Clima, ecoansia e bias cognitivi: intervista a Luca Mercalli

Ciò che sta accadendo in Emilia Romagna è certamente tragico, ma è una conseguenza di una serie di azioni e inazioni umane che a livello collettivo dobbiamo deciderci ad affrontare se vogliamo davvero evitare che si ripetano, se vogliamo davvero dare dignità e valore al dolore e alla disperazione che stanno attraversando le persone colpite da questo evento estremo causato dalla crisi climatica. Alle persone che hanno perso la vita o che hanno perso la casa, la macchina e degli affetti dobbiamo almeno questo: la presa di coscienza della verità e una concreta azione conseguente.

Proprio su questi temi abbiamo recentemente dialogato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e docente in varie università. È direttore della rivista “Nimbus” e collabora con testate giornalistiche come “Il fatto quotidiano”. La sua attività di divulgazione scientifica l’ha portato alla pubblicazione di molti libri, ad essere ospite assiduo del programma RAI di Fabio Fazio Che tempo che fa e conduttore di un suo programma, Scala Mercalli, andato in onda nel 2015-16 su RAI 3.

 

Giorgia Favero – Ondate di caldo in febbraio e poi ritorno repentino del freddo, improvvisi e continui temporali e poi ritorno a settimane di calma piatta e arida; “bombe” d’acqua e siccità, caldo e freddo accostati come sulle montagne russe. È facile a volte per i giornali titolare con l’espressione ormai classica “meteo pazzo”: ma non sarà che, più che il meteo, siamo noi i pazzi?

Luca Mercalli – Certamente è una definizione anche un po’ di tradizione storica: “il tempo è impazzito” lo si diceva anche prima del riscaldamento globale nei momenti in cui si verificavano fenomeni anomali. Questo andava bene finché si trattava di essere spettatori di una variabilità naturale: la nostra vita è breve – soprattutto in un tempo passato in cui non c’erano osservazioni satellitari e banche dati – quindi è chiaro che la memoria storica di una vita poteva essere al massimo di un secolo e di conseguenza riscontrare anomalie che ogni tanto si ripetono giustificava quest’espressione: il tempo è pazzo. Oggi sappiamo che oltre che alla normale variabilità del tempo per motivi naturali – che ci sta per motivi naturali –, si è sovrapposta una variazione nuova indotta dalle attività umane: il riscaldamento globale. Direi quindi che ci dovremmo interrogare sulle sue cause, e questo significa prendere coscienza del danno che le attività umane stanno compiendo su tutti i processi che governano il pianeta, non solo sul tempo atmosferico. Certamente le attività umane cambiano il clima, ma cambiano purtroppo anche tutti gli altri processi che governano la natura: la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la plastica negli oceani, la cementificazione, la deforestazione… sono tutti fenomeni che poi si traducono in cambiamenti irreversibili che portano effettivamente a qualcosa di nuovo sotto il sole rispetto a queste definizioni di “meteo pazzo” che potevano andare bene come battuta fino a un secolo fa, oggi sono da analizzare con maggiore responsabilità individuale. Adesso infatti abbiamo una parte di responsabilità relativamente a questa pazzia, e si chiama Antropocene

 

GF – Nella sua duratura e preziosa attività di divulgazione relativa al cambiamento climatico, ha parlato più volte di bias cognitivi che ci ingabbiano puntualmente nella sottovalutazione dei rischi, dunque una vera e propria distorsione nella nostra capacità di ragionare di fronte a una situazione. Quali sono questi bias cui accenna?

Luca Mercalli – Ci sono due elementi quando parliamo di clima che ci allontanano dalla presa di coscienza: uno è legato al fatto che dei cambiamenti climatici cominciamo a vedere i sintomi ma i danni peggiori li vedranno probabilmente le generazioni più giovani, coloro che verranno dopo di noi. Come sempre, quando c’è un rischio a lungo termine, proprio la fenomenologia del comportamento umano è quello di rimuoverlo. Lo vedo spesso anche in situazioni più semplici, banali e individuali, come quella del fumatore. Chi fuma, anche se avvertito dall’impatto che il fumo ha sui polmoni, tende a ignorare questa prevenzione perché il momento nel quale sperimenterà il danno sanitario è molto lontano nel tempo. Con il clima è ancora peggio perché i tempi possono essere più lontani ancora rispetto alla possibile formazione di un tumore per un fumatore e il clima è anche più astratto rispetto al fumo. Se già il malanno da fumo non convince il fumatore a smettere di fumare, pur essendo un danno su se stesso, a maggior ragione il clima convince ancora meno a prendersi delle responsabilità perché è un danno fuori da se stessi.
Il secondo motivo è invece al contrario legato alla dimensione del problema. Il problema è così grande e così globale che spesso il bias cognitivo è un modo di rimuoverlo. È qualcosa di così fuori dalla mia portata che è meglio ignorare: lo ignoro così non ho un’ansia o una nuova responsabilità generata dal prenderne coscienza.
Questi sono i due grandi elementi che fanno sì che le persone o ignorano il problema, quindi ne sono indifferenti, o addirittura lo negano con grande veemenza. Pensiamo infatti al negazionismo climatico, è una forma di difesa interiore, o almeno per chi non lo fa per interessi economici: sappiamo benissimo che c’è anche un negazionismo mosso da una precisa difesa degli interessi di parte, ma ce n’è anche uno molto più banale che è legato al tentativo dell’individuo di rimuovere e allontanare da sé un’ansia.

 

GF – Sul versante opposto c’è anche chi la gravità della situazione l’ha compresa e non solo riesce a individuare la follia di uno stile di vita totalmente incurante del pericolo imminente – direi già presente – ma ha sviluppato quella che oggi chiamiamo “ecoansia”, un termine coniato attorno al 2009 ma accolto solo nel 2021 nel lessico dell’autorevole American Psychological Association. Ritiene che questo fenomeno, che oltretutto riguarda soprattutto la popolazione più giovane, sia destinato ad aumentare?

Luca Mercalli – Tenga presente che io studio il clima e non ho certamente le competenze e la conoscenza per giudicare con i mezzi di chi studia la psiche umana, anche se questi diventano via via dei temi che sto cercando anche io di comprendere. Posso solo osservare che l’ecoansia può essere di due tipi: c’è un’ecoansia paralizzante e una che invece promuove l’azione. Io penso che un po’ di ansia sia necessaria, perché se non ci rendiamo conto della dimensione enorme del problema che abbiamo davanti poi è anche facile non occuparsene. Se tutto è sotto controllo, se non appare grave come realmente è, io non prendo dei provvedimenti, perché è molto più facile pensare che ci sarà qualcun altro a risolvere questo problema, oppure pensare che non sia così grande e urgente da risolvere. Io credo che sia necessario un livello minimale di ansia e di preoccupazione che però non deve essere panico, non deve essere qualcosa che blocca o che produce depressione o disfattismo. Una via di mezzo. Quella che vivo su me stesso: anche io ho un’ecoansia ma diciamo che l’ho mutata in azione, nel compiere concretamente delle scelte che migliorino il mio bilancio ambientale. Se ho fatto l’isolamento termico della casa e ho messo i pannelli solari credo di aver fatto qualcosa di giusto e utile a me stesso e alla collettività, quindi ho anche diminuito la mia ecoansia, perché ho potuto trasformarla in un atto concreto. Ho comprato la macchina elettrica e la carico con i miei pannelli solari, ho installato una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (invece della piscina), non utilizzo più l’aereo, mangio meno carne. Queste sono le cose che sono alla portata di un individuo. Sull’ecoansia legata alle decisioni sbagliate dei leader mondiali non ci possiamo fare molto: non siamo eroi. La psicologia ci insegna anche che dobbiamo essere consapevoli pure dei nostri limiti, altrimenti ci facciamo sopraffare dall’impotenza. Io dico, la via di mezzo è: comincia a fare tu quello che puoi.

 

GF – Nel suo libro Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020) scrive che in una ipotetica realtà parallela in cui lei fosse il Presidente del Consiglio promuoverebbe «un grande sforzo di sintesi tra scienze dure e scienze umane, con un nuovo ruolo della filosofia». Quale dovrebbe essere questo ruolo?

Luca Mercalli – Proprio quello che abbiamo detto finora. Tutta la nostra conversazione di adesso mette insieme questi mondi. Io in fondo rappresento più il mondo delle scienze naturali, però, chiedo e mi piacerebbe, l’aiuto delle scienze umane. Mi piacerebbe parlare di queste cose con l’antropologo, con lo psicologo sociale, con il sociologo e con il filosofo e trovare insieme delle soluzioni.

 

Grazie davvero a Luca Mercalli per questa chiacchierata!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Wikimedia Commons]

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I diritti al centro della vita. Intervista a Giovanna Donini

Giovanna Donini è una scrittrice e autrice televisiva teatrale, da anni impegnata nel dare voce ai diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Ha co-fondato l’associazione Il filo di Simo, in onore di suo nipote Simone, con lo scopo di offrire supporto a chi sta vivendo un momento di difficoltà emotiva e alla sua famiglia. Tra pochi giorni sarà a Treviso in occasione del Q.Pido – Treviso Equality Festival, di cui sarà protagonista mercoledì 17 maggio alle 21 alla Loggia dei Cavalieri. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda sul suo lavoro e sui suoi valori, tra cui appunto la difesa dei diritti e delle fragilità di ciascuno di noi.

 

Giorgia Favero – Giovanna, tra pochi giorni sei attesa nella tua Treviso per il Q.Pido – Treviso Equality Festival, un’iniziativa del Coordinamento LGBTE per sensibilizzare la cittadinanza sulle istanze della comunità LGBTQIA+. Sei stata ospite anche in altre edizioni: che cosa significa per te partecipare a queste iniziative e sostenere queste istanze?

Giovanna Donini – Per me partecipare a queste iniziative è necessario e molto importante. Sono lesbica e ho sempre cercato, a modo mio, di non sottrarmi mai all’attivismo, anzi ho sempre cercato di dare, attraverso la scrittura, il mio contributo perché credo che sia, soprattutto adesso, ma lo è sempre stato, fondamentale lottare per ottenere e difendere i diritti.

 

GF – Al festival porti il tuo spettacolo Ti lascio per riprendermi, tratto dall’omonimo libro pubblicato per Solferino con Andrea Midena. In effetti la parte della separazione è quella meno indagata di una relazione, nonostante ci sia moltissimo da dire, molti consigli da poter dare, e molti motivi per provare a riderci su. In una società che ancora innalza la relazione e la coppia a status sociale preferibile, cosa fare per contrastare lo stigma dell’esser single?

GD – Noi nel libro diciamo chiaramente che nella nostra società la felicità è concepita solo per due, anche quando vai al ristorante da sola ti dicono: “Sola?” come se dicessero “Sfigata!?”. Io credo che non sia così. Però passa sempre questo messaggio che se non hai qualcuno sei infelice, sei incompleto. Io invece penso che prima di tutto e tutti devi amare te e poi sperare di avere fortuna e incontrare la persona che ti piace a cui piaci. Senza accontentarti mai. 

 

GF – In qualità di autrice per teatro e televisione, anche per artisti come Teresa Mannino che portano a gran voce sul palco una visione femminista, quale ritieni siano i punti nevralgici del dibattito sulla parità di genere oggi e quali a tuo parere dovrebbero emergere maggiormente?

GD – Conviviamo negli stereotipi, nei limiti culturali di cui siamo anche portatori sani, conviviamo nel patriarcato che è un virus pericoloso che però si può e si deve combattere dialogando in libertà. E a proposito di dialogo e quindi di linguaggio, per me, ad esempio, il dibattito sul linguaggio più inclusivo e ampio è fondamentale. È necessario dare un nome a ogni cosa perché abbiamo bisogno di nominare la realtà per poterla raccontare. 

 

GF – Cultura e intrattenimento: due cose che nel pensiero comune (e anche nelle riflessioni dei legislatori di turno) sembrano non convivere, anche perché la cultura sembra qualcosa di elitario mentre l’intrattenimento è pensato per un gruppo più ampio e indistinto di persone. Qual è secondo te il giusto punto d’incontro?

GD – Io amo definire tutto quello che faccio, penso e scrivo molto “pop”, il che non significa solo popolare ma indica qualcosa che ha a che fare con la cultura, una cultura che però raggiunga tutt* o almeno tantissime persone. Per me è – o meglio dovrebbe sempre essere – PoP il punto di incontro tra cultura e intrattenimento. 

 

GF – Pochi mesi fa la città di Treviso, la Commissione comunale Pari Opportunità e la Consulta Femminile ti ha insignita del riconoscimento “Riflettore Donna”, sottolineando l’importante percorso professionale ma anche “per essere un’attiva testimone del ruolo determinante delle donne nella crescita della nostra Comunità”. Pensi che sia importante per un artista lavorare sul proprio ruolo sociale, cioè all’interno di una collettività?

GD – È stato per me un onore ricevere questo premio così importante. Penso che chiunque faccia un mestiere come il mio non possa mai dimenticare che arrivando a molte persone può lanciare messaggi e “muovere” pensieri che possono fare bene alla collettività. 

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina fornita da Giovanna Donini]

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La scrittura e la vita. Intervista a Chiara Gamberale

Chiara Gamberale, nata a Roma nel 1977, è una scrittrice e conduttrice radiofonica e televisiva. Laureata presso il DAMS di Bologna, ha pubblicato il suo primo romanzo Una vita sottile nel 1999, dando così inizio alla sua carriera professionale che spazia in numerosi ambiti. Tra i numerosi altri libri pubblicati, l’ultimo, Il grembo paterno, ha avuto un successo davvero notevole. Oggi si dedica a un podcast, Gli slegati, prodotto da Chora Media, e alla sua scuola di orientamento creativo, CreaVità. La sua produzione letteraria non è, però, mai ferma dato che a marzo presenterà il suo nuovo libro.

In quest’intervista, parleremo delle relazioni che intercorrono sia tra noi e gli altri che tra noi e il nostro io interiore. Lasciamoci trasportare dalle parole delicate della Gamberale, che riesce a parlare al nostro io interiore e a farci riflettere su ciò che di più complesso c’è da comprendere: la vita. Buona lettura!

 

Andreea Elena GabaraCara Chiara, la sua vita professionale è decisamente poliedrica. Vorrei, infatti, iniziare chiedendole non di un suo libro ma del suo podcast, Gli slegati. Chi sono gli slegati a cui dà voce?

Chiara Gamberale – Gli Slegati li riconosci con lo sguardo, sono persone che non accettano soluzioni precostituite. Sentono, anzi sentiamo, la vita con cuore, ma la viviamo con la testa. Sono coraggiosi o impauriti, non capisci dove inizi una e finisca l’altra. Sono persone che all’amore chiedono troppo o troppo poco.

AEG – Le puntate del podcast indubbiamente parlano a tutti noi di tutti noi. Come possiamo convivere con il dualismo che ci caratterizza in quanto slegati, ovvero il contrasto tra voglia e paura dell’altro e la tendenza a slegare e allo stesso tempo legare relazioni?

Chiara Gamberale – Potremmo affidarci alla Preghiera degli Alcolisti Anonimi: Dio aiutami a cambiare quello che di me posso cambiare e ad accettare quello che non posso cambiare. Credo fermamente nell’imperativo greco del conosci te stesso… Chi non s’inganna non inganna. Qualsiasi sia il suo fisico emotivo e il tipo di relazione dove quel fisico può crescere, ma senza farlo apposta…

AEG – Viviamo in una società in cui i legami affettivi, a differenza del passato, tendono ad avere breve durata. Per usare un’espressione di Zygmunt Bauman, gli amori sono tendenzialmente liquidi e ci scappano dalle mani, impedendoci di creare relazioni durature. Secondo la sua personale opinione, come mai avere una relazione duratura oggi è così difficile?

Chiara Gamberale – Provo a rifletterci ne Il grembo paterno (Feltrinelli 2021) e ci ho messo quasi duecento pagine per farlo… È una questione troppo complessa per risponderle in poche righe, ma in estrema sintesi credo che oggi siamo più liberi di sentire solo con il nostro cuore e pensare solo con la nostra testa, e questa libertà può rischiare di confonderci anziché orientarci.

AEG – In ogni puntata chiede se slegati si nasce o si diventa. Lei come risponderebbe a questa domanda?

Chiara Gamberale – Secondo me gli Slegati si riconoscono da sempre, dalle medie, dal liceo. Con questo podcast, però, non voglio insegnare niente, né dare risposte, solo incoraggiare le persone a provare a capire chi siamo davvero.

AEG – La famiglia è un tema fondamentale sia del podcast che del suo romanzo Il grembo paterno. Concentriamoci sulla nascita di un/a figlio/a: come affrontare l’arrivo di un tu che si contrappone all’io e al contempo lo riflette?

Chiara Gamberale – Io con l’io ci ho giocato in tutti i romanzi; è sempre stato un contrapporre la vita reale alla fantasia. L’unico modo per non cadere nella tentazione di un tu che si mangi tutto l’io è, forse, restare in contatto. Se restiamo in contatto con noi stessi e con i nostri figli forse potremmo farcela.

AEG – Lei dà molta importanza all’io bambino che ciascuno di noi percepisce in sé e che, secondo lei, ha un ruolo cruciale in qualsiasi relazione. A questo io si accompagna la voce bambina a cui tutti noi dobbiamo dare ascolto, la voce che dà vita all’arte. Come riscoprire questa voce e permetterle di farsi spazio nella nostra mente e nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Durante una delle lezioni di CreaVità, la mia scuola di orientamento creativo a cui abbiamo messo le ali quest’anno, propongo un gioco: far scrivere alla bambina o al bambino che siamo stati una lettera indirizzata a qualcuno con cui sentiamo di avere un dialogo ancora in sospeso, qualcosa da dire e sentire. Questa immersione nel Laggiù dà dei risultati potentissimi di cui all’inizio neppure io mi ero resa conto.

AEG – Tra le cose a cui ha dato vita per far riscoprire alle persone questa voce c’è CreaVità, Percorso di Orientamento Creativo. Nel presentare questo spazio in un programma televisivo, lei ha spiegato ai giovani che l’assenza di stimoli e il vuoto sono necessari per capire chi si è. Dato che viviamo in un mondo di sovrastimolazione, cosa possiamo fare per isolarci dagli stimoli continui e tornare in contatto con la nostra persona più profonda?

Chiara Gamberale – Scrivere quella lettera, per esempio. Ritrovare il privilegio della noia, del tempo lento. Credo nel potere dell’arte, a me la letteratura ha salvato la vita; attraversare se stessi usando musica, libri e corpo mi pare un primo importantissimo passo per ri-sentirsi parte di qualcosa.

AEG – Visto che stiamo parlando di mancanza e assenza, mi fa piacere ricordare il suo libro Qualcosa (Longanesi, 2017), favola morale in cui la protagonista Qualcosa di Troppo, che è sempre stata troppo in tutto, si trova di fronte a una mancanza, precisamente la morte della madre. Questo aiuterà Qualcosa di Troppo ad affrontare i limiti e le fragilità. Le mancanze e i limiti sono, quindi, essenziali nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Senza dubbio ci permettono di avere uno sguardo trasversale, nuovo. Dal vuoto e dall’impossibilità nascono le idee, quindi i passaggi segreti. Se io non fossi stata una bambina con dei limiti non avrei mai iniziato a scrivere.

AEG – L’arte, che ha descritto come una missione, uno strumento e anche una possibilità di terapia, aiuta a conoscere e affrontare quello che non si ha, cioè i nostri limiti?

Chiara Gamberale – Esattamente. Grazie ai passaggi segreti di cui ho parlato prima, lungo quel tragitto, sento che l’arte ha la sua migliore possibilità di realizzazione. Da lì in poi è tutta una terapia a forma di abbraccio reciproco, e viceversa.

AEG – Immagino che lei sia particolarmente d’accordo con Simone Weil quando scrive che «dentro ogni limite abita un Dio». Cosa significa per lei questa frase?

Chiara Gamberale – Che ci innamoriamo dell’umano e poi invece, da noi stessi, pretendiamo il divino; crediamo anzi che il divino abbia a che fare con l’assenza di limiti, ma non è così. Invito tutti e me stessa ad abbracciarli e coccolarli, i limiti, per le possibilità impensabili che ci offrono.

AEG – Come ultima cosa, dato che abbiamo varcato la soglia del mondo della filosofia, citando Simone Weil, ci tengo a chiederle cosa sia per lei la filosofia e se abbia influenzato la sua vita professionale.

Chiara Gamberale – Sono da sempre affascinata dalla filosofia, ma alla letteratura ho dedicato la mia esistenza. Ricorda cosa sosteneva Gramsci? Che la filosofia mette le mutande al mondo, la letteratura gliele toglie…

 

Andreea Elena Gabara

[Photo credit Feltrinelli]

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Intervista a Marta Celio: tra filosofia e poesia.

Marta Celio, nata nella Svizzera romancia nel 1976, si è laureata in filosofia teoretica a Padova con una tesi su Hans Jonas. Costantemente esposta alla letteratura contemporanea e assorbita dalla meraviglia dei classici, viaggia nel mondo della filosofia, della narrativa, ma soprattutto della poesia. Già nel 1995 pubblica La nuvola nel bicchiere (Il club degli autori, Melegnano). I rinomati Taccuini (Prose liriche, Poligrafo Padova 2006); poi Stanze (Poesie, Poligrafo Padova 2009); Autunno (Penzo+Fiore, Murano 2015); Dediche (Penzo+Fiore, Murano 2017); senza considerare le copiose pubblicazioni collettanee. 

Nella presente intervista, parleremo del connubio di poesia e filosofia che accompagna non soltanto la sua produzione, bensì la sua intera esistenza. Lasciamoci travolgere dalla sua passione: buona lettura!

 

Giorgia Favero – Cara Marta, la tua produzione letteraria alterna quasi ritmicamente il saggio filosofico alla raccolta di poesie. In che modo si affiancano queste due tipologie di scrittura nella tua vita quotidiana?

Marta Celio – Cara Giorgia, grazie per l’attenzione posta alla mia attività febbrile e gratificante che vede, come tu stessa dici, alternarsi queste due forme di scrittura. In realtà la mia risposta riconduce due “apparenti” contrapposizioni (poesia e saggio filosofico) a un’unità. Infatti, scrivevo, in esergo a Diario di tutte le assenze (Nodo editore) e traslitterando un passaggio del filosofo Jean-Luc Nancy, che filosofia e poesia non sono in opposizione. Ciascuna fa la difficoltà dell’altra. Insieme esse sono la difficoltà stessa: il fare senso. Dunque, la mia vita quotidiana (che si caratterizza per una forma rigorosa di “apparente” chiusura in una turris eburnea, la mia casa, la mia stanza da lavoro, dove però – e qui svelo il senso di quella solo “apparente” chiusura – sono in contatto con il mondo più disparato, con autori, narratori, poeti (scomparsi e viventi) attraverso la lettura che mi apre a orizzonti di senso. Con gli scomparsi (un esempio tra tutti e mio prediletto, il poeta, critico, e traduttore Francesco Scarabicchi) sono legata da un filo di com-partecipazione emotiva ed intellettuale a quell’universale che ci hanno donato con la loro inquietante, disarmante bravura. Con i viventi (un altro esempio tra tutti, la poetessa Giovanna Rosadini, con la quale vi è una corrispondenza e un imminente lavoro sulla sua intera poetica, nella collana Percorsi, edita da Macabor, che dedica un monografico ai maggiori poeti contemporanei; poetessa, lei, di grande spessore e che gode di tutta la mia stima, umana e poetica). Tra i filosofi ovviamente non cito gli scomparsi, perché tutti presenti a circondarmi nel mio soggiorno, dove insieme ai libri d’arte, si dispiegano, in ordine rigorosamente alfabetico, i filosofi dalla A di Aristotele, alla Z di Zellini (ecco fatti due nomi). Tra i viventi, Marcello Barison, Luca Bianchin – con i quali ho anche il piacere di una collaborazione attiva – Curi e Cacciari, che spiccano per la loro produzione e per la mia stima nella mia biblioteca.

Questa è una breve parentesi toponomastica ma per arrivare alla tua domanda, circa la mia scrittura (tra il saggio filosofico e la poesia): ebbene, snodandosi la mia giornata, soprattutto per alcuni lavori commissionati, diciamo che essa comincia con la teoresi, con l’analisi testuale di scritti poetici o narrativi con l’approccio ascrivibile alla mia formazione, dunque filosofico.  Di qui momenti di “stacco”, di respiro, quali sono i momenti che dedico alla poesia. Non senza, tuttavia, rigoroso impegno e attenzione alla forma e ai contenuti, che spesso vengono a configurarsi proprio come l’esito delle suddette note filosofiche critico- letterarie e dunque ancora, con Jean-Luc Nancy, poesia e filosofia non sono in opposizione, ma insieme sono il fare senso.

 

Giorgia Favero –Una piccola curiosità: ci sono, che tu sappia, dei filosofi che si sono cimentati con la poesia? Avresti qualche lettura da consigliarci in proposito?

Marta Celio – Certo, l’ho appena citato, e gode della mia massima stima. È Marcello Barison docente di filosofia a Bolzano. Già docente a Chicago, si è cimentato con l’arte pittorica (con notevoli esiti), con la prosa e la poesia, raggiungendo vette insperate (www.marcellobarison.com).

 

Giorgia Favero – Il tema del tempo sembra ricorrere spesso nelle tue riflessioni, in particolare sotto la forma di distanza e di assenza (ricordiamo in questo proposito le due raccolte di Diario di tutte le assenze che assolvendomi – mi salvano per Nodo Edizioni). Ritieni che i tuoi studi di filosofia abbiano in qualche modo influenzato il tuo modo di osservare e percepire questi temi?

Marta Celio – Certamente, ricordo forse la prima lettura, risalente alla terza liceo, delle Confessioni di Sant’Agostino, dove egli analizza il problema del tempo nell’ XI libro.
Sant’Agostino diceva: «Io so che cos’è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo». Il punto di partenza è dato dal racconto biblico che presenta la creazione come una successione di operazioni e di eventi. Da questo racconto sembra risultare che la creazione avvenga nel tempo, che sia frutto di una decisione da parte di Dio e comporti dunque un mutamento nella sua volontà. In particolare, ci si può anche chiedere che cosa facesse Dio prima della creazione. Questa domanda presuppone che anche Dio sia nel tempo.
Ma non è il solo, ovviamente; lui è stato per me il primo passo all’interno di quella dimensione (il tempo) che, come sottolinei tu, in me prende la forma della distanza e assenza. Che però – lo sottolineo – viene subito a coincidere con il suo opposto (ovvero “la presenza”) e aggiungo “la presenza più salda e certa della mia vita”.

Ecco che il tempo si prefigura, attraverso gli studi (Zellini, Elemire Zolla, Essere e Tempo di Martin Heidegger, Hans Jonas, Borges e molti altri) e attraverso la mia percezione della vita e del mondo, come infinito ed eterno. Ricordo, fra i tanti, un esempio di questa circolarità del tempo: L’eterno racconto, saggio monografico sulla poesia del vicentino Alessandro Cabianca, nel quale ho ritrovato tanto di quell’infinità, propria del mio medesimo mondo. Infatti, l’intera produzione poetica di Cabianca, oltre ad essere minuzioso oggetto del mio studio, si è rivelata anche il pre-testo per il mio personale (infinito) viaggio, nel mondo della poesia. Un altro esempio mi arriva da un mio saggio pubblicato sulla rivista cartacea La Nuova Tribuna Letteraria di Stefano Valentini e Natale Luzzaggni, intitolato, significativamente, L’infinita finzione (ntL Anno XXXI, numero 141 primo trimestre 2021) a dire come l’infinito (spazio-temporale) sia il leitmotiv della mia scrittura e il generale della mia esistenza.

 

Giorgia Favero – Diario di tutte le assenze che assolvendomi – mi salvano (Nodo edizioni 2020) si dichiara, appunto, un diario ma nelle tue due plaquettes che compongono il volume non ci sono indicazioni di data e le poesie sono numerate. In che modo la poesia si configura come diario personale?

Marta Celio – “Diario” è un’espressione del quotidiano, e ho voluto chiamare così la mia raccolta per testimoniare una cadenza giornaliera e per molti versi esistenziale. La mia non è una dichiarazione di “esistenza” bensì di “lotta, militanza”. Forse alla fine ha vinto la parola Diario quale captatio benevolentiae, ed excusatio non petita. Mi spiego: non voleva essere una testimonianza del quotidiano – e infatti non lo è – voleva essere, e si manifesta, quale lotta per vedere oltre quella patina di perenne assenza quello che al di là di quell’apparente assenza c’era e c’è. Ovvero: le presenze più salde e vere della mia vita.
Nella lettura di Enzo Melandri, la coazione a ripetere di Sisifo è un’“illazione mitologica”: il suo senso mitopoietico è che vale la pena ritentare ancora daccapo, poiché ogni vissuto della speranza è intrinsecamente più forte, più affidabile di ogni disillusione di cui sino ad ora si è avuta esperienza. Dunque, un diario di lotta a partire da una fondamentale spinta data dalla speranza.

La scelta della numerazione nasce da un cammino diaristico (questo sì) che ha inizio nel 2018 da quello che ho chiamato primo canto e che vede un continuum narrativo-poetico che arriva ai nostri giorni. La numerazione da 1 a 370 è la numerazione dei canti che mi hanno (quotidianamente) accompagnato in questi anni. Di imminente pubblicazione il resto delle “numerazioni”, una con Proget editore e una con Valentina editrice che vanno a “svelare” il mistero di quei “numeri” sospesi nel Diario, e che hanno invece un prima e un dopo.

 

Giorgia Favero – «Sarai pace a quel che resta» e «Di te l’amore / di me, l’errore» sono i titoli delle due plaquettes che dividono la raccolta sopracitata. Come affronti nella tua poesia il tema – per altro estremamente filosofico – dell’Altro, dell’alterità? Chi sono veramente l’Io e il Tu ricorrenti nei componimenti che danno corpo alla raccolta?

Marta Celio – Il tema dell’Altro è certamente altamente filosofico; penso a xenoi (in greco antico gli “stranieri”) e mi viene in mente Curi («stranieri a noi stessi, altri nella nostra identità, identici nella nostra alterità») dove solo riconoscendo l’altro, l’identico può esprimere la sua identità; solo conservando la propria identità, l’altro può affermare la propria alterità. Di qui, si vede la dialettica intrinseca al rapporto tra Io e Tu.
L’Io-Tu della raccolta sono l’Io-Tu del Noi, dove ciascun lettore può identificarsi, dove si sente investito di quel “senso universale” che vorrebbe raggiungere; a partire, certo, da realtà particolari ma evocatrici di una Universalità trans-individuale.

 

Giorgia Favero – Poesia e filosofia: due grandi bistrattate – anche se in modi diversi – del nostro mondo contemporaneo, persino di quello culturale. Come porvi rimedio secondo te?

Marta Celio – Confermo quanto da te detto, sia la poesia che la filosofia sono entrambe, seppur in diverso modo, due grandi “bistrattate”. Come porvi rimedio? La mia risposta è chiara e perentoria: occuparsene, perseverare, con la passione e con la forza generativa dello studio che caratterizza entrambe.
Io collaboro con la casa editrice Macabor di Cosenza dal 2018 e non ho smesso un solo secondo di credere fortemente sia nella poesia (della quale, pur con taglio filosofico mi sono occupata e mi occupo tutt’ora) sia nella filosofia: essa, come detto prima, si è rivelato strumento prezioso e – per tornare ciclicamente a Jean Luc Nancy – poesia e filosofia insieme, sono il fare senso.

 

Giorgia Favero – Concludiamo con una domanda che poniamo spesso ai nostri intervistati: che cos’è per te la filosofia?

Marta Celio – Altra risposta chiara e perentoria: per me filosofia e vita coincidono. Ho scelto filosofia (o lei ha scelto me) in terza liceo scientifico, alla prima ora della prima lezione, tenuta da una professoressa che ha segnato per sempre la mia vita, Domenica Giusto, che non insegnava la filosofia come una materia scolastica da leggere sui libri, ma la trasmetteva. Con la passione e il trasporto, trasmetteva il senso vero, autentico, il fare senso che essa stessa (filosofia) portava in grembo e che – guarda caso negli stessi anni stesso liceo – si è accostata naturaliter alla poesia. Scrivo infatti da quando ho la penna in mano, ma è grazie a Gian Mario Villalta che sono entrata, allora appena sedicenne, in contatto con le penne più significative della poesia contemporanea: sono nati dai banchi del Liceo gli scambi epistolari e gli incontri con poeti come Andrea Zanzotto, Pierluigi Cappello, Claudio Damiani, seguiti da numerosi altri nel corso della mio cammino. Questa è filosofia per me: il fare senso che nasce da un incontro tra filosofia e poesia.

 

[Immagine tratta da Unsplash]la chiave di sophia 2022

 

A caccia di simboli nei libri di Francesco Boer

Per la seconda volta incontro Francesco Boer in una libreria. Un luogo classico in cui incontrare uno scrittore, chiaramente, ma nella mia testa lo colloco più facilmente nella natura mentre osserva l’andirivieni delle formiche o studia le forma delle foglie di un arbusto. In alternativa sepolto da mille libri e totalmente immerso nei suoi studi. Da tutto questo nascono i suoi libri, tra cui gli ultimi per l’editrice Il Saggiatore Troverai più nei boschi (2021) e Il piccolo libro del fuoco (2022).
Ecco che cosa ci ha raccontato.

 

Giorgia Favero – Nella tua biografia ti definisci esploratore, naturalista, scrittore – naturalmente – ma anche simbologo. Che cosa significa essere un simbologo e che chiave di lettura hai trovato nel simbolo, tanto da farne uno dei perni della tua indagine della realtà e della tua ricerca?

Francesco Boer – Ho iniziato a studiare i simboli perché sono un passaggio oltre la superficie delle apparenze, verso un significato ulteriore che attende come un potenziale, in ogni cosa che ci circonda. Il mondo, e la nostra vita, possono apparirci spenti, privi di senso: è una impressione che tutti, prima o poi, abbiamo provato, un pensiero doloroso che ci schiaccia come se fosse un peso sulle spalle. Riscoprire la portata simbolica dell’esistenza è una possibile via d’uscita da questo vicolo apparentemente cieco. Non è la ricezione passiva di una verità eterna, già pronta, ma un lavoro di ricerca e al tempo stesso anche di creatività, per ampliare la percezione con il significato. Il simbologo segue antiche rotte e ne traccia di nuove, e così crea connessioni, una rete di assonanze e affinità che permette di superare alcune divisioni altrimenti insormontabili, permettendo connessioni fra discipline diverse. La storia dell’arte e il mondo della tecnica, la psicologia del profondo e la geopolitica, antiche ritualità religiose e gesti quotidiani: il simbolo è presente in ogni cosa ci riguardi, perché è uno dei pilastri del nostro essere, un modo fondamentale che struttura il nostro pensiero e le nostre azioni. Con i nessi simbolici si possono così ricucire gli strappi di incomunicabilità che si sono aperti nel nostro panorama culturale a causa dell’eccessiva specializzazione. Non verso un appiattimento unitario, né a una raffazzonata confusione fra discipline, ma con un dialogo fra prospettive diverse, capaci di arricchirsi a vicenda nel confronto simbolico.

 

Giorgia Favero – La tua ultima pubblicazione, Il piccolo libro del fuoco, lascia largo spazio anche a un altro tipo di simbolo, quasi un racconto che si fa simbolo: il mito. Il mito, pur essendo molto antico, racconta molto di ciò che siamo oggi come singoli individui e può offrire tutt’ora degli spunti pedagogici validi. Quali miti ti hanno affascinato di più nella scrittura di questo libro?

Francesco Boer – Il mito di Prometeo, intimamente connesso col fuoco, è una narrazione complessa che ha continuato a far parlare di sé attraverso i secoli, cambiando forma attraverso riscritture di nuovi autori, pur mantenendo sempre la stessa carica archetipica. La forza del fuoco, la travolgente potenza del progresso umano: è sia una conquista, che la trasgressione di un volere divino. La fiamma, e tutto ciò che significa, è sì nostra, ma non di diritto. L’abbiamo sottratta con il furto, ci appartiene soltanto grazie all’inganno. Si tratta di un mito, certo, e ai più basterebbe questa definizione per scartare tutto, come se si trattasse di un vaneggiamento privo di conseguenze. Eppure storie come questa esprimono ansie e speranze radicante nel profondo della nostra anima culturale, e che altrimenti troverebbero difficilmente voce. Ignorarle non porta a nulla, perché le spinte sotterranee da cui queste voci hanno origine continuano pur sempre a influenzare attivamente le nostre vite. È necessario dunque imparare nuovamente ad ascoltare il mito: non screditandolo, come una fantasia del passato, né prendendolo troppo alla lettera, quasi fosse una profezia infallibile; ma interpretandolo, interrogando la narrazione e sé stessi, per capire cosa quella storia significhi per noi, oggi, per il mondo in cui viviamo.

 

Giorgia Favero – Nel tuo esaminare in lungo e in largo il fuoco, tra mitologia e cronaca, tra simbolo e letteratura, ti sei mosso non solo nel tempo ma anche nello spazio, dimostrando come in molti casi anche culture molto lontane dimostrano delle radici comuni. Qual è stato per il te il valore del confronto culturale nella stesura del libro?

Francesco Boer – Uscire dal proprio contesto, paradossalmente, è un modo per conoscere più a fondo la propria cultura, a cui pur sempre si appartiene in un certo grado. Nel corso delle mie ricerche, mi capita di passare dall’India all’Oceania, per poi arrivare magari alle popolazioni precolombiane del centro-America: non lo faccio per turismo culturale, per una fascinazione escapista verso l’esotico, ma nell’ottica di un dialogo fra visioni affini a quelle della nostra storia. Affine, va detto, non significa identico, né intercambiabile: troppo spesso la ricerca comparata tende a schiacciare le differenze culturali, banalizzando i singoli dettagli per creare un ipotetico mito “originale”, come se questa fonte unica, ammesso che esista, abbia per forza più valore dei suoi derivati. Al contrario, io sono convinto che sono proprio le diversità di espressione, le varianti culturali, a costituire il materiale sommamente prezioso del confronto e della ricerca simbolica.

 

Giorgia Favero – Cosa ti ha spinto alla scrittura di un libro sul fuoco e quale dei tanti simboli e significati indagati è stato per te quello più significativo, quello al quale ti senti più affascinato?

Francesco Boer – I simboli a volte attraggono con un incanto appena sussurrato, eppure ricco di fascino, irresistibile. Altre volte invece urlano con una voce quasi violenta, e anche lì è impossibile ignorarli. C’è stato un periodo in cui mi trovavo – simbolicamente e letteralmente – circondato da fuochi: l’incendio della cattedrale di Notre-Dame; le fiamme che hanno avvolto Minneapolis, durante le proteste per l’uccisione di George Floyd; gli spaventosi roghi che avvolgevano l’Amazzonia, la Siberia, l’Australia, e poi anche la loro versione ridotta (ma non meno spaventosa) nei boschi nostrani, anche quelli vicini, in cui passeggiavo fin pochi giorni prima, e che ora erano ridotti in cenere e carboni. Capivo che non si trattava soltanto di avvenimenti esterni: a ognuno di questi fuochi corrispondeva un bruciare interiore, fatto di angoscia e disperazione, ma anche di una profonda, spaventosa fascinazione. Scrivere il libro, a questo punto, è stata una necessità, il bisogno di trovare una risposta a una domanda apparentemente insolubile.

È impossibile, per me, ignorare la gravità dell’infuocata situazione in cui siamo. A livello collettivo, però, è proprio ciò che stiamo facendo: spaventati e conturbati, neghiamo la realtà e pure il simbolo. Facciamo di tutto per distrarci con altro, e se il problema ci sfiora la buttiamo sullo scherzo, nascondendoci dietro la misera maschera dell’ironia. In questo scenario, l’immagine più significativa e tremendamente attuale è forse quella – fra storia e leggenda – di Nerone che suona la lira e canta, mentre Roma brucia. 

 

Giorgia Favero – In questo dualismo irrisolto tra il bene e il male del fuoco emerge più volte anche un “grido ambientale”, quello del nostro pianeta che brucia a causa del riscaldamento climatico, una conseguenza della nostra ipertrofia nella padronanza del fuoco attraverso la tecnica. Infatti, come scrivi chiaramente nel libro, «Spegnere le fiamme [innescate dalla tecnica] significa rinunciare alla propria potenza». Considerando la smania umana di potenza, credi che si possa arrivare a un momento in cui si possa rompere l’illusione di crescere senza far bruciare tutto?

Francesco Boer – Il momento della disillusione, in un modo o nell’altro, arriverà. A far la differenza è il modo con cui l’illusione di potenza si infrangerà: può essere come un risveglio, una presa di coscienza, o in modo del tutto traumatico, la dura realtà che si riafferma con uno sconvolgimento di portata disastrosa. A essere realisti, è verso quest’ultimo esito che ci stiamo collettivamente incamminando, e pure a passo spedito. Non farsi illusioni, però, non significa arrendersi a un compiaciuto pessimismo. Questo libro vuole essere anche il tentativo di non abbandonarsi alla disperazione: non basta descrivere il problema, si può e si deve immaginare soluzioni. E magari è proprio il simbolo a poterci suggerire strade nuove, che ci allontanino dall’abisso. Forse, nel caleidoscopio dei miti, possiamo raccogliere un’ispirazione rimasta inespressa, capace di cambiare il nostro deleterio modo di vivere.

 

Giorgia Favero – La ricchezza di questo libro, come anche di altri libri che hai pubblicato, è che il racconto è accompagnato anche da bellissime illustrazioni. Perché questa scelta e chi ha selezionato concretamente le illustrazioni?

Francesco Boer – Ho svolto di persona la ricerca iconografica, di pari passo con la stesura del testo. C’è una circolarità fra i paragrafi e le illustrazioni: a volte l’immagine precedeva il testo, suggerendone lo sviluppo, che a sua volta portava a nuove figure, con un processo che a volte sfociava in una creatività quasi onirica. Navigavo seguendo miraggi, eppure sentivo che non stavo girando intorno, e che anzi quel procedere errabondo era l’unico modo per raggiungere la meta che cercavo.

 

Giorgia Favero – Il libro Troverai più nei boschi invece si propone come un “manuale per decifrare i segni e i misteri della natura”, che quindi viene indagata con occhio preciso e analitico. Ma la relazione tra lo scrutatore e lo scrutato viene ripresa più volte con fare altrettanto indagatore. Per esempio scrivi che «L’uomo di animo sensibile entra nel bosco. Lo fa come se entrasse in un tempio a lui proibito. Cerca un contatto con la natura, ma al tempo stesso porta dentro di sé un senso di colpa, il misfatto di appartenere a quell’umanità che ha devastato e continua a rovinare la natura»: questo senso di colpa secondo te è davvero così diffuso? Ed è un sentimento intrinseco all’essere umano o di origine più contemporanea?

Francesco Boer – Distinguere fra costruzione culturale e tendenza innata è difficile e problematico. Preferisco concentrarmi sul fatto che il sentimento sia molto diffuso, e di radice antica, e che al giorno d’oggi sia più attivo che mai. Il senso di colpa influenza con grande intensità diversi aspetti della nostra vita, e il rapporto con l’ambiente è uno di essi. Una volta riconosciuta la sua esistenza si può iniziare a lavorarci sopra, a interpretarlo simbolicamente: capire quanto e come ci limiti, e chiedersi se possa essere trasmutato, magari persino sublimato in una risorsa per un futuro migliore.

 

Giorgia Favero – La ricerca di un equilibrio umano-naturale è auspicata più volte all’interno del libro, ma come abbiamo già detto l’interesse per il tema ambientale emerge anche da altre tue pubblicazioni. Secondo te in che modo si può concretizzare davvero questo equilibrio?

Francesco Boer – Non è facile, perché comporta una rinuncia: di possesso, di potere, di capacità di controllo. Per secoli, l’essere umano si è comportato come un piccolo despota, comandando sul territorio con pretese assolutiste. In quest’ottica perversa, ogni cosa è o una risorsa, o un ostacolo. Animali e piante, boschi, fiumi, montagne: ciò che non poteva essere usato, andava tolto di mezzo. È un regno miope, perché ben presto si rivela insostenibile; la sua economia lo porta per forza al collasso. Ma prima ancora, è un modo d’essere colmo di bruttezza, perché isola l’uomo in un delirio di onnipotenza, tagliandolo dal resto del mondo e condannandolo a un isolamento che in ultima analisi priva la vita di senso.  Alla fine, è l’uomo stesso a soccombere, avvelenato dalla sua avidità: ben lontano da essere un re, diventa egli stesso merce della propria economia scellerata – anch’esso, o risorsa o scarto di un sistema.

Credo che il simbolo sia anche un vettore di empatia; la riscoperta del valore di ciò che ci circonda, una bellezza che diventa un legame quasi fraterno. Una parentela simbolica con gli elementi del mondo, che sia un albero o il cielo stellato.  Lo sfruttamento e la devastazione, a questo punto, appaiono impensabili: non li si rifugge per dovere, o per senso di colpa, ma spontaneamente, così come si porta cura e rispetto verso coloro a cui vogliamo bene.

 

Giorgia Favero – Il titolo del libro, che ci lascia una sorta di sospensione, deriva da una antica citazione di Bernardino da Chiaravalle che ci apre anche spunti di riflessione sul senso, ma anche sulle nostre modalità pedagogiche. Vuoi spiegarci il senso di questo riferimento e in che modo pensi sia attualizzabile nel mondo odierno?

Francesco Boer – Si tratta di un’apertura verso il mondo, un ascolto attivo che passa anche attraverso il dialogo simbolico. “Troverai più nei boschi che nei libri”, dice la frase completa, quasi a sottolineare il pericolo di un’istruzione impositiva. Se imparo la mia verità, per quanto parziale, poi finirò per imporla sulla realtà complessa che mi circonda. È meglio mantenere una ricettiva umiltà, osservare e interagire, anche lasciarsi spiazzare da esperienze che contrastano con quello che credevamo di sapere. Certo, non è affatto facile, e qui sta appunto il ricorso al libro , apparentemente negato dalla massima: si tratta di re-imparare un modo di porsi, di raccogliere, di farsi trascinare. Anche il bosco più vivo, altrimenti, resterebbe muto di fronte a un’anima chiusa.

 

Giorgia Favero – Questa indagine attenta della realtà, questa ricerca di significato profonda tocca alcuni punti in comune con il pensare filosofico. Del resto ci sono anche molti filosofi che dal loro passeggiare nella natura e dalla ricerca di simboli hanno trovato spunti per la propria filosofia (ad esempio Nietzsche). Ce ne sono poi anche altri (come Hegel) che non si sono invece lasciati incantare dall’immersione nella natura, trovandola distante dall’esercizio del pensiero. Tu come vedi questo rapporto tra filosofia e natura (in senso lato)? Che cosa significa per te fare filosofia?

Francesco Boer – Non sono mai stato attratto dal pensiero più rarefatto, quasi astratto dalla realtà concreta: tutto sommato, mi pare che la servetta trace avesse le sue ragioni. D’altro canto, anche il materialismo più superficiale mi riesce di difficile sopportazione, e porta a trappole ben più insidiose di un pozzo. Il fascino che la simbologia esercita su di me sta proprio di essere nel mezzo, un rapporto che lega idee e immagini, sensazioni e oggetti concreti. Permette di camminare con un occhio puntato verso le stelle, e uno attento alla terra; e magari di scoprire i rapporti sottili che collegano queste due metà dell’essere. In questo senso, non credo che l’esperienza della natura sia in conflitto col pensiero, e anzi il concetto stesso di “natura” è una complessa amalgama di entità viventi e idee umane, un ecosistema in cui possono trovare posto e nutrimento anche le nostre riflessioni.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit nikita velikanin]

la chiave di sophia 2022

Tutte le donne dell’antica Grecia. Intervista a Eva Cantarella

Quando si pensa alla parola amore, il primo pensiero forse va all’amore passionale, di coppia in primis. Eva Cantarella, storica, studiosa di diritto greco-romano e prolifica autrice, ha scritto molto sull’amore presso gli antichi Greci e Romani e intervistandola abbiamo pensato di esplorare questo argomento con lei. Approdando al legame di coppia abbiamo scoperchiato un mondo in cui l’amore è tutt’altro che scontato, finendo, così, per esplorare le imponenti differenze di genere presso gli antichi Greci e le ripercussioni che queste hanno avuto sulle dinamiche sociali dell’epoca e nei secoli successivi. Questo viaggio esplorativo ci ha consentito, assieme a Eva Cantarella, di fare anche interessanti riflessioni sul nostro presente.

 

Pamela Boldrin – Cosa ne pensa delle discussioni sempre più accese su un linguaggio inclusivo e politicamente corretto per la sessualità, ma anche sulla censura di eventi storici o personaggi che ad oggi sono considerati incompatibili con le battaglie culturali che stanno avendo luogo?

Eva Cantarella – Nella stessa domanda ci sono due problemi enormi. Il primo riguarda il linguaggio: io sono per un linguaggio inclusivo che consenta la libertà, che in campo sessuale vuol dire riconoscere a tutti la possibilità di esprimere la propria sessualità che non è solo quella biologica ma anche il proprio modo di viverla. Sono dunque per un linguaggio che lasci assoluta libertà e non distingua tra le varie forme di sessualità biologica o percepita: però senza una specificazione lessicale che pretenda di individuare e dettagliare tutte le possibili, infinite percezioni individuali. Una pretesa di questo genere rischia di diventare una trappola. Quello che conta è che tutte le forme e i modi di vivere la sessualità possano essere vissuti liberamente, senza alcuna discriminazione.

Il secondo problema è molto più semplice: distruggere le statue o rimuovere i nomi delle strade è semplicemente ridicolo. Cancellare la storia non è possibile: noi siamo la nostra storia, senza di essa non saremmo quello che siamo. Un’umanità che cercasse di cancellarla sarebbe un’umanità colpita da un Alzheimer collettivo. Quanto all’abbattimento delle statue: ma che senso ha, che senso può avere? Quello che mi sembra avrebbe un senso invece, e che dovrebbe sempre essere fatto, sarebbe dare sinteticamente a chi guarda una statua, un monumento o qualunque immagine le  informazioni necessarie a sapere chi è stata quella persona: invece di cancellare la storia, l’immagine servirebbe così a farla conoscere.

 

Pamela Boldrin – Non solo la medicina è stata influenzata dalla visione maschilista greca, ma anche l’autopercezione delle donne nella società e nei confronti della propria fisicità. Questa visione ha contribuito a creare nelle donne di tutte le epoche successive una interiorizzazione e, addirittura, somatizzazione di tali concezioni?

Eva Cantarella – Lei ha ragione. Questa concezione ha influenzato le donne in un modo incredibile fino ad oggi, facendo sì che esse si identificassero nel duplice ruolo assegnato loro dai nostri più lontani antenati: in primo luogo quello materno, inteso come compito di riprodurre i futuri cittadini, e in secondo luogo quello che oggi viene chiamato la “cura”. E anche se in misura minore di un tempo, questa identificazione continua a sopravvivere non solo nel campo che riguarda la funzione riproduttiva. A me capita spesso di parlare in pubblico della condizione femminile nell’antichità a un pubblico di regola composto prevaletemene da donne, e quando questo accade, accade non di rado che alcune di queste mi parlino della loro disperazione per non essere riuscite ad avere dei figli. Che, come spesso dicono, fa sì che non si sentano più delle donne. È una cosa che ogni volta che accade mi colpisce e mi sconforta:  l’identificazione donna-madre è la maggior causa delle discriminazioni di genere, ed è incredibile che, anche se per fortuna in casi sempre più limitati, continui a esserlo ancora oggi, nel terzo millennio.

 

Pamela Boldrin – Nel suo ultimo libro, “Sparta, Atene” l’analisi mette in luce le diversità tra queste due potenti città dell’antichità, soprattutto in merito alla questione della paideia. Grazie al suo punto di vista possiamo finalmente valorizzare le peculiarità anche alla luce delle differenze di genere, argomento molto trascurato dagli storici e invece da lei valorizzato. Ci vuole raccontare qualcosa delle donne ateniesi e di quelle spartane?

Eva Cantarella – Per le donne ateniesi la risposta è molto facile. Atene è la città alla quale va ricondotta la nascita di tutte le discriminazioni di genere delle quali (in misura e in modi diversi) sono state vittime nei millenni le esponenti del genere femminile. A dare un’idea di quali e quante fossero quelle discriminazioni basterà ricordare che ad Atene – come leggiamo in un’orazione attribuita a Demostene – gli uomini potevano avere tre donne: una moglie, per avere da questa dei figli legittimi; una concubina “per la cura del corpo”, vale a dire per avere rapporti sessuali stabili; e un’etera, vale a dire una delle prostitute di alto livello che li accompagnavano nelle occasioni sociali (alle quali le mogli, in quanto donne oneste, non potevano partecipare) e con le quali i clienti si accompagnavano “per il piacere”. E a questo dobbiamo aggiungere che il marito aveva abitualmente un rapporto pederastico con un giovane uomo. Le mogli invece, se avevano un rapporto extraconiugale, venivano espulse di casa, e dato che nessun padre avrebbe mai riaccolto in casa una simile figlia, se volevano sopravvivere erano di fatto destinate alla prostituzione. E ancora: secondo il diritto ateniese il patrimonio paterno andava diviso in parti uguali tra i figli, sia naturali sia adottivi, ma solo se maschi. Le donne avevano già ricevuto la loro parte come dote al momento del matrimonio, e alla morte del padre, se non avevano fratelli maschi, erano il tramite per cui il patrimonio paterno veniva trasmesso ai loro figli maschi: con la conseguenza che – perché questo non finisse in mani estranee – erano obbligate a sposare il parente più stretto in linea maschile (di regola lo zio paterno). Infine, un’ultima constatazione: una delle conseguenze, forse la più grave tra quelle che discendevano dalle discriminazioni fin qui descritte, era la mancanza di ogni considerazione per il ruolo materno, ridotto in pratica all’accudimento dei figli in età infantile; superata la prima infanzia, l’educazione e la socializzazione dei figli erano affidate in parte ai padri e in parte, come sappiamo, agli amanti adulti.

E a questo punto passiamo alle donne spartane, per rendersi conto della cui condizione bisogna partire dal fatto che, data l’organizzazione comunitaria della vita maschile, dedicata alle armi e alla guerra, e non avendo una vita comunitaria organizzata come quella dei maschi, esse avevano una notevole libertà di movimento e si dedicavano a una serie di attività altrove abitualmente riservate ai maschi, per svolgere le quali uscivano liberamente, abbigliate in modo che per essere comodo era spesso succinto, soprattutto rispetto all’abbigliamento delle ateniesi. In aggiunta a questo, a differenza delle ateniesi, durante il giorno uscivano liberamente di casa, partecipando anche ai pubblici eventi. E se è vero che il loro primo compito era dare figli alla patria, avevano sulle ateniesi il vantaggio di vedere il loro ruolo materno socialmente riconosciuto e onorato. La loro vita era così diversa da quella delle ateniesi, insomma, che inevitabilmente la loro reputazione in quella città non era delle migliori: secondo gli ateniesi erano dissolute, si abbigliavano in modo sconveniente, addirittura si diceva comandassero sugli uomini. In poche parole erano donne disoneste e pericolose. Un modo di rappresentarle (al quale ha contribuito non poco Aristotele) che ha influenzato per molto tempo anche la letteratura moderna in materia, inducendo parte di essa a pensare che la loro libertà si traducesse, nei fatti, in una incontrollata licenziosità, che gli studi più recenti hanno peraltro negato. Indiscutibilmente, per concludere, essere donna a Sparta era più gratificante che esserlo ad Atene

 

Pamela Boldrin – Atene deve il nome alla sua beniamina, la dea Atena, figura ambigua dal punto di vista della rappresentazione del genere, potremmo dire la “meno donna” di tutto l’Olimpo. Qual è il carico simbolico di tale dea?

Eva Cantarella – Certamente Atena è la meno donna dell’Olimpo: “sono tutta d’un padre” disse, e non a caso, essendo nata dalla testa di Zeus. Io credo che per capire l’enorme carico simbolico di Atena si debba tornare al mito della fondazione della città di Atene. Come accade che Atena nascesse dalla testa di Zeus? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, tornando al momento in cui Zeus  aveva mangiato una donna chiamata Metis. Quando questa gli aveva rivelato di essere incinta, infatti, Zeus si era terrorizzato: gli era stato detto che se avesse avuto un figlio questo l’avrebbe detronizzato. Zeus, per risolvere il problema, inghiottì Metis, tutta intera, feto compreso, e così avvenne che il feto si sviluppasse in lui, che al nono mese (ammesso che si contassero i mesi)  cominciò a sentire un grande mal di testa, tanto forte da chiedere che questa gli fosse spaccata. Fu così che nacque Atena: una vera e propria appropriazione della maternità. Il segno dell’invidia maschile della capacità delle donne di generare, confermata da un altro, simile episodio, analogamente, Zeus riesce a partorire al posto di una sua amante: la povera Semele, anche lei incinta di Zeus, che in questo caso peraltro non la mangia. Quello che accadde quella volta fu che Era, la gelosissima moglie di Zeus, convinse malvagiamente la rivale a chiedere a Zeus di apparirle in tutto il suo splendore divino: e Zeus la accontentò. Ma quando Semele lo vide al centro del suo corteo di tuoni e di fulmini  ne rimase letteralmente folgorata: e Zeus, a quel punto, dopo aver raccolto il feto se lo cucì nella coscia, dalla quale sarebbe nato Dioniso. Per ben due volte, dunque, Zeus si appropria della capacità delle donne della capacità di generare. Invece che di invidia del pene, in questo caso si potrebbe parlare di invidia dell’utero. Il carico simbolico della nascita di Atena dalla testa di Zeus non è certo da sottovalutare).

 

Pamela Boldrin – Grazie davvero a Eva Cantarella per questa chiacchierata e per gli spunti di riflessione da conservare con noi nella vita di oggi.

 

Pamela Boldrin

 

[Immagine di copertina fornita da Eva Cantarella]

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Stirpe e vergogna e ritorno all’amore: intervista a Michela Marzano

In un nuovo incontro letterario alla libreria Lovat di Villorba ritroviamo Michela Marzano, personalmente una delle mie filosofe contemporanee “guida” e sempre un piacere da ascoltare. Questa volta ci ha presentato il libro Stirpe e vergogna (Rizzoli 2021) e noi ne abbiamo approfittato anche per chiederle qualcosa su uno dei suoi temi cardine: l’amore. Ne abbiamo parlato a lungo nella prima parte dell’intervista, che potete leggere comodamente nella nostra rivista La chiave di Sophia #18 – Pensare l’amore.

Giorgia Favero – Non a caso uno dei tuoi libri s’intitola proprio L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore, facendo eco ai bellissimi versi di Emily Dickinson: Che sia l’amore tutto ciò che esiste/ è ciò che noi sappiamo dell’amore/ e può bastare che il suo peso sia/ uguale al solco che lascia nel cuore. In tutti questi anni, diciamo dal Simposio di Platone in poi, abbiamo scritto, cantato e parlato dell’amore in tutti i modi, in tutte le salse. Ma secondo te ci abbiamo capito finalmente qualcosa?

Michela Marzano – E infatti a me piaceva molto questo paradosso del titolo del libro, nel senso che da un lato si lancia l’idea (a cui io sono molto legata) secondo la quale l’amore rappresenta il sentimento fondamentale, come diceva Freud, il “sentimento oceanico dell’esistenza” tanto è vero che solo quando noi riusciamo ad amare e lavorare possiamo considerarci in salute ma, al tempo stesso, ogni qualvolta si scrive dell’amore si dice tutto quello che ognuno di noi riesce a vivere, a sperimentare, a indagare, a capire, a approfondire, talvolta smettere di capire, quindi c’è sempre una dimensione sempre molto soggettiva.

GF – I tuoi libri sembrano percorsi da tanti fili rossi e il tema della memoria ci porta anche a Stirpe e vergogna, l’ultima tua pubblicazione per Rizzoli, in cui la storia personale della tua famiglia s’intreccia a una riflessione sociopolitica sul nostro Paese. In quali modi pensi che la storia di tuo nonno abbia influenzato la tua?

MM – Sì, però è stato anche un sollievo togliere di mezzo quello che era stato il segreto di famiglia, perché in realtà io sistematicamente dico a chi non l’ha letto: “no, il problema non è stata la scoperta e quindi la vergogna ma la vergogna precedeva la scoperta e quindi precedeva la conoscenza”. La storia di mio nonno era stata rimossa da mio padre per vari motivi: da un lato perché c’era “il rimosso” dal nostro paese, il fatto di non voler conoscere ciò che era stato e dall’altro lato perché mio padre era ancora giovane quando il nonno ha avuto questi ictus ed è rimasto poi per 18 anni su una sedia a rotelle, paraplegico, senza nemmeno poter più parlare. Era il 1958, prima del 1961, data del processo contro Eichmann a Gerusalemme, cioè quando si è riaperto il capitolo Shoah, quindi nazismo, e quindi poi in alcuni ambienti anche fascismo. Ciò detto, nulla toglie al fatto che questo segreto di famiglia è diventato (come spesso accade con i segreti di famiglia) una cripta con all’origine un sentimento di vergogna per cui la scoperta ha permesso anche di spiegare il perché però poi è stata una conoscenza dolorosa perché ho cercato di capire, di contestualizzare, di analizzare, di mettere in prospettiva e però il risultato alla fine è stato l’amore, ancora una volta. Mio fratello ha finito di leggere il libro e ha detto: “ancora una lettera d’amore a tuo padre”. Perché poi mio fratello è molto presente nel libro, mio fratello si chiama Arturo Marzano come nonno Arturo, mio fratello omosessuale, mio nonno fascista, ci sono parecchi intrecci complicati. Poi io ho sempre voluto capire, ho sempre voluto conoscere, quindi a me piace molto questo legame tra conoscenza e amore perché per me è evidente. Conoscere è una forma d’amore. Io per amare devo conoscere. E per conoscere devo amare.

Giorgia Favero – Il tema della censura evidentemente accomuna allora tanto la storia personale quanto la storia in senso globale e sociale. Prendendo questa volta in considerazione il secondo punto, che cosa ha provocato secondo te la censura del Ventennio nell’Italia di oggi?

Michela Marzano – Per me è all’origine di tantissime situazioni di conflitto, di conflittualità, di rabbia, di tensione e di violenza che ci sono oggi. Perché il problema è che noi siamo soprattutto agiti dal rimorso, perché uno può far finta che nulla sia accaduto, il problema è che siccome le cose invece nel momento in cui sono accadute hanno bisogno di trovare le parole per essere nominate e essere riattraversate, se tutto ciò non viene fatto, c’è comunque un problema. La difficoltà è che, una volta finita la Seconda Guerra Mondiale, la scelta di mettere un punto e andare a capo è stata fatta in modo unanime praticamente da tutto il mondo. Era una situazione complicata, c’era la Guerra Fredda, c’erano altre preoccupazioni, si pensava che mettendo un punto e andando a capo si sarebbe riappacificato il Paese e i Paesi. Invece no. Tanto è vero che a partire dal 1961 si riapre il capitolo, poi lì la reazione è stata diversa a seconda dei paesi: la Germania è stato il paese dove i conti si sono cercati di fare prima della Francia, dell’Italia, della Spagna, quasi paradossalmente. Nel libro cito un bellissimo discorso del Presidente della Repubblica tedesco del 1985: “ricordiamo nel lutto i milioni di morti ebrei, sinti, rom, omosessuali” assumendosi la responsabilità come parte del popolo tedesco. Negli anni 90, Chirac, Presidente della Repubblica in Francia, che sgretola il mito della Francia come Paese di resistenti: no, Vichy è stata collaborazionista. Nel 2018, Mattarella in occasione del Giorno della Memoria, in cui si commemoravano le vittime del nazismo, dice che sono le vittime del “nazifascismo”. Basta col mito “italiani brava gente”, e qui si vede come siamo arrivati in ritardo. In Spagna, ancora i conti non si stanno facendo, quindi l’Italia non è un’eccezione. Ora, tu dirai: “che c’entra la Russia, l’Ucraina…”, eh però anche lì i conti con il passato non sono stati fatti, con un altro passato, ma anche qui usciamo dell’ideologico. Qui finché non si mettono le cose una dopo l’altra, finché non ci raccontiamo la nostra storia, noi faremo fatica a immaginare un futuro, perché come dice Paul Ricouer: “l’identità è identità narrativa, identità personale, identità collettiva”. Io so verso dove voglio andare se so chi sono e se so chi sono so da dove vengo e sono capace di raccontare la mia storia, e a livello collettivo è la stessa storia.

GF – È opinione condivisa dagli scrittori che per scrivere bene bisogna scrivere di qualcosa che si conosce. I tuoi libri però vanno oltre, attingendo dalle tue esperienze personali ed emotive delle storie universali. Per Duccio Demetrio (Educare è narrare, 2012) l’autobiografia è una forma di educazione di sé stessi e addirittura svolge un ruolo di natura catartica. Che cosa significa per te lasciare dei pezzetti di te stessa nei tuoi libri?

MM – Né l’uno né l’altro, non userei il termine catartico. Il ruolo per me fondamentale, centrale, strutturante è la ricerca, l’operazione di scrittura è altro, è un “vi apro le porte di casa mia, vi faccio entrare in casa mia, affinché voi entrate in casa vostra”. Per cui non è né educazione, né catarsi: è letteratura, è quello che fanno tutti gli scrittori quando scrivono. Dopo di che io penso che per aprire un armadio, entrare in una casa e far entrare in quella casa, la strada che ho trovato io è quella di aprire casa mia direttamente.

Grazie Michela Marzano per questa ultima intervista! Trovate il nostro primo incontro a questo link.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina tratta da Instagram]

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Due parole sulla disuguaglianza: intervista a Michele Alacevich e Anna Soci

Intervistiamo i professori dell’Università di Bologna Michele Alacevich – Storia economica e Storia del pensiero economico – e Anna Soci – Economia politica – che con piacevole chiarezza e grandissima capacità di sintesi ci offrono spunti di riflessione davvero preziosi intorno ad alcune grandi questioni della nostra storia umana. Mi riferisco in primis alla disuguaglianza economica e alle sue implicazioni o per esempio al rapporto tra tecnologia e lavoro come a quello della democrazia. Un assaggio veloce ma oggi più che mai necessario. Ringraziando moltissimo entrambi gli autori per la loro disponibilità auguro a tutti buona lettura!

 
Anna Castagna – Il vostro recente libro Breve storia della disuguaglianza (Laterza, 2019) ha sicuramente il merito di riuscire a «introdurre il lettore non esperto all’importante dibattito sulla disuguaglianza»1. Di fronte alla «crisi sociale, economica e politica»2 che stiamo vivendo qual è in sintesi il ruolo fondamentale giocato dalla disuguaglianza economica?

Michele Alacevich e Anna Soci – La disuguaglianza economica ho un ruolo davvero fondamentale tra le cause di questa larga crisi che soprattutto i Paesi occidentali stanno vivendo. Si potrebbe dire che la disuguaglianza economica è “la madre di tutte le disuguaglianze”. Da un lato, infatti, risulta nociva per la crescita economica stessa, contribuendo così ad accentuarla ancora di più, in assenza di politiche redistributive da prevedere e concordare. Inoltre, genera una diffusa crisi sociale, nel modo in cui restringe le opportunità per la vasta categoria delle persone a basso reddito: opportunità di accedere a una istruzione qualificata, a una sanità di buon livello per tutti, a una vita dignitosa, sotto i suoi molteplici aspetti. Né è meno nociva dal punto di vista politico, ampliando il rischio di un progressivo distacco da comportamenti di cittadinanza attiva, e dalle istituzioni da cui ci si sente abbandonati.

 

A. C. – Oggi riuscire a trovare una occupazione lavorativa sufficientemente soddisfacente sembra essere una impresa ardua e difficile. Quanto la conoscenza dei fenomeni sociali, economici e politici del passato può contribuire alla formazione di una forma mentis incline a proposte di cambiamento attivo e direttivo delle strutture produttive e organizzative del mercato del lavoro piuttosto che a risposte di adattamento passivo e auto-selettivo?

M. A. & A. S. – Spesso, non capire le cause di un problema ci porta a dare risposte o immaginare soluzioni irrealistiche o sbagliate — soprattutto perché non risolvono il problema. La disuguaglianza è un problema sociale, non è l’effetto di pigrizia, o di qualcuno che ha fatto scelte sbagliate e si è andato a ficcare in un guaio. Inoltre, è un problema con delle radici, che noi cerchiamo di spiegare, che sono sia di natura intellettuale sia di natura politico-economica. In altre parole, la disuguaglianza delle nostre società, così come l’ideologia che la giustifica, hanno una storia. Conoscerla serve a capire le forme che ha preso, le ragioni per cui in tanti la ritengono un dato di fatto, quasi fosse uno stato di natura, e anche i modi in cui possiamo mitigarla e gli argomenti che possiamo sviluppare in un dibattito democratico civile e informato.

 

Anna Castagna – Nel capitolo intitolato Disuguaglianza e globalizzazione viene riportata la seguente frase di James Galbraith: «il fattore determinante della disuguaglianza economica è la composizione strutturale dell’economia stessa»3. Sulla base di questa affermazione quale collocazione interpretativa è possibile attribuire all’emarginazione economica che segna inesorabilmente la vita di molte persone?

Michele Alacevich e Anna Soci – Galbraith sottolinea alcuni elementi strutturali delle nostre economie che spiegano molto della disuguaglianza che esiste nelle nostre società. Molti studiosi insistono sul fatto che lo sviluppo tecnologico corre a una velocità tale che gli individui non riescono ad assorbire l’istruzione necessaria a operare ad alti livelli con le nuove tecnologie. Rimanendo indietro, si accettano lavori meno qualificati (nel senso che ci viene richiesta una qualificazione, o un’istruzione, di medio livello, o di basso, o di bassissimo livello, o nullo) e così finiamo nella situazione di essere pagati poco per lavori a bassa qualificazione.
Galbraith non nega che le trasformazioni tecnologiche abbiamo un ruolo importante nella nuova geografia sociale ed economica della disuguaglianza. Però nota anche che tutto questo rimanere indietro non lo nota: quanti laureati fanno lavori che non hanno bisogno di una laurea? Galbraith dunque dice qualcosa di leggermente diverso: ci sarà anche questa corsa tra tecnologia, che si aggiorna a ritmi vorticosi, e istruzione, che si costruisce e si aggiorna più lentamente. Ma molte di queste dinamiche hanno a che fare con questioni tutto sommato più semplici: se sei un operaio in una regione che si sta deindustrializzando, non puoi “aggiornarti” o fare nuova formazione. Molto peggio, sei tagliato fuori. Le regioni geografiche sono facili da vedere, ma ci sono spazi identificabili nella nostra struttura economica e sociale che magari non sono geograficamente localizzabili ma sono abitati da individui in carne e ossa — spazi, in altre parole, frantumati nel contesto delle nostre città e regioni—che includono persone che strutturalmente non riescono più a crescere con il resto dell’economia. Così rimangono indietro, prime vittime della crescente disuguaglianza.

 

A. C. – Immaginando per un momento la stasi e la saturazione del complesso fenomeno della Globalizzazione, con il raggiungimento di un equilibrio economico globale accettabile, quanto l’attuale interesse tecnologico per l’automatismo e la robotica potrebbe, dal vostro punto di vista, tradursi in un tentativo accelerato di riduzione del costo del lavoro? In un quadro di ottimizzazione dei processi produttivi e organizzativi, la problematicità sociale, ora connessa alla disuguaglianza economica, potrebbe ripresentarsi in una forma storica diversa?

M. A. & A. S. – La robotica è la vera nemica del mondo del lavoro, citando Milanovic, uno dei più profondi conoscitori del tema della disuguaglianza economica, e indubbiamente questo sviluppo accelerato del suo utilizzo avrà sempre maggiore impatto su occupazione e salari. Il dibattito sul rapporto tra progresso tecnico e occupazione è antico e mai risolto e fondamentalmente si gioca sui diversi scenari ipotizzabili nel breve oppure nel lungo periodo. Già nel 1817 Ricardo ne parlava diffusamente nel capitolo 31, intitolato appunto On machinery, del suo fondamentale contributo On The Principles of Political Economy and Taxation, affermando che aveva mutato opinione e che si era poi convinto «that the substitution of machinery for human labour, is often very injurious to the interests of the class of labourers» aggiungendo tuttavia che «If a landlord, or a capitalist, expends his revenue in the manner of an ancient baron, in the support of a great number of retainers, or menial servants, he will give employment to much more labour, than if he expended it on fine clothes, or costly furniture; on carriages, on horses, or in the purchase of any other luxuries». In altri termini, la risposta alla domanda “quale sarà l’effetto dell’automazione sul lavoro umano” – sostituendo lo Stato moderno al proprietario terriero e al capitalista ricardiani – è: dipende. Dipende da quali strade si apriranno per impiegare l’offerta di lavoro ridondante, ovvero, da quali obiettivi sociali ci porremo.
Da un punto di vista di vista sicuramente più elitario, ma non meno affascinante, Keynes – nel suo famosissimo Economic possibilities for our grandchildren (1931) – affrontava il problema nell’ottica del lungo periodo, sottolineando come, in un mondo che la tecnologia avrebbe liberato dagli affanni del lavoro e dalle costrizioni quotidiane, il genere umano avrebbe potuto finalmente pensare alle cose importanti della vita, tempo libero e cultura in primo luogo.
Quanto alla problematicità sociale, il mondo non ne sarà mai privo. La disuguaglianza è di certo un elemento di forte problematicità sociale, che sicuramente si intensificherà se il dualismo robotica/lavoro umano dovesse permanere e acuirsi. 

 

Anna Castagna – Aristotele (384/83a.C.-322/21a.C.) nella sua riflessione politica individuava alcune forme di governo degenerate. Oggi come allora si teme per la correttezza delle modalità di convivenza collettiva. Non solo, come argomentato, «la disuguaglianza economica mina – almeno potenzialmente – la democrazia»4 ma anche il nostro stesso stile di vita frenetico potrebbe, verosimilmente, compromettere l’effettività qualitativa di una sostanziale collaborazione democratica. A vostro avviso quanto potrebbe essere importante o fattibile tentare di trovare un sano equilibrio tra la partecipazione economica e l’approfondimento personale e interpersonale del nostro contesto socio-politico?

Michele Alacevich e Anna Soci – Questa è una domanda enormemente importante, ma è impossibile rispondere. La disuguaglianza economica mina la democrazia, è vero. Però provate, come esperimento mentale, a costruire una società egualitaria; considerando dunque non solo i mille imprevisti che vanno di traverso al “grande pianificatore centrale”, ma anche le diverse preferenze e i diversi desideri, tutti legittimi, che caratterizzano gli individui. Vedrete che o inizierete a eliminare chi non crede nel vostro esperimento (mentale) o inizierete ad accettare qualche compromesso, cioè ad accettare qualche grado di disuguaglianza in nome della convivenza. Bene, qual è il giusto livello di compromesso?
Questo è solo un punto di partenza, perché non siamo neppure d’accordo con chi dice che, in base a questo esempio, il grande conflitto è tra uguaglianza e libertà. Non è vero, perché la disuguaglianza porta mancanza di libertà. Disuguaglianza e illibertà vanno mano nella mano come care amiche. Il problema è, come al solito, più complesso, e non si risolve con uno schema, ma con un processo continuo di deliberazione informata.
Quindi permetteteci di puntare in una direzione diversa dalla vostra domanda: guardiamo alla qualità e salute dei corpi intermedi? Quei soggetti sociali che intermediano le diverse istanze, i diversi desideri, le diverse esigenze, ed esistono perché mediano il conflitto sociale in forme negoziali. O guardiamo a come ci informiamo? L’indipendenza e qualità dei media in Italia?

 

A. C. – Si è soliti affermare che il tempo è denaro. Oggi in una prospettiva di work-life balance quanto la promozione di un tempo libero più orizzontale potrebbe dare impulso e spazio a maggiori, nuove e non, attività o settori? Potrebbe la diversificazione economica essere la chiave di una equilibrata suddivisione sociale?

M. A. & A. S. – La diversificazione economica, di per sé, può andare in una direzione o nella direzione opposta in termini di equilibrio tra “vita” e “lavoro”. E neppure le nuove tecnologie offrono soluzioni univoche e sicure. Il telelavoro da casa, per esempio, è stato fondamentale per affrontare l’emergenza pandemica e spesso è utilissimo per conciliare le esigenze di vita e lavoro di tante persone, pensiamo a un genitore single. Detto questo, aiuta a preservare il tempo libero? Aiuta a migliorare la qualità della vita? Abbiamo i nostri dubbi. Diciamo che spesso aiuta a vivere, che è molto, ma è un’altra cosa.

 

A. C. – Un’ultima domanda: dalla lettura del vostro libro mi sembra di capire che in realtà non si possa parlare e discutere di economia senza anche presupporre, esprimere e progettare una determinata e definibile visione valoriale. Quanto potrebbe essere auspicabile un’attività congiunta tra Economisti e Filosofi per la formulazione di soluzioni davvero efficaci alla drammaticità economica e sociale della nostra contemporaneità?

M. A. & A. S. – Rispondiamo alle due domande congiuntamente perché toccano lo stesso tema di fondo, che potremmo chiamare il rapporto tra scienza ed etica. E’ ben noto che nel 1932 Lionel Robbins – professore alla London School of Economics nonchè uno dei maggiori esponenti della teoria marginalista, ovvero la teoria ortodossa ancora largamente dominante in economia – pubblicò un libro destinato a segnare un salto evolutivo strutturale nel genoma dell’Economia: An Essay on the Nature and Significance of Economic Science. Là, Robbins la definì: a value-free science. Tradotto, l’etica non doveva interferire. Non è questa la sede per confrontarci con le molte radici di questo paradigma, ma di sicuro possiamo confermare che, fuori da piccole nicchie esterne al corpus principale della scienza economica consolidata, l’affermazione di Robbins è tutt’ora largamente condivisa. Ciò in parte risponde alla seconda domanda perché noi riteniamo che una visione valoriale nell’ambito della nostra professione sia importante e che assolutamente si debba perseguire una collaborazione tra studiosi di ambiti limitrofi (e forse anche lontani) ma diversi, in una ottica di ampia interdisciplinarietà. Riteniamo che questo tema sia largamente condiviso, ma che possa essere ben diverso da quello cui si accennava più oltre, nel senso che una cosa è avere gerarchie di importanza, almeno nel senso di rilevanza sociale, e altro è avere la scala valoriale dentro il ventaglio di strumenti da usare per essere scienziati (anche sociali). Ritornando così alla vostra prima domanda, la maggiore difficoltà che la scienza economica ha incontrato nel definire quale livello di disuguaglianza non sia “intollerabile” dal punto di vista sia sociale che economico è stata… l’opinabilità! Prendiamo come esempio eclatante l’indice di disuguaglianza di Atkinson, uno dei maggiori studiosi di disuguaglianza.  Nel 1970 Anthony Atkinson – dopo cinquant’anni dalle intuizioni, cadute nell’oblio, di Hugh Dalton, grande precursore degli studi sul rapporto tra distribuzione del reddito e benessere economico– rianimò la questione normativa elaborando un indice che misura la perdita di benessere per la collettività causata dalla disuguaglianza. Questo indice dipende crucialmente da un parametro che indica l’avversione della società alla disuguaglianza e, dunque, va ben oltre il concetto stesso di misura, parola piena di oggettività scientifica. Ma chi può dare un contenuto numerico a questo indice? Nessuno. Il successo di questo indice? Un quasi oblio, niente di più che un prezioso frammento per gli studiosi.

 
Anna Castagna
 
NOTE:
1. Ivi, p. XIX
2. Ivi, p. 120
3. Ivi, p. 86 – Citazione dal testo di J.K. Galbraith, Inequality and Instability: A Study of the World Economy Just before the Great Crisis, Oxford University Press, Oxford 2012, p. 48
4. Ivi, p. 104
5. Ivi, p. 143
6. Ivi, p. 119
 
 
[Immagine tratta dalla copertina del libro, photo credits Laterza]
 
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Sei, cento, mille tipi di amore: intervista a Jennifer Guerra

Jennifer Guerra, classe ’95, è una ragazza che si interessa di forti problemi attuali, come dimostra nel podcast AntiCorpi e la sua produzione per The Vision. Si interessa in particolare di femminismo e lotta contro la violenza delle donne. Nel 2020 ha pubblicato per Tlon Il corpo elettrico. Il desiderio del femminismo che verrà, e nel 2021 la sua produzione è arricchita da altri due volumi, in particolare Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario (Bompiani), che abbiamo selezionato anche tra i libri della nostra rivista La chiave di Sophia #18 Pensare l’amore. L’abbiamo incontrata ad Asolo, nel trevigiano, e abbiamo parlato del modo in cui l’amore sia inestricabilmente legato alle condizioni materiali e delle forme d’amore rivoluzionario.
Buona lettura!
 
Giorgia Favero – Come hai giustamente puntualizzato più volte, l’amore è sempre stato al centro dei pensieri umani, come ci riportano dal passato le varie forme d’arte – dalla letteratura alla pittura alla musica e così via; oggi però per la prima volta, trovandoci nella società dei consumi, l’amore vende – in termini di produzioni cinematografiche, fiori, bigliettini d’auguri, cioccolatini, gadget da innamorati, romanzi rosa e così via – e tanto, anche alle persone più “genuine” nella loro concezione dell’amore. Secondo te perché anche chi ha una visione meno materialistica dell’amore cede così facilmente alle favole e alle necessità proposte dalla società dei consumi?
 
Jennifer Guerra – Credo che quello di conformarsi a quello che fanno gli altri sia un bisogno molto umano e comprensibile, quindi se tutta la cultura popolare ci insegna sin da bambine che l’amore si dimostra attraverso determinati consumi, è inevitabile che vi ricorriamo senza pensarci troppo. L’amore in fondo è sempre stata un’esperienza molto “ritualizzata”, se pensiamo anche a tutta la pratica del corteggiamento e del matrimonio e all’importanza che ha avuto nella storia. Ma c’è anche un’altra componente interessante, che ha analizzato Eva Illouz nei suoi studi, ed è quella del bisogno di eccezionalità che ci aspettiamo dall’amore. Per amore facciamo pazzie, spendiamo tanti soldi e vogliamo fare esperienze fuori dall’ordinario. E questo è legato anche al fatto che l’amore stesso ci viene presentato come un’esperienza straordinaria, non come qualcosa che si coltiva nel quotidiano.
 
Giorgia Favero – Nel tuo libro Il capitale amoroso (Bompiani 2021) racconti sei tipologie di amore – eros, agape, mania, storge, pragma, ludus – proposte dal sociologo canadese John Alan Lee Questo mi fa pensare anche alle tante tipologie di “amanti”, individuate e soprattutto “etichettate” in tempi recenti all’interno della comunità LGBT+, sia in termini di interesse sessuale che di genere. Queste etichette ci aiutano a creare ordine all’interno di temi complessi, ma non rischiamo di ingabbiarli troppo? Soprattutto un sentimento gigantesco come l’amore, non potremmo pensarlo più “fluido”?
 
Jennifer Guerra – Posto che io sono una persona eterosessuale, e quindi non so esprimermi sulla necessità o meno di etichette per la comunità LGBTQ+, penso sia comunque importante riconoscersi in una parola. Per me quello che bisogna rifuggire è dare una connotazione morale all’amore, all’orientamento sessuale o a determinati stili relazionali. Faccio un esempio. Per me la critica alla monogamia non può coincidere con l’esaltazione morale del poliamore come una forma d’amore “più giusta” o “più etica”, come spesso accade. Uno dei punti saldi del libro è che l’amore non ha gerarchie ed è sempre giusto e uguale per tutti.
 
Giorgia Favero – Capitale e rivoluzione: due parole che nella prospettiva contemporanea sembrerebbero non poter convivere. Quale fil rouge le lega invece nel tuo libro in relazione all’amore?
 
Jennifer Guerra – L’espressione “capitale amoroso” ricalca l’espressione bourdieusiana “capitale sociale” e intende sottolineare come ci sia una relazione strettissima tra le condizioni materiali di esistenza e l’amore, sia dal punto di vista ideologico che concreto. Un amore rivoluzionario è un amore che spezza questo legame e si libera dalle maglie del capitale, trovando una sua autonomia.
 
Giorgia Favero – In giugno è uscita la nostra rivista dedicata all’amore, nella quale partendo dall’analisi di Max Scheler abbiamo indagato il rapporto tra amore e conoscenza. Secondo la tua opinione personale, in che modo si legano questi due concetti?
 
Jennifer Guerra – La mia visione dell’amore è quella di un amore generativo, che mette in circolo nuove energie e nuovi stimoli che si realizzano anche nella produzione di conoscenza, specialmente quando nasce dalle difficoltà. Penso ai modi creativi con cui la comunità LGBTQ+ ha espresso l’amore in tempi di repressione, o all’amore che muove i migranti per ricongiungersi con le proprie famiglie o i propri cari. L’amore è una pratica di resistenza quotidiana e, accordando quello che sostiene Bell Hooks, penso che quando sorge dalla marginalità sia in grado di produrre conoscenza.
 
Giorgia Favero – Ancora oggi, nel 2022, con tutte le conquiste delle lotte femministe non solo in termini di diritti ma anche di consapevolezza da parte delle donne, ci troviamo propinata dai media e molto spesso anche dalla letteratura una visione del desiderio e del piacere femminile dal punto di vista maschile; ciò crea false aspettative nelle giovani e in generale meno consapevolezza anche nelle donne adulte. Come fare a raccontare finalmente il piacere e il desiderio delle donne dal punto di vista delle donne?
 
Jennifer Guerra – La risposta è piuttosto semplice: farlo raccontare alle donne. Sembra un’ovvietà, ma finché alle donne saranno preclusi i mezzi creativi non può esserci un cambiamento nello sguardo e dovremo accontentarci di uomini che cercano di immedesimarsi nelle nostre esperienze incarnate. 
 
Giorgia Favero – Tra i tanti sfregi al corpo delle donne cui assistiamo quotidianamente, è sempre più frequente la marcia indietro sull’aborto, uno dei diritti conquistati dalle lotte femministe della fine del secolo scorso e uno dei più importanti sul piano della scelta. A guidare in buona parte questo corso al contrario sono gli Stati Uniti in cui, Stato dopo Stato, si mette in discussione questa possibilità. È un tema questo di cui hai avuto modo di parlare anche nel podcast AntiCorpi che hai curato negli anni scorsi, per cui ti chiedo: hai individuato nei tuoi approfondimenti un motivo o una serie di motivi di questo inaccettabile ripensamento?
 
Jennifer Guerra – Erano anni che i gruppi femministi e per i diritti annunciavano una stretta sul tema dell’aborto, per cui non sono rimasta sorpresa da come si è evoluta la situazione. I gruppi antiabortisti sono sempre più forti, organizzati e potenti e hanno infiltrato molti dei loro esponenti nelle amministrazioni nazionali e federali. Hanno approfittato di un clima politico teso e divisivo: fino agli anni ’80 negli Usa l’aborto non era un tema che interessava particolarmente alla destra, mentre oggi è diventato uno dei loro cavalli di battaglia. È tutto coerente con la deriva autoritaria e identitaria che ha preso la destra a livello globale, dove la difesa dello status quo e dei “nostri valori” è diventata la via privilegiata per assicurarsi i voti di chi teme i cambiamenti sociali. 
 
Giorgia Favero – Da laureata in Lettere ma cultrice del pensiero a 360 gradi, hai deciso di tornare sui banchi di scuola per studiare più da vicino la filosofia. Cosa ti ha indotto a questa decisione?
 
Jennifer Guerra – Sentivo che mi mancavano le basi: mi sembrava assurdo leggere testi novecenteschi che mettevano in discussione Platone o Hegel senza sapere bene cosa sostengono questi filosofi. Avrei potuto colmare le mie lacune da sola, ma lavorando e facendo già tanta ricerca per conto mio, sentivo la necessità della struttura che solo un corso universitario ti può dare. 
 
 
Giorgia Favero 
 
 
[Photo credits Andrea Passon]
 la chiave di sophia 2022

Libertà come responsabilità: intervista ad Antonio Calò

Quello dei migranti sembra un tema irrisolvibile ed è soprattutto molto divisivo tra chi accoglierebbe indiscriminatamente e chi allo stesso modo respingerebbe. Il tratto in comune tra queste due posizioni sembra quello di non avere però a portata di mente una soluzione al problema – o almeno un tentativo di risoluzione – né nell’uno né nell’altro caso. 

Così ne abbiamo parlato con qualcuno che una soluzione invece sembra averla: Antonio Silvio Calò, professore di religione e filosofia al liceo classico di Treviso, molto amato tra gli studenti ma balzato qualche anno fa anche agli onori della cronaca. Ne avevamo già parlato in questa intervista e, agli albori del 2022 e con un libro fresco di stampa (Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile, UTET) lo abbiamo risentito per fare “il punto della situazione”.

 

Giorgia Favero – Si può fare. L’accoglienza diffusa in Europa (nuovadimensione, 2021) è uno dei suoi ultimi libri e racconta la sua esperienza personale quando la sua famiglia ha aperto le porte a sei ragazzi del Nord Africa. Un modello che ha portato in Europa e che si è tradotto nel progetto EMBRACIN di cui è capofila il Comune di Padova ma coinvolge sei Paesi europei. Qual è la sua proposta per affrontare la delicata questione migratoria?

Antonio Calò – È una proposta che può funzionare solo laddove c’è la volontà politica, perché in termini “tecnici” ha tutte le carte in regola per funzionare. L’accoglienza diffusa è un modo di accogliere le persone riportando il tutto a dei nuclei molto ristretti, da 3 a 6 persone; un’accoglienza più decorosa, sia per chi è accolto ma anche per chi accoglie, rispetto a queste grandi caserme da grandi numeri, i cosiddetti hub, in cui tutti subiscono grande pressione psicologica e sociale. Per me l’accoglienza diffusa – e il mio modello 6+6×6 – è un graduale inserimento, e sia chiaro che accogliere non significa solo dare da dormire e da mangiare – che sono sicuramente importanti – ma significa offrire un luogo dove dare effettivamente la possibilità di un inserimento professionale reale e concreto, affinché la persona si possa realizzare nel nostro contesto. Per questo è un’accoglienza che deve assolutamente contemplare l’accompagnamento. EMBRACIN ha già avuto l’approvazione della Commissione Europea ed è partito l’anno scorso ma il Covid naturalmente lo ha molto rallentato. L’idea di fondo è fare in modo che questa accoglienza diffusa e il conseguente graduale inserimento si possa applicare in sei paesi europei (Cipro, Grecia, Spagna, Italia, Slovenia e Svezia, con osservazione da parte della Germania). Ogni Comune di al massimo 5mila abitanti accoglie un nucleo di sei persone, ogni Comune di 10mila abitanti due nuclei e così via: se lo moltiplichiamo per i 58 milioni di italiani, e poi per i 500 milioni di europei, io vi garantisco che l’accoglienza diffusa limiterebbe moltissimo il tema dei migranti. Se c’è riuscita la famiglia Calò a ospitare sei persona in casa propria, sarebbe grave che non riuscisse a farlo un Comune.

 

G.F. – Questo libro raccoglie anche due importanti firme: quella di Romano Prodi e quella di David Sassoli, probabilmente uno dei suoi ultimissimi scritti. Chi era per lei l’ex Presidente del Parlamento Europeo?

A. C. – David Sassoli era un amico, un’ispirazione. Di lui apprezzavo particolarmente quella sua volontà di essere in sintonia con i giovani, in ascolto: tutte le questioni legate ai giovani per lui erano primarie. E poi, certo… chi è che ha fatto la proposta che Antonio Calò diventasse Cittadino Europeo 2018? David Sassoli. Chi è che ha messo in piedi una tavola rotonda alla sede dell’Onu a Ginevra sulla questione del rapporto Unione Europea e Unione Africana? David Sassoli. Chi è che veniva ad accoglierci quando venivamo con le classi a Bruxelles o a Strasburgo? David Sassoli. E chi si prendeva con Antonio Calò un panino con la porchetta e una birra in una trattoria a discutere di famiglia, di figli e del futuro dell’Europa? David Sassoli. Piango un grande amico e farò di tutto perché la sua testimonianza, il suo essere veramente cittadino europeo, possa continuare a esserci in modo attivo, ma non celebrando una persona – quando si celebrano le persone le seppelliamo due volte! Il cuore di David deve ancora pulsare tra di noi perché ha tantissime cose da dirci e da realizzare. La prefazione al mio libro è un manifesto sull’Europa, su cosa fare e cosa non fare, sull’importanza che per lui ha sempre avuto il tema dei migranti. Così si legge alla fine del suo scritto: «Questo libro ci fa capire che l’accoglienza è possibile, che si può accettare l’altro in modo rispettoso, che si può lavorare bene insieme ed essere persone capaci di creare delle relazioni senza pregiudizi e senza schemi. Tutto questo è possibile ed è indispensabile».

 

Giorgia Favero – Libertà è una parola molto amata ma forse addirittura abusata: sembra che l’altro (a maggior ragione se diverso, straniero, di altro genere, altra fede, altro orientamento sessuale, altra opinione) con il suo semplice esistere soffochi la propria libertà. Mi affido alle parole di un grande filosofo, Emmanuel Lévinas, secondo il quale bisogna abbandonare la logica della libertà dell’io per abbracciare la libertà come responsabilità. Responsabilità, per Lévinas, significa prendersi cura della libertà altrui. Secondo lei è un modello che può funzionare?

Antonio Calò – È un’idea del tutto condivisibile: per me l’unica libertà possibile è la libertà nella responsabilità. Io dico sempre ai miei studenti che nel momento in cui sono dentro a quella scuola, nel momento in cui conoscono, la conoscenza vera implica sempre una responsabilità: sapere è già essere responsabili e già muoversi all’interno della responsabilità, perché non puoi dire a te stesso di non sapere, se hai conosciuto non puoi dire a te stesso di non aver conosciuto. Se non pratichi la libertà nella responsabilità tu stai praticamente uccidendo l’individuo, nel senso che quell’individuo non può vivere senza questo atto che è l’atto di coscienza vero, il sapere di sapere, e che non può essere sterile: è fecondo, è un sapere nel noi, non nell’io. Il problema fondamentale è che oggi il mondo è chiuso dentro un Io che è diventato un gigante infinito, mentre il Tu e il Noi sono stati messi da parte e rischiano di essere oggetti semi-sconosciuti. Non solo nei confronti dei migranti, che sono semplicemente dei poveri in terra straniera. Anche nei confronti dei poveri italiani voltiamo la testa, pur essendo in realtà aumentati moltissimo ultimamente: eppure per noi non esistono, non dobbiamo vederli, non dobbiamo sentirli. Quindi vanno benissimo le caserme, vanno benissimo i luoghi dove non si vedono, non si sentono, non si toccano, non ci disturbano la vista.

 

G. F. – Spesso accade che di fronte fenomeni di grande portata in molti si sentano troppo piccoli per poter fare la differenza: le migrazioni, i cambiamenti globali, le discriminazioni di genere. Per citare Bauman, «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». Ma allora qual è (ammesso che ci sia) il potere del singolo?

A. C. – Io non ho la presunzione di cambiare le cose, io so solo una cosa: che sono cambiato io e questo per me è tantissimo. Io ho sentito urlare la mia coscienza di credente e di civile, e questa mi ha portato insieme a mia moglie ed ai miei figli ad aprire una porta, eppure di certo non posso pretendere che tutti sentino e provino che quello che ho sentito io. Ci sono tantissime cose che si potrebbero fare, partendo dal donare quello che si può – non solo in base ai possedimenti materiali ma anche in base alla propria sensibilità. Si può donare qualcosa di materiale ma anche semplicemente il proprio tempo e/o la propria professionalità. Sicuramente ci si può informare, che è già un primo passo per far andare meglio le cose. Ci sono mille modi per far capire che non ci siamo voltati dall’altra parte, che non siamo figure omertose, che non facciamo finta di non vedere e di non sentire. Sentirsi testimoni di qualcosa è già una presa d’atto importantissima nella coscienza di una persona. Essere cittadini attivi vuol dire essere partecipi di quello che sta succedendo.

 

Giorgia Favero – Nella rivista numero 16 dedicata all’educazione abbiamo parlato anche di scuola, evidenziando come nei programmi scolastici attuali manchi la componente del “tirare fuori” e si lavori soprattutto nell’ “istruire” i bambini e i ragazzi. Lo scrittore Alessandro D’Avenia nei suoi libri scrive che ogni insegnante nella sua ora di lezione può fare la rivoluzione: lei prova a fare la rivoluzione nella sua ora di lezione?

Antonio Calò – A dire la verità io ho sempre fatto la rivoluzione, e penso che la rivoluzione stia nella passione e nella relazione. La passione, quello in cui credi, che porti avanti con studi e aggiornamenti continui, non è sufficiente se non si è in grado di trasmetterla e di relazionarsi con gli altri – in questo caso con i tuoi studenti. Se non si è capace di fare questo, la scuola è già fallita. La rivoluzione – che è una cosa bellissima – avviene ogni giorno nel momento in cui creiamo questo ponte con gli altri e ogni giorno ne dobbiamo creare uno nuovo: ogni lezione deve permettere a ciascun ragazzo e ciascuna ragazza di sentirsi accolto nella sua ricerca come studente, per crearsi un’identità, alimentare quella voglia di porsi delle domande. Ma la rivoluzione deve essere dentro di noi affinché la coscienza continui a crescere.

 

Per approfondire, vi lasciamo la lettura del libro Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile (UTET, 2022):

“Calò, professore di storia e di filosofia, attraverso la sua esperienza costruisce un decalogo civile, una nuova educazione pubblica, indissolubilmente legata alle nostre radici cristiane, in cui lo stato di diritto non travalica mai l’empatia, in cui l’indifferenza non è più una opzione”
(dalla quarta di copertina)

Buona lettura e grazie ad Antonio Calò per questa intervista!

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Facebook.com]

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