serenità e di calma già presente in tutti noi. Solo accogliendo con positività qualunque risultato ci venga dalla sorte e assegnando a ogni cosa un posto tale per cui, sia ciò che è utile sia ciò che è indesiderabile possa giovarci, saremo in grado non solo di ricavare gioia e piacere dalle cose esterne, ma anche dalle situazioni più amare sapremo trovare qualcosa di conveniente ed utile per tutti noi.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

NOTE:
1. Plutarco, La Calma, p. 49.
2. Ivi, p. 33.
3. Ibidem.

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Hybris alimentare: mangiare carne secondo Plutarco

Se qualcuno ancora pensa che la questione del non mangiare carne animale sia una moda nata non più di qualche decennio fa, occorre che sia prontamente smentito. Sono molti gli intellettuali della storia che hanno deciso di privarsi della carne o che si sono dichiarati pubblicamente contrari, tra cui Tolstoj, Leonardo, Darwin, Gandhi, fino a Plutarco e ancora prima a Pitagora.

Al tema Plutarco, autore e filosofo greco del I secolo d.C, ha dedicato tre scritti contenuti nei Moralia, gli scritti morali. I componimenti, secondo la lettura che ne dà il critico Dario Del Corno, intendono «promuovere una rivalutazione dell’universo animale, che sia ispirata da criteri di giustizia, comprensione e solidarietà, tali da contrastare nell’abitudine degli uomini gli impulsi allo sfruttamento e alla crudeltà» (Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, Adelphi 2001, p. 34). I tre scritti non possiedono un piano omogeneo e affrontano la questione con una propria prospettiva, uno stile e un espediente narrativo diversi.

Il primo, Sul mangiare carne, è una polemica contro l’uso alimentare della carne, avvalorata anche dalla teoria pitagorica della metempsicosi1 (ma senza elevarla ad argomentazione principale). Nel secondo, Gli animali usano la ragione, la cosa interessante è che a perorare la causa sia un maiale, uno dei compagni di Ulisse trasformato in animale da Circe, Grillo, che della sua nuova condizione non si dispiace poi tanto. L’ultimo s’intitola Tra gli animali sono più intelligenti i terrestri o gli acquatici? ed è un dialogo sul modello platonico tra più personaggi. L’idea di Plutarco qui è che gli animali siano dotati di ragione, benché “imperfetta” rispetto a quella dell’essere umano, e che tra i tanti animali esiste semplicemente una differenza di grado.

Ciò che colpisce, soprattutto i più scettici, è che se non si sapesse nulla di Plutarco e ci si tuffasse nella lettura, si potrebbe anche pensare che sia vissuto poco tempo fa. Il motivo è la straordinaria attualità delle sue principali argomentazioni.

La prima riguarda l’uso smodato della carne da parte dei suoi contemporanei, una vera e propria «hybris alimentare» come la definisce ancora Dario Del Corno, scrivendo che Plutarco manifesta il suo sgomento nel trovarsi «al centro di un’attualità devastata dal delirio del consumo […] un’epoca che ha scelto di abbandonare la via maestra della natura e della misura, lasciandosi travolgere dall’ansia dell’eccesso» (ivi, p. 17). In sostanza, ci dice il pensatore greco, siamo ben lontani da quegli esseri umani che si nutrivano di animali per necessità e che la fame portava a fare qualcosa di contrario alla loro natura. «Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo siete spronati ad avere sete di sangue, voi che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza?» (ivi, p. 57). E ancora: «ancora più terribile è vedere […] che gli avanzi sono più abbondanti di quanto è stato consumato. Queste creature dunque sono morte inutilmente!» (ivi, p. 60). Plutarco punta il dito contro i suoi contemporanei e li taccia di tracotanza (hybris): non uccidete per necessità ma per diletto, «per mangiare in modo più raffinato», un atto insolente, ingiusto, eccessivo, ingiustificabile. Sono parole scritte quasi duemila anni fa ma si sposano perfettamente nel mondo contemporaneo occidentale in cui finisce nel cestino quasi il 40% di quello che si produce a livello alimentare2.

Ma perché dovrebbe essere “ingiusto” cibarsi di carne? E qui arriviamo alla seconda argomentazione di Plutarco, secondo il quale gli animali sono dotati di ragione, sebbene non come quella dell’essere umano che è perfezionata «dalla cura e dall’educazione». Chi più chi meno, così come tra noi umani, gli animali hanno ragione, provano sensazioni, hanno coraggio, amore, viltà, socialità, paura, astuzia, stoltezza. Lo asserisce facendo numerosissimi esempi in tutti e tre gli scritti, echi di neonata zoologia. Ma Plutarco va anche oltre: gli animali sono più virtuosi degli uomini, ed ecco perché il greco Grillo preferisce la sua forma di maiale. Sono più virtuosi dell’uomo perché «la vita di noi animali è governata in genere dai desideri e dai piaceri necessari, mentre con quelli non necessari ma soltanto naturali abbiamo un rapporto che non conosce sregolatezza né eccesso» (ivi, p. 92). La soddisfazione dei piaceri dunque non ha a che fare con la violenza. «Se poi credete che non si debba chiamarla ragione né intelligenza,» conclude il filosofo «è il momento di cercare un nome più bello e più onorevole per definirla» (ivi, p. 98).

«Non è semplice estrarre [dall’essere umano] l’amo del mangiare carne, impigliato e conficcato com’è nella brama del piacere» scrive Plutarco; ma nel 2021, quando il consumo di carne è così strettamente legato anche alla crisi climatica e sociale che ne consegue, vale la pena renderlo un costante argomento di conversazione.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.La reincarnazione, la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro.
2.Si riporta una delle innumerevoli fonti. L’industria della carne si pregia di essere la virtuosa in termini di sprechi: solo il 5% di ciò che viene buttato dal consumatore. Sarebbe utile consultare qualche dato sullo spreco durante la filiera, anche se l’utilizzo degli scarti di macellazione come ossa, teste, organi ecc. vengono effettivamente reimpiegati in altre industrie.

[Photo credit unsplash.com]

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Essenza e forme della simpatia di Max Scheler

Nel corso del Settecento è stata alla base dell’etica di David Hume e Adam Smith. E, nell’ambito della filosofia contemporanea, il filosofo Max Scheler le ha addirittura dedicato una intera opera. Deriva dal greco sun “con” e pàschein, “patisco, subisco”. Quindi “patire insieme” o “provare un’emozione con”.
Stiamo parlando della simpatia, cioè dell’interdipendenza delle cose, che si influenzano reciprocamente. Quando applicata all’ambito umano, indica la possibilità di un individuo di condividere, o almeno comprendere, emotivamente le esperienze degli altri.

Diversa dall’amore o dalla fusione emotiva, per Scheler si può provare simpatia o compassione per un dolore altrui, senza per questo provare questo stesso dolore. Si può partecipare al sentire dell’altro senza però provarlo direttamente.

«Ciò che noi, attraverso la percezione dell’altro, non potremo mai “percepire” sono soltanto gli stati del corpo vissuti dall’altro, cioè soprattutto le sensazioni degli organi e i sentimenti sensoriali ad essi connessi»1.

Quindi, di fronte allo stato di sofferenza in cui si trova immerso un altro soggetto non potremo rivivere il medesimo dolore, che inevitabilmente, essendo vincolato a quel determinato corpo e a quella determinata vita, ci è inaccessibile.
Ma la simpatia rimane essenziale per la comprensione degli altri e il riconoscimento dell’alterità delle persone. Questo perché si pone come disposizione attraverso cui noi possiamo farci carico, condividendolo, uno stato emotivo appartenente ad un altro soggetto. Si dà simpatia quando le emozioni vissute da una persona provocano una certa risonanza, originando così uno stato di “sentimento condiviso”.

In Essenza e forme della simpatia, opera pubblicata nel 1913 ma profondamente rivista e ampliata in occasione dell’edizione del 1923, Scheler parla della simpatia, considerata per lungo tempo un sentimento morale e identificata con la compassione, nonché assurta con Darwin a origine della socialità umana e della morale, in maniera opposta alla tradizione.
Per Scheler, essa rappresenta uno dei nodi cruciali e articolati dell’esperienza: si costituisce attraverso l’apertura al mondo e ai suoi significati, con un movimento di superamento dei confini dell’io e di ricezione, risposta, partecipazione e condivisione di ciò che è altro. La simpatia diventa così accesso al mondo, alle persone e alle cose.

Ma la stessa simpatia, come spiega Scheler, ha diverse forme: è co-sentire ma anche contagio, ad esempio. Se nel primo caso noi prendiamo parte alla sofferenza o gioia dell’altro volontariamente e consciamente, nella forma del contagio invece siamo come trascinati involontariamente e inconsciamente a provare quella determinata gioia o sofferenza nella misura in cui avvertiamo il pathos dell’altro come nostro.
Caso ancora diverso è quello dell’unipatia, fenomeno per il quale ci indentifichiamo in maniera completa involontariamente e inconsciamente con un altro soggetto, non limitandoci a considerare come nostro un vissuto altrui, come invece accade nel contagio, ma facendo del nostro io un tutt’uno con quello altrui.

«La genuina unipatia del proprio io individuale con un altro io è solo un’accentuazione, per così dire, un caso limite del contagio. Qui infatti un determinato processo affettivo altrui non solo vien considerato inconsciamente come se fosse proprio, ma anche l’io altrui viene addirittura identificato con il proprio io. Anche qui, l’identificazione è tanto involontaria quanto inconscia»2.

Nell’opera scheleriana, tra gli scritti più importanti dedicati dal filosofo alla costruzione fenomenologica di una filosofia della persona, si parla anche di amore, ovvero di ciò che è interamente diretto ai valori positivi della persona. E che, in quanto tale, è base essenziale dei rapporti autentici.
Il filosofo propone al lettore una chiara differenza tra amore e simpatia. Il primo si differenza dalla seconda perché è riferito a un valore e per sua stessa natura non può essere mai “simpatia con se stesso”. Inoltre, l’amore non è un “sentire”, una funzione, ma un atto spirituale, un movimento. Secondo Scheler, ha un senso trattare l’amore e l’odio come moti dell’animo e non come sentimenti o affetti perché questi ultimi comportano un riferimento al sentire e, di conseguenza, a una condizione di passività che l’amore, in quanto attivo, non conosce.
Se quindi, ad esempio il com-patire, forma di simpatia, è un portare insieme all’altro una sua gioia o una sua sofferenza, l’amore e l’odio sono invece un’azione verso di lui.

Secondo Scheler, ci è data la possibilità di amare (o odiare) qualcuno indipendentemente da quello che l’altro sta provando. Per questo amore e odio non scaturiscono come risposta a un sentimento provato dall’altro ma spontaneamente. Il sentire su cui si fonda la simpatia è invece un acquisire, sia il senso dei valori sia quello degli stati come il patire, il sopportare, il tollerare.

E se l’amore è, soprattutto, un atto spontaneo – e lo è anche nell’amore ricambiato, «qualunque possa esserne il fondamento»3 – ogni simpatia, al contrario, è un comportamento reattivo. Eppure, ogni simpatia è in sé fondata su un amore, e cessa qualora venga a mancare d’un qualsiasi amore. Ma nonostante questo, si può provare simpatia per un individuo particolare, senza per questo amarlo.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, trad. it. a cura di Laura Boella, FrancoAngeli, Milano 2012, pag. 239.

2. Ivi, pag. 51.
3. Ivi, pag. 152.

[Photo credit Toa Heftiba via Unsplash]

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Non c’è amore che non sia naturale: l’omosessualità nel “Simposio” di Platone

Tutti noi conosciamo, almeno per sentito dire, l’espressione amore platonico, talvolta abusata ma comunque divenuta parte del linguaggio ordinario anche di chi non sa cosa significhi e da dove provenga. Essa trova la sua massima formulazione nel Simposio1, un dialogo di Platone tra i più noti, sul quale si è detto e teorizzato tanto. Ha attraversato in lungo e in largo i secoli, imbevendo delle sue magnifiche parole sull’Amore pagine e pagine di filosofi, pittori e letterati. Eppure non sempre ha trovato spazio un momento specifico del Simposio: il discorso di Aristofane.

Conosciamo molto bene il punto più alto dell’opera, il grande discorso di Socrate che, riportando le parole della sacerdotessa Diotima, ci racconta della natura doppia di Eros, figlio di Poros (espediente) e Penìa (povertà). Questi si troverebbe a metà tra il mortale e il divino, sarebbe cioè un daimon, e consisterebbe nel desiderio di qualcosa di bello e buono che ancora non si possiede. Ma che dire di quanto vien detto prima di questa perspicua sezione del dialogo? Tra i tanti partecipanti del convivio dedicato all’Amore in occasione dei festeggiamenti della vittoria del poeta tragico Agatone, prende infatti parola Aristofane, il commediografo noto per la sua avversione nei confronti di Socrate.

Ed in effetti le sue parole son tutto meno che insignificanti. Nell’arco testuale 189A-193E si parlerà di Eros con una bellezza ed una salienza che verrà eguagliata solo dalle parole di Socrate. Per parlarci dell’Amore, Aristofane si avvale di un mito noto come mito degli androgini. In origine – ci dice il commediografo – esistevano tre sessi di uomini: i maschi, le femmine e gli androgini, composti per metà dal maschio e per metà dalla femmina. Del tutto autosufficienti e a sé bastanti, tali uomini erano così pieni di sé da sfidare gli dei, peccando di hybris e portando Zeus all’estrema decisione di folgorarli e scinderli in due individui destinati a un agognato destino: cercare in lungo e in largo la propria metà. Eros diviene così una tensione all’Unità, la nostalgia di un’interezza perduta e mai più ritrovabile, giacché, anche se in comunione, le due parti non produrranno mai un intero indissolubile, essendo il Tutto maggiore della somma delle parti.

«Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore del uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura» (191D).

Non solo il mito degli androgini si rivela stimolante e suggestivo, ma ci permette di fare un passo in avanti verso un’altra considerazione. Per la prima volta nella storia della filosofia, infatti, Platone sembra offrire una legittimazione all’omosessualità senza che questa passi per promiscuità, disadattamento o deviazione. Anzi, è lo stesso Platone a parlare dell’amore come ricerca dalla propria originaria natura: non c’è nulla di più normale dell’uomo che cerca il suo uomo o della donna che cerca la sua donna. È vero, d’altra parte, che il mito degli androgini si chiude alla possibilità della bisessualità, non contemplando un soggetto che tenda a due nature, a due generi. Non è tanto interessante la centralità dell’amore omosessuale, che in Platone, coerentemente con l’ethos greco classico, trova spazio in svariati scritti (compreso lo stesso Simposio, se pensiamo alle parole messe in bocca a Pausania, che fa un elogio dell’amore tra uomini dello stesso sesso e un’apologia della pederastia, altra pratica amorosa tipica dell’antica Grecia). Semmai è interessante la razionalizzazione filosofica, la volontà di legittimare sia in forma mitica che in forma teorica l’unione omosessuale come sana, naturale e principio di felicità. Addirittura leggiamo, a proposito dell’amore tra uomini dello stesso sesso:

«In verità, alcuni sostengono che sono degli impudenti. Ma mentono, perché essi non fanno questo per impudenza, ma per arditezza, per fortezza e per virilità, in quanto hanno inclinazione verso ciò che è simile a loro. […] E quando siano diventati uomini si innamorano dei ragazzi e non si preoccupano delle nozze e della procreazione dei figli per loro natura, ma sono costretti a far questo dalla legge» (192B).

Stupisce, insomma, che non è tanto una necessità naturale, quella dell’unione eterosessuale, né lo è la procreazione, quanto una norma giuridica, un prodotto dell’ethos della polis, in altre parole una convenzione. Insomma, nel Simposio e nelle parole di Aristofane, l’omosessuale trova una prima illuminante illustrazione della sua normalità. È reso ordinario, naturalizzato e, soprattutto, ospitato dal discorso filosofico. Perché che si sia uomini o donne, il risultato non cambia, l’Amore rimane tensione all’Unità, desiderio, da due, di diventare uno solo, al di là di ogni tabù.

 

Nicholas Loru

 

NOTE
1. L’edizione adottata è: Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017.

[Photo credit Hush Naidoo via Unsplash]

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Oltre la linea: Jünger e Heidegger sul nichilismo

Oltre la linea (Über die Linie) è scritto da Jünger nel 1950 in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, che gli risponde nel 1955, e oggi il testo completo della corrispondenza è pubblicato in una breve opera.
Il testo di Jünger vuole essere un omaggio all’autore che aveva rivoluzionato il lessico filosofico moderno ed aperto a nuove riflessioni sulla metafisica e sul Nichilismo dei valori e del senso. Heidegger aveva anche a lungo studiato e discusso i testi di Nietzsche e nel momento in cui legge il Nichilismo Europeo si dice “distrutto”. Ciò lo spinge a riprendere il dibattito sul tema portandolo anche all’attenzione dei suoi allievi a metà degli anni ’40 in diversi corsi all’Università di Berlino.

La linea citata nel titolo è il limite simbolico che una volta varcato potrebbe portarci al di là della condizione nichilistica storica che viviamo; di particolare importanza è la particella iniziale über che rimanda all’attraversare: sebbene la particella possa rimandare ad un attraversamento completo, ciò che intende Jünger è la possibilità di poter attraversare la linea restando quasi in biblico sul limite e dando uno sguardo dall’alto alla condizione storica che si sta vivendo.

«L’attraversamento della linea, il passaggio dal punto zero, indica il punto mediano non la fine. La sicurezza è ancora molto lontana» (M. Heidegger, E. Jünger, Oltre la linea, 1950).

Le domande che inevitabilmente verranno a porsi saranno: è possibile questa transizione ipotizzata dal filosofo o la soluzione migliore è accettare di vivere in una condizione storica nichilistica? Quale è la soluzione che ci porta alla transizione, e la storia che ruolo ricopre?

Afferma Jünger nella prima parte del testo: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione costante di sfuggirne conosce ben poco la nostra epoca» (ivi). Il niente di cui parla il filosofo è l’assenza di meraviglia dell’individuo moderno, il quale sembra essersi assopito: gli manca il contatto con le arti, con i valori, manca la fiducia nelle idee. L’essere umano moderno è stato dilaniato dalle guerre mondiali ed ora cerca di ricostruirsi attraverso il progresso della tecnica, ma nel farlo perde il contatto con l’Assoluto1. L’unica speranza per andare attraverso la linea è recuperare il rapporto con le arti, perché solo attraverso queste l’individuo può recuperare anche il dialogo con sé stesso. Le contingenze storiche lo hanno messo alla prova ponendolo dinanzi al pieno Nichilismo dei valori; ciò nonostante il filosofo è speranzoso e fiducioso in questa nuova rivoluzione a cui il soggetto moderno dovrà dare vita.

La risposta di Martin Heidegger non si fa attendere, ma si discosta da ciò che aveva prospettato Jünger: il Nichilismo, non si può varcare né attraversare, non si può guardare dall’alto perché ne faremo sempre parte, l’esperienza del niente fa parte della vita dell’uomo perché è parte essenziale della sua storia:

«La pietra di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del Niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia e dalla storia» (ivi).

L’individuo deve farsi carico del Nichilismo avendo la consapevolezza che l’ospite più inquietante, come lo definì Nietzsche, non potrà mai essere messo alla porta ed anzi la sua esperienza è ciò che profondamente caratterizzerà la vita di ognuno. Il compito del filosofo sarà guidare l’individuo nel percorso che lo porterà ad accettare e vivere la sua condizione attraverso la riflessione, il dialogo, l’analisi. Vivere nichilisticamente significa accettare che non c’è alcun legame con l’Assoluto, tutto è umano ed è solo il singolo che definisce il senso e il valore al mondo che lo circonda; tutto sembra essere umano, forse troppo umano.

L’opera ci porta a riflettere sulle possibili soluzioni al Nichilismo imperante nell’epoca contemporanea e senz’altro il suo merito è di darci la possibilità di indagare il problema dell’analisi del Nichilismo da due punti di vista. Da un lato la necessaria accettazione di esso; dall’altro il dover recuperare ciò che sembra essere perso anche oggi: la fede negli ideali, il rapporto con l’arte e il dialogo con noi stessi, l’unico mezzo attraverso cui possiamo rapportaci agli altri. Infatti, sebbene il Nichilismo non sia superabile, è possibile però accettarlo e vivere nella storia e facendo la storia, una storia che si costruisce con l’altro.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. L’Assoluto di cui parla l’autore si deve intendere come uno Spirito Trascendente che pervade la storia e la pervade di senso, strettamente collegata a questa concezione è la teoria dell’arte come salvifica essendo uno dei mezzi attraverso cui questo si manifesta.

[Photo credit Artyom Kabajev via Unsplash]

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“L’arte della guerra” e l’importanza di affrontare i conflitti

Non sono molte le opere che riescono ad attraversare lo spazio e il tempo e a conservare ancora oggi quella saggezza antica capace di guidarci nella nostra quotidianità. Una di queste è sicuramente l’Arte della Guerra o Sun Tzu1.
Scritto in Cina trecento anni prima della nascita di Cristo, il Sun Tzu è considerato ad oggi come uno dei più antichi trattati di strategia militare e non solo. Esso, infatti, non si limita a dare esclusivamente consigli su come sconfiggere i nemici sul campo di battaglia, ma insegna anche a gestire, in modo profondo e non distruttivo, tutti quei conflitti nei quali ognuno di noi è quotidianamente impegnato.

Nel corso dei secoli quest’opera conobbe un grande successo e fu in grado di modellare il pensiero strategico di tutta l’Asia orientale, grazie anche all’introduzione di una prospettiva radicalmente nuova secondo la quale era possibile portare un esercito alla vittoria senza combattere. Sì, avete capito bene: vincere senza combattere. Secondo il Sun Tzu la vera forza di un generale sta nel conquistare senza aggredire, sia esso un conflitto esteso o limitato, personale o nazionale. Questo perché per il Sun Tzu conquistare il nemico intero ed intatto significa conquistarlo in modo da mantenere, per quanto possibile intatte, sia le nostre risorse che quelle avversarie. Tale tipo di vittoria lascia infatti in vita qualcosa su cui poter costruire, mentre la distruzione lascia solamente dietro di sé devastazione; non solo per la parte sconfitta, ma anche per i conquistatori che cercheranno di imporre a tutti i costi la loro “pace”. La vera vittoria, quindi, è la vittoria sull’aggressione, una vittoria che rispetti l’umanità del nemico rendendo così inutile un ulteriore conflitto.
In uno dei distici più famosi leggiamo infatti:

 «Perciò, ottenere cento vittorie in cento battaglie non è prova di suprema abilità.
Sottomettere l’esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità»
(L’arte della guerra, 2014).

Nel corso dell’ultimo mezzo secolo questo “manuale” è diventato un testo fruibile per tutti coloro che desiderano cambiare il proprio modo di affrontare i conflitti, siano esse guerre, contese in affari o semplicemente questioni di vita quotidiana. Questo perché la saggezza del Sun Tzu parte da una verità di fondo: il conflitto è una componente integrante della vita umana, in quanto esso si trova costantemente dentro ed intorno a noi. Talvolta riusciamo abilmente ad evitarlo, è vero, ma la maggior parte delle volte non possiamo far altro che affrontarlo direttamente. Da qui allora l’importanza di mostrare un modo sano, corretto ed efficace per gestirlo. Tutti noi abbiamo verificato, sia personalmente sia nei disastri prodotti dai conflitti armati, il potere distruttivo insito nell’aggressione e i limiti presenti nella gran parte delle risposte politiche e personali a tali aggressioni.
Ed allora, come gestire tutto ciò in modo più chiaro ed efficace? E soprattutto, come può questo testo aiutarci ed insegnarci ad affrontare il conflitto con maggiore efficacia?
Il Sun Tzu raccomanda che la risposta al conflitto inizi dalla conoscenza di noi stessi e degli altri:

«E così, nelle operazioni militari:
Se conosci il nemico e conosci te stesso,
Nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo,
Se non conosci il nemico ma conosci te stesso,
Le tue possibilità di vittoria sono pari a quelle di sconfitta.
Se non conosci né il nemico né te stesso,
Ogni battaglia significherà per te sconfitta certa» (ivi).

La conoscenza di se stessi è quindi non solo una componente fondamentale per affrontare la propria vita o l’unico obiettivo che l’uomo deve perseguire come amava ripetere il filosofo greco Socrate, ma è una consapevolezza che ci consente di conoscere a pieno quali siano le nostre forze quando sono al massimo e quelle del nostro avversario.

«Se so che le mie truppe sono pronte a combattere, ma non che il mio nemico è inattaccabile,
Le mie possibilità di vittoria sono dimezzate.
Se so che il nemico è attaccabile, ma non che i miei soldati non sono pronti a combattere,
Le mie possibilità di vittoria sono dimezzate.
Se so che il nemico è attaccabile e che i miei soldati sono pronti a combattere, ma non che le condizioni del terreno sono insidiose,
Le mie possibilità di vittoria sono dimezzate» (ivi).

Solo così saremo in grado di raggiungere il nostro obiettivo: imparando a gestire direttamente il conflitto senza ignorarlo, soffocarlo, arrenderci ad esso o semplicemente tentando di negarne l’esistenza.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

NOTE:
1. Tradizionalmente, L’arte della guerra viene ricondotta al generale Sun Tzu (la cui traduzione corretta secondo il sistema ufficiale pinyin sarebbe Sun Zi), vissuto in Cina intorno al IV secolo a.C., anche se la paternità dell’opera è per certa misura incerta. Comunemente si è soliti riferirsi all’opera con il nome del presunto autore (Sun Tzu) invece che con il suo titolo proprio (Bing fa), come avviene, per esempio, anche con il Tao tê ching e il suo tradizionale autore Lao Tzu (o Lao Zi).

[Photo credit su Unsplash.com]

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“La logica della scoperta scientifica” di Popper

«La scienza non persegue mai lo scopo illusorio di rendere le sue risposte definitive, e neppure probabili».
K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1974.

Nel 1934 viene data alle stampe La Logica della scoperta scientifica, prima e più importante opera del filosofo austriaco naturalizzato britannico Karl Popper. Il libro, nella prefazione alla traduzione italiana del 1970, è presentato dall’autore come un tentativo di rispondere a quesiti di non poco conto: possiamo conoscere? Se sì, cosa e con quale grado di certezza?

Secondo Popper, alla base della scienza non c’è nulla di assoluto. Non a caso, il filosofo paragona le teorie scientifiche a edifici costruiti su palafitte erette su una palude: quando ci fermiamo davanti a una determinata teoria non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Piuttosto, riteniamo più semplicemente che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili da reggere, per il momento, la sua struttura.
Popper utilizza anche un’altra metafora, questa volta ripresa dal filosofo tedesco Novalis, che paragona le teorie scientifiche a reti gettate sulla realtà: per coglierne (e conoscerla) il più possibile, dobbiamo rendere la loro trama sempre più fitta. E nella scienza questo avviene grazie alla critica e alla sostituzione delle teorie con altre considerate migliori. Così, il motivo della crescita del sapere dipende dalla dinamica di congetture che, se superano il vaglio delle confutazioni (cioè delle smentite), spingono alla formulazione di nuove congetture da sottoporre a loro volta a nuove confutazioni.

Per il filosofo austriaco la validità di una teoria risiede infatti nella sua disposizione a essere sottoposta a controlli empirici, che potrebbero falsificarla, e a resistere ai falsificatori potenziali, cioè alle affermazioni con cui la teoria si pone in contraddizione e il cui accertamento si tradurrebbe in una falsificazione. Per questo, ciò che permette di riconoscere una teoria sensata da una che tale non è, sarebbe la falsificabilità e non la verificabilità (che è la possibilità di confermarla attraverso il confronto con i dati dell’esperienza). Per questo, secondo Popper, non esisterebbero teorie vere definitivamente ma solo ipotesi “corroborate”, non falsificate dalle prove cui sono state finora sottoposte. Per avvicinarsi alla scienza bisogna allora sostituire alle teorie falsificate (smentite) altre ipotesi più resistenti alla falsificabilità, in un continuo processo di modificazione critica delle conoscenze precedenti.

«Secondo la mia proposta, ciò che caratterizza il metodo empirico è la maniera in cui esso espone alla falsificazione, in ogni modo concepibile, il sistema che si deve controllare. Il suo scopo non è quello di salvare la vita a sistemi insostenibili ma, al contrario, scegliere il sistema che al paragone si rivela più adatto, dopo averli esposti tutti alla più feroce lotta per la sopravvivenza» (ivi).

Così la scienza sarebbe sottoposta a un processo simile a quello avanzato dal modello evoluzionistico darwiniano. Da una parte, la competizione tra le teorie scientifiche porta a selezionare quella che si dimostra “la più adatta” a sopravvivere, in quanto, fino ad allora, è stata l’unica ad aver superato i controlli più severi e ad essere stata controllata nel modo più rigoroso. Dall’altra, la lotta per la vita porta alla selezione e alla sopravvivenza degli organismi “più adatti”.

Per Popper, una volta avanzata, nessuna teoria dovrebbe essere sostenuta dogmaticamente: il metodo di ricerca sostenuto dal filosofo non propone infatti di difenderla ma, anzi, di metterla in discussione, capovolgendola continuamente.

«I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate: sono il solo organo, i soli strumenti di cui disponiamo. E per guadagnare il nostro premio dobbiamo azzardarci ad usarli» (ivi).

Quelli che, al contrario, non espongono volentieri le loro idee perché temono la smentita, secondo Popper «non prendono parte al gioco della scienza» (ivi). Questo perché non è il possesso della conoscenza e della verità indiscutibile “a fare l’uomo di scienza” bensì l’impegno nella ricerca critica, persistente e inquieta, della verità.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Michael Longmire su Unsplash]

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