Nietzsche e la storia al servizio della vita “pratica” dell’uomo

Nel 1874 Nietzsche pubblica la Seconda inattuale ossia Sull’utilità e il danno della storia per la vita, uno scritto che è destinato a far discutere e che si pone come intento anche quello di fornire una risposta ad alcune domande fondamentali: c’è progresso nella storia? La storia in che modo può giovare alla vita dell’uomo? Nietzsche afferma che in primo luogo la storia serve per la vita e soprattutto per l’azione, evidenziandone il suo aspetto di utilità pratico:

«Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritirarci dalla vita e dall’azione, o addirittura per l’abbellimento della vita egoistica e dell’azione vile e cattiva. Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (F Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1974).

La Seconda inattuale è figlia del suo tempo, un momento di incertezza politica e culturale, in cui le istituzioni democratiche vacillano e vi era una crisi di valori sui quali la Germania aveva costruito la sua unità nazionale; una crisi dettata dalla presenza sempre più ingombrante del progresso tecnologico e del capitalismo che aveva modificato tutti i rapporti interni ed esterni tra gli Stati. In questo clima di incertezza l’uomo, afferma Nietzsche, cerca di trovare conforto nella storia o, meglio, cerca di trovare una spiegazione, una giustificazione del suo presente nei grandi personaggi del passato, mitizzando pericolosamente la propria cultura e innalzando falsi idoli che non permettono di studiare oggettivamente il presente. L’uomo, allora, sintetizza Nietzsche ha utilizzato la storia concependola come monumentale, antiquaria e critica

Chi ha concepito la storia come monumentale (ossia gli storicisti positivisti dell’800), afferma il filosofo, ha visto nel passato esempi da venerare anche nel presente; cerca di intravedere negli eventi del passato i prodomi di quello che è il presente, vedendo nel passato solo il fasto e la grandezza degli eventi, senza considerarne le contingenze politiche e sociali che li resero possibili. La storia sembra divenire un rimedio contro la rassegnazione e grazie al passato si cerca di stimolare un’idea di progresso possibile rivivendo il passato nel presente; ma c’è un grave pericolo: abbellendo, infatti, i fasti del passato e non scovando le reali dissomiglianze e somiglianze con il reale, criticamente non si fa altro che generare un’analisi erronea non creatrice, ma solo veneratrice.

La storia è in costante mutamento e cercare di ergere dei pilastri universali non è altro che un anacronismo che non aiuta nell’azione l’uomo: la storia, come afferma il filosofo, deve guidare l’uomo nella vita e nell’azione, il suo compito non è solo pedagogico, ma politico ed esistenziale. L’uomo deve creare grazie alla storia, con la storia, e non deve venerarla vivendo nel passato ed ecco che Nietzsche ci fornisce un ulteriore esempio: la storia antiquaria. Essa, a differenza della monumentale, non è più un rimedio verso il presente, anzi diventa un modello statico da venerare: si venerano i modelli passati rinnegando il presente. Questo tipo di storia, secondo il filosofo, è la più insidiosa perché porta a galla ideali immutati del passato nel presente: per fare un esempio concreto si può citare il fascismo. Esso, infatti, ha riportato alla luce ideali nocivi come quello di Patria, Nazione cercando di fare leva sul ricordo di quello che era stata l’Antica Roma e il suo Impero, creando un pericoloso anacronismo storico. Infatti, riportando ideali e concetti senza adeguarli al tempo in cui si vive, non si genera altro che una nuova idolatria del passato che non è capace di generare nulla di nuovo e che a lungo andare non riesce a adeguarsi al presente ed i suoi nuovi orizzonti.
Il vero storico deve mirare a ragionare sui concetti contestualizzandoli e puntano a guardare il presente sempre con occhio creatore. La storia non è il punto di arrivo dell’analisi per la vita dell’uomo, ma deve esserne il punto di partenza.

L’ultimo tipo di storia di cui ci parla Nietzsche è la storia critica: la storia che si fa critica del passato e che volge il suo sguardo al futuro, un tipo di storia che vuole crearsi ex-novo liberandosi del peso degli eventi passati ed essa si serve solo della potenza creatrice. Anche in questo caso il pericolo è che l’uomo cada nell’oblio, ossia dimentichi ciò che è stato e lo possa ricreare.
La storia, come afferma Nietzsche, non è una scienza e non può essere studiata oggettivamente, ma grazie all’antropologia e la politica deve essere un punto di partenza per uno studio totale sull’uomo, uno studio che gli sia di aiuto pratico.
L’uomo, infine, nella vita pratica ha bisogno necessariamente di conoscersi per agire, ha bisogno di comprendersi per poter comprendere l’altro e riscoprirsi parte di una realtà complessa: quest’analisi è fornita dal metodo filosofico che si mette al servizio dell’uomo e del reale, tornando a ricoprire dopo anni il suo ruolo primario, aiutando l’uomo a riconoscersi attraverso la società e la sua natura.

Francesca Peluso

[Photo credit Thomas Kelley via Unsplash]

banner-riviste-2023_lug-01

Il sapere tradizionale oggi e l’opera di Gilbert Simondon

Gilbert Simondon è uno dei filosofi del ‘900 francese più discussi; la sua opera è definita enciclopedica per la vastità di temi affrontati e per l’enorme contributo al dibattito filosofico e scientifico contemporaneo: egli non solo analizza il rapporto che intercorre tra uomo e tecnica ma torna alle radici della riflessione filosofica riformulando un nuovo vocabolario in cui ambito scientifico-pratico e teorico-umanistico si intrecciano.

Il tema della tecnica e del relativo rapporto con l’essere umano, di cui Simondon si occupa nel Du mode d’existence des objets techniques, suo testo più celebre, è ampiamente discusso soprattutto dopo le due guerre mondiali, dal momento che durante gli anni ’40 vi era stato un notevole sviluppo delle biotecnologie, degli studi sulla genetica e delle nuove scoperte nel campo della fisica e della chimica che avevano messo in discussione il sapere tradizionale. L’oggetto tecnico, allora, diventa il cardine del pensiero simondoniano, in quanto simbolo del sapere umano che si concretizza e che racchiude in sé la storia dell’evoluzione umana:

«L’oggetto tecnico individuale non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui c’è genesi. L’unità dell’oggetto tecnico, la sua individualità, la sua specificità, sono i caratteri di consistenza e di convergenza della sua genesi. La genesi dell’oggetto tecnico fa parte del suo essere “umano”. L’oggetto tecnico è ciò che non è anteriore al suo divenire, ma presente a ogni tappa del suo divenire; l’oggetto tecnico uno (sic) è unità di divenire».1

L’essere umano aveva superato limiti che si ritenevano invalicabili, si era posto questioni che avevano ridefinito il suo ruolo nella società e aveva cercato di trovare nuove risposte nelle scienze, incentrando su di esse la riflessione morale e teorica tralasciando però un aspetto importante del sapere: la metafisica.
La metafisica rappresenta il capo da cui ogni scienza prende vita ma il problema, per Simondon, sta nel momento in cui nella storia del pensiero filosofico questa si è estraniata dalle scienze pratiche per chiudersi in sé stessa. La svolta del pensiero simondoniano è aprire le porte a un Nuovo Umanesimo in cui ogni arte, ogni scienza e ogni riflessione sia intrecciata all’altra: l’uomo si riscopre parte del mondo e trova in sé stesso il germe dell’alterità.

Non può esserci alcun progresso nelle scienze se non si tiene presente lo studio dell’essenza dell’essere umano e di ciò che lo circonda, l’uomo non è pura materia ma, come lo definisce Simondon, è un «soggetto transindividuale»: è materia e spirito in grado di intrattenere un rapporto dinamico relazionale con il mondo. Arrivare a un Nuovo Umanesimo vuol dire dimostrare l’inscindibile legame tra le scienze e la riflessione filosofica che grazie alla scienza si rinnova a sua volta nei temi e nei dibattitti.
Simondon non si ferma alla teorizzazione di un Nuovo Umanesimo, ma aggiunge che l’individuo contemporaneo dovrà costruire un Nuovo Umanesimo tecnologico: l’oggetto tecnico (con esso Simondon intende ogni artefatto creato artificialmente) non è altro che il risultato di un processo creativo e normativo necessario all’uomo. Non si può considerare semplicemente l’alienazione dell’individuo da esso e ciò che ne consegue, ma bisogna considerare il rapporto dinamico che l’oggetto stesso instaura con l’individuo come un vero e proprio soggetto relazionale: l’oggetto tecnico ha una matrice umana, da cui nasce, da cui viene creato e che lo permea e grazie a questa acquisisce la capacità di modificare la realtà stessa.

È così che sino agli anni ’90 del ‘900 il filosofo viene ricordato in Francia come il filosofo della tecnica. Ciò è sicuramente riduttivo dal momento che non viene tenuto conto dell’enorme contributo dell’opera e del suo influsso per la metafisica occidentale contemporanea. In ultimo è importante ricordare che la riformulazione del vocabolario filosofico è la base che getta Simondon per rielaborare alcuni concetti cristallizzati come la materia, l’individuo o l’essere: le definizioni non si servono più solo di termini derivanti dal lessico umanistico, ma il filosofo utilizza termini derivanti dalla chimica, fisica e dalla biologia a dimostrare la tesi della sua rivoluzione.

Simondon è ritenuto un pioniere della nuova metafisica occidentale e rivoluziona la riflessione filosofica dimostrando nuovamente la sua universalità e necessaria importanza per il sapere umano, il suo messaggio è di rinnovamento del sapere e ancora oggi è di monito per chi si accinge a parlare di uomo, tecnica e tecnologia.
Ponendo l’accento sulla proposta di rinnovamento del sapere del filosofo, si può affermare, infine, che il filosofo conclude un percorso iniziato con la rivoluzione scientifica in cui l’essere umano si faceva soggetto nel suo mondo; ora l’individuo non solo è soggetto ma è un soggetto agente e relazionale, aperto agli altri di cui si riscopre parte. Questa è l’immagine di uomo contemporaneo che bisognerebbe inseguire, capace di congiungere passato e presente attraverso l’intreccio della storia del sapere e delle idee che lo formano e lo hanno formato.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, 2012, pp. 60 -61.

[Photo credit Ramòn Salinero via Unsplash]

la chiave di sophia

Una citazione per voi: il Panta Rhei di Eraclito

 

• TUTTO SCORRE •

 

Ogni volta che la nostra mente si fissa sul cambiamento di qualcosa – una stagione, una situazione, un momento che dà il via al successivo – siamo testimoni del divenire. Pur trattandosi del più comune degli eventi (non c’è appunto momento che non lo riguardi), pensare il divenire non è la più comune delle cose. 

L’espressione che la cultura antica ci ha tramandato per descrivere inarrestabile divenire delle cose è pánta rhei, “tutto scorre”. Questo detto viene attribuito ad Eraclito, riconosciuto universalmente come il filosofo del divenire, colui che nel modo più preciso e potente è riuscito a cogliere l’essenza di quel divenire che per lui era fuoco eterno. 

Pur non essendo stato scritto da lui – sarà Simplicio ad attribuirgli l’espressione – è a Eraclito che questo detto viene associato, proprio al filosofo che vide l’assolutezza del divenire come essenza del cosmo. Nessun aspetto della realtà può sottrarsi al cambiamento e per questo «nello stesso fiume non è possibile entrare due volte», come recita un suo celebre frammento

Ma cosa si indica di preciso con pánta rhei? Il pánta indica il Tutto, mantenendo nella parola il riferimento alla molteplicità e distinguendo altre accezioni della totalità che invece risaltano l’unità assoluta. È corretto dunque tradurre il pánta di Eraclito con “tutte le cose”, un molteplice che è «un insieme comprensivo» caratterizzato proprio in questo rapporto di «appartenenza dell’uno al molteplice». Di questo pánta cosmico Eraclito ne predica il rhein, lo scorrere. Il verbo greco che il filosofo usa non è casuale e rimanda a uno scorrere perpetuo, calmo, ciclico, come quello di un fluido che mantiene il liquido sempre in movimento e al contempo sempre lo stesso. Un fluido si dà come un movimento stabile, che non perde nel cambiamento la propria essenza e per questo lo stesso concetto è attribuito all’essere in generale, che cambia senza compromettersi. Il mutamento porta le cose fino al loro limite, oltre il quale divengono altro per tornare eternamente al punto precedente, fedelmente all’eterna natura che per Eraclito e la cultura greca in generale, costituiva uno sfondo immutabile e immodificabile.

Pensare il divenire significa allora non solo pensare al mutamento, alle sue conseguenze o agli autori che meglio lo hanno guardato in faccia, ma pensare l’essere stesso cercando di afferrarne l’ineffabile centro.

 

Luca Mauceri

 

NOTE:
1. Eraclito, Dell’Origine, fr. 30, DK 22 B 91, Feltrinelli, 2012, p. 78.
2. M. Heidegger, E. Fink, Eraclito, Laterza, 2010, p. 20.

Luca Mauceri è anche autore del saggio proprio dedicato al Panta rei di Eraclito nella nostra ultima pubblicazione con Nodo Edizioni, Dodici filosofi Dodici massime. Potete sfogliarla a questo link.

[Immagine rielaborata da Google Immagini]

copertina-abbonamento2021-ott

Martin Heidegger e l’origine dell’opera d’arte

Martin Heidegger ha sempre privilegiato momenti alternativi a quelli dell’argomentazione filosofica tradizionale, quali la meditazione sul linguaggio e sull’esperienza della verità nell’arte. Questo atteggiamento trova espressione nel saggio L’origine dell’opera d’arte, che risale agli anni Trenta ma che viene pubblicato nel 1950. Nello scritto si trova il cuore della riflessione heideggeriana sull’arte attraverso l’indagine sul nesso tra arte e verità, anche se il suo contenuto viene rigorosamente determinato dal problema dell’essere. L’essere rimane, infatti, la questione da pensare sia nel “primo”, che nel “secondo” Heidegger e la posizione di questo saggio è di fondamentale importanza, poiché in esso il filosofo scopre un luogo concreto in cui poter fare esperienza dell’essere in quanto tale, nonché del suo carattere epocale (svelante).

Per Heidegger l’opera d’arte, che si tramanda di epoca in epoca, non è riducibile a un unico significato, ma, al contrario, si può tradurre in modi sempre diversi. Persino la totalità dei significati assunti in tempi diversi non può racchiudere il suo senso ultimo, altrimenti non avrebbe più niente da dirci. Nell’opera d’arte non vi è mai nulla di completamente chiaro: luce e oscurità, velatezza e dis-velatezza, tra loro inscindibili, sono i caratteri che la rendono vibrante e che dispongono l’uomo all’ascolto e alla meraviglia di fronte a essa. È importante ricordare che il titolo L’origine dell’opera d’arte non deve essere inteso come l’annuncio di una ricerca per determinare ciò da cui l’opera d’arte ha origine; esso indica piuttosto che l’opera d’arte è un’origine, nella misura in cui è il mondo che essa stessa apre e illumina. Heidegger tenta dunque una considerazione alternativa rispetto all’estetica tradizionale, che interpreta fenomeni quali bellezza, poesia e arte solamente in riferimento all’uomo come soggetto, levando loro portata ontologica.

Intraprendere la ricerca dell’essenza dell’opera d’arte, seguendo le opinioni comuni accettate, conduce a quello che Heidegger nei primi paragrafi chiama “un circolo vizioso”, da cui però il filosofo non intende uscire, ritenendo coerente sostare in esso e nella contraddizione da esso evidenziata: «Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un riepilogo, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero»1. Per comprendere l’essenza dell’arte, Heidegger parte allora dal concetto di “cosa”, dato che l’opinione comune considera l’opera d’arte come una cosa, dotata, in più, di valore estetico. Successivamente il filosofo passa alla nozione di mezzo, che sembrerebbe intermedia fra quella di cosa e di opera, per poi scoprire che non è la comprensione della cosa a spiegare l’opera d’arte, ma, al contrario, è la comprensione dell’opera d’arte che permette di capire il significato della cosa.

Heidegger abbandona quindi le opinioni correnti sulla cosità dell’opera d’arte, poiché è la stessa opera d’arte che rivela l’essere cosa della cosa ed è sempre in virtù di essa che si svela l’essenza del mezzo. La tesi di Heidegger è che, nello stesso momento in cui si è in presenza di un’opera d’arte, le cose cessano di funzionare e appaiono nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose. Possiamo affermare, a questo punto, che l’arte è il porsi in opera della verità: «È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità»2. Se l’arte ha dunque fondamentalmente a che fare con la verità, di conseguenza la meditazione sull’arte assume i lineamenti di una speculazione ontologica che realizza una riformulazione del problema dell’essere e dell’ente. L’arte, secondo il filosofo, è un evento che fonda la verità come accadimento, ovvero come qualcosa che si dà storicamente. A ben vedere, allora, l’opera d’arte non appartiene semplicemente a un mondo, ma lo istituisce ed è alla base della sua fondazione.

Questa fondazione o apertura, però, rappresenta soltanto uno dei due momenti, inscindibili e correlati tra loro, di quell’evento di verità che è l’opera d’arte, quello che Heidegger chiama “Mondo”. Infatti, nel suo semplice schiudersi e venire alla luce, l’opera d’arte porta con sé il suo mondo storico e il suo fondamento, ciò che chiama “Terra”. La Terra è il chiuso rispetto all’aperto del mondo, attorno al quale si dispiegano i rapporti che costituiscono l’abitare storico: «Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo»3. Il rapporto tra Mondo e Terra viene visto da Heidegger come una lotta. «Sarebbe però una banale falsificazione di questa lotta se la si intedesse come contesa e rissa»4 poiché entrambi gli elementi occorrono l’uno all’altro per potersi manifestare: il Mondo necessita del terreno su cui edificarsi, mentre la Terra, per potersi indirettamente svelare, abbisogna del Mondo.

Questa lotta tra Mondo e Terra, che si gioca nell’alternarsi di nascondimento e di svelamento, costituisce, secondo il pensatore tedesco, l’essenza della verità. Si tratta della verità intesa come non-nascondimento, «nel ripensamento della parola greca a-lètheia»5 o, secondo il termine tedesco che usa Heidegger, “Lichtung”: verità nel senso di spazio illuminato all’interno di una zona oscura. Nell’uso heideggeriano del termine “Lichtung” c’è il rimando metaforico alla radura del bosco rischiarata dai raggi del sole e alla foresta buia. Infatti Heidegger insiste non solo sulla luminosità, ma anche sull’oscurità che la circonda.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, p 4
2-3-4-5. Ivi, p. 23, p. 31, p. 34, p. 36

[Photo credit unsplash.com]

banner-riviste-2023_lug-01

Il “De rerum natura” di Lucrezio

Il De rerum natura (Sulla natura delle cose) è l’unica opera che abbiamo di Lucrezio – conservata integralmente da due codici del IX secolo denominati per la loro forma O (Oblongus) e Q (Quadratus) e riportata alla luce dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1418 – ed è la prima opera di poesia didascalica della letteratura latina. Pietra miliare della storia del pensiero occidentale per l’afflato universale di quel Lucrezio “relativamente ottimista”, secondo l’analisi di Francesco Giancotti (1989), o al contrario poeta dell’angoscia, secondo le riflessioni di Luciano Perelli (1969).

Articolato in sei libri e composto in esametri, il poema, sin dal titolo – che traduce l’opera più importante di Epicuro, Sulla natura appunto – intende divulgare l’epicureismo, dottrina eversiva e antitradizionalista che invitava al disimpegno dall’attività pubblica (si pensi al làthe biósas di Epicuro, cioè “vivi in disparte”) e al piacere, inteso come sommo bene intellettuale cui pervenire mediante l’atarassia, cioè l’assenza di turbamenti. Inoltre, altri cardini dell’epicureismo erano sostenere che gli dei esistono ma non intervengono nelle vicende umane e non fare alcuna distinzione tra religio e superstitio. Ciò viene esemplificato nel primo libro (vv.62-101) dove Lucrezio sceglie il sacrificio di Ifigenia come exemplum per affermare i delitti della religione: « […] la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione […] fu proprio la religione a produrre scellerati delitti […] Tanto male poté suggerire la religione».

Riprendendo modelli antichi quali Esiodo ed Empedocle, sebbene Epicuro avesse condannato la poesia come fonte di inganni che allontana dalla comprensione razionale dell’universo, Lucrezio sceglie la poesia epico-didascalica per raggiungere anche gli strati più alti della società – proprio quelli che non si erano opposti all’influenza della cultura greca – e perché considera la dolcezza dei versi un antidoto all’amara medicina della filosofia, come spiega ad esempio nel proemio del quarto libro: «Come i medici quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa fino alle labbra  e intanto beva l’amaro succo dell’assenzio […] così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica  […] ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio e quasi aspergerle del dolce miele delle Muse» (vv.10-25).

Lucrezio indaga le cause dei fenomeni, esortando il lettore-discepolo a seguire un percorso educativo, proponendogli una verità sulla quale lo chiama a prendere posizione e sostituisce alla retorica del mirabile la retorica del necessario, articolando spesso le sue argomentazioni intorno alle formule non est mirandum, nec mirum, necesse est (non c’è da meravigliarsi, è necessario) cioè i fenomeni della natura sono necessariamente concatenati tra di loro e connessi con una serie di cause oggettive. Altra cifra stilistica propria del poema è il sublime: gli scenari e i toni grandiosi sono volti a spronare il lettore affinché sia specchio della sublimità dell’universo, affinché si emozioni per la natura e affinché sia egli stesso un eroe come Epicuro, che ha liberato l’umanità dai terrori ancestrali.

Con vivace concretezza espressiva, quasi con una percettibilità corporale della vasta gamma di esempi esplicativi volti a illustrare l’argomentazione astratta, da un punto di vista contenutistico l’opera tratta l’origine della vita sulla terra e la storia dell’essere umano. Né gli animali né gli uomini sono stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze come il calore e l’umidità del terreno; il nostro mondo, nato dall’aggregazione di atomi che si muovono nel vuoto e si urtano tra di loro, è un casuale circuito di nascita e di morte e anche l’anima non si sottrae ai processi di disgregazione e muore con il corpo. Afferma così il poeta filosofo nel terzo libro (vv.839-842):

«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale […] quando non esisteremo più e si produrrà la separazione del corpo e dell’anima […] di certo nulla potrà accadere a noi che allora più non saremo […]».

L’opera è maestra anche per l’uomo contemporaneo; Lucrezio si contrappone alle visioni teleologiche del progresso umano e confuta la tesi stoica della natura provvidenziale: non c’è stata nessuna mitica età dell’oro, la natura è matrigna, segue le sue leggi e nessun dio può piegarla alle esigenze dell’individuo. Egli inoltre valuta positivamente il progresso materiale se volto al soddisfacimento dei bisogni primari, lamenta invece con una visione sconsolata la decadenza morale che il progresso porta con sé e che fa sorgere bisogni innaturali come l’ambizione e la guerra che corrompono la vita dell’uomo, che avrebbe invece bisogno di poche cose, secondo la dottrina epicurea.

 

Rossella Farnese

 

[photo credit Robert Lukeman via Unsplash]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

Plutarco e l’arte della calma

«Ciascuno di noi ha in sé gli scrigni della serenità dell’anima e dell’inquietudine, e proprio la diversità degli stati d’animo dimostra che i vasi del bene e del male non giacciono sulla soglia di Zeus ma nella nostra anima»1.

Potremmo riassumere così il pensiero plutarcheo contenuto all’interno dell’opera dedicata alla tranquillità d’animo: La Calma. All’interno di questo testo Plutarco, scrittore e filosofo greco nato nella piccola città di Cheronea intorno al 46 d.c., delinea quella che potremmo definire come un vero e proprio itinerario verso la tranquillità d’animo. L’autore fornisce infatti tutta una serie di consigli pratici rivolti soprattutto alla prevenzione e all’insorgere di stati d’ansia e turbamenti eccessivi. Questo perché ansie, angosce e paure sono tutti stati d’animo che quotidianamente o meno affliggono le nostre menti impedendoci di vivere una vita felice e a pieno delle nostre capacità.

È vero, tutti noi siamo già a conoscenza di piccoli rimendi o trucchi in grado di arginare temporaneamente queste situazioni, ma nella maggior parte dei casi essi non bastano e restiamo profondamente delusi quando non riusciamo a protendere nel tempo la nostra serenità. Alcune persone, infatti, per natura più sensibili, ne risentono maggiormente quindi per loro può risultare più complicato che per altri sentirsi in pace e tranquilli.
E allora che fare? Come affrontarli al meglio impedendo che la nostra salute emotiva ne risenta eccessivamente?

Secondo Plutarco, una delle motivazioni principali per le quali questi stati d’animo insorgono risiede nel fatto che troppo spesso compiamo degli errori di valutazione che nella maggior parte dei casi ci portano a ritenere ad esempio, che la fonte della nostra tranquillità e della nostra felicità risieda nelle cose esterne, quando essa dipende solo ed esclusivamente dal nostro stato d’animo e dalla maniera nella quale decidiamo di affrontare le cose.

È quindi inutile cercare all’esterno tanto i responsabili quanto i rimedi della nostra irrequietezza: «come, dunque, potrebbe venirci un qualche aiuto dalle ricchezze o dalla fama o dall’autorità in assemblea per raggiungere la pace dell’anima e una vita non tempestosa, se l’uso di tali beni non porta massimo piacere a coloro che li possiedono ed anzi sempre si accompagna ad essi il rammarico per tutti gli altri beni che non si hanno?»2.

Ma non solo, anche il guardare troppo ai nostri difetti dimenticandoci dei beni presenti di cui disponiamo o il dolersi delle cose perse e il non saper godere di quelle superstiti, come del resto anche il trascurare i beni comuni non tenendo conto del fatto che siamo vivi e che godiamo di buona salute sono da ritenersi responsabili di ciò.

Quello che occorre fare, come scrive il filosofo greco in La calma appunto, è riabilitare il nostro erroneo modo di pensare, preparandosi per tempo, senza attendere di arrivare, come troppo spesso facciamo, all’insorgere di uno stato di turbamento, in quanto allora sarà troppo tardi: le passioni avranno già preso il sopravvento sulla nostra ragione e placarle risulterà ormai quasi impossibile.

«Come infatti i cani […], se da un lato si agitano a qualunque grido, dall’altro sono placati solo dalla voce loro familiare, così anche i dolori dell’anima, una volta che si sono svegliati, non è facile farli cessare, se ragionamenti ormai familiari e consueti non intervengono a frenare quelli nuovi che si stanno sollevando»3.

Ecco allora l’invito rivolto a ogni uomo ad organizzare durante i periodi di tranquillità un piccolo repertorio, una piccola “cassetta degli attrezzi”, composta di ragionamenti utili per vincere le passioni, da utilizzare nel momento del bisogno. Ed è proprio nella costruzione di tale repertorio che la filosofia, con le sue analisi e continue domande fornisce il massimo aiuto. Questo perché nella visione di Plutarco il compito primo della filosofia e in particolar modo dell’etica, è quello di condurre l’uomo sulla via della virtù e della vera felicità attraverso lo sviluppo della ragione, intesa come guida essenziale e necessaria della nostra parte passionale-emozionale-irrazionale.

Quindi, ascoltate Plutarco, guardatevi dentro ed individuate la fonte di serenità e di calma già presente in tutti noi. Solo accogliendo con positività qualunque risultato ci venga dalla sorte e assegnando a ogni cosa un posto tale per cui, sia ciò che è utile sia ciò che è indesiderabile possa giovarci, saremo in grado non solo di ricavare gioia e piacere dalle cose esterne, ma anche dalle situazioni più amare sapremo trovare qualcosa di conveniente ed utile per tutti noi.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

NOTE:
1. Plutarco, La Calma, p. 49.
2. Ivi, p. 33.
3. Ibidem.

[Photo credit unsplash.com]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

Una citazione per voi: Hannah Arendt e la banalità del male

«Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male»1.

La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1964) è uno dei testi più noti di Hannah Arendt (1906-1975), filosofa ebrea-tedesca. Arendt era stata inviata in Israele dal New Yorker per assistere al processo a Otto Adolf Eichmann, gerarca nazista e tra i maggiori responsabili della messa in atto della “Soluzione Finale”, catturato – seppur senza il consenso del governo argentino – in un quartiere suburbano di Buenos Aires l’11 maggio 1960 e chiamato a rispondere davanti al tribunale distrettuale di Gerusalemme a 15 imputazioni, avendo commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra durante il secondo conflitto mondiale.

Quello del male è un tema che Arendt tratta a più riprese, e che viene sistematicamente indagato già nel suo primo importante lavoro Le origini del totalitarismo (1951). In questa sede, in particolare nel riferirsi alla snaturazione degli esseri umani che avviene in un totalitarismo, emerge il concetto di male radicale, inteso come male assoluto in grado di sottrarsi sia al perdono, sia alla punizione; male inaccettabile che riduce gli uomini a esseri superflui perché colpisce le radici – quali il pensiero e l’agire spontaneamente – della nostra esistenza, trasformando gli esseri viventi a un fascio di azioni programmabili.

Il processo a Eichmann condusse Arendt a riformulare le proprie argomentazioni: se, nel testo sopra citato, ad affiorare è l’idea che il male peggiore sia appunto quello radicale, in La banalità del male la studiosa si spinge oltre, dichiarando che il male non è mai radicale, è soltanto estremo, esso non possiede una profondità ma si diffonde in superficie, come un fungo, invadendo il mondo intero. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di attingere alla profondità, di pervenire alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustato perché non trova niente. È qui la sua “banalità”2.

Nel partecipare a tutte le 120 sedute del processo, Arendt delineò la figura di Eichmann in modo piuttosto esaustivo, evidenziando gli aspetti comportamentali e fisici più rilevanti – nel senso di utili a corroborare la propria teoria. Ciò che emerse è che uno dei maggiori fautori della Shoah, responsabile operativo delle deportazioni di migliaia di ebrei era in realtà un uomo normalissimo e la sua mostruosità consisteva proprio nel non essere mostruoso. Eichmann era una persona mediocre, che nella sua mediocrità non aveva fatto altro che eseguire gli ordini che gli erano stati imposti, si esprimeva con frasi fatte ma era allo stesso tempo caratterizzato da una particolare incoerenza nel parlare, durante il giorno indirizzava i treni verso i vari lager e la sera rincasava e accarezzava i propri figli. Egli, fino all’istante precedente alla propria impiccagione, si sentì deresponsabilizzato, un anonimo burocrate che aveva fatto il proprio lavoro. È in questo suo essere sempre presente a se stesso che il funzionario nazista si distingue, per esempio, da Claude Eatherlay, il pilota e meteorologo statunitense che diede il via libera allo sgancio della bomba atomica che distrusse Hiroshima, il quale, assalito da una depressione senza scampo tentò più volte il suicidio perché comprese di essersi macchiato di uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità.

Ciò che veramente destabilizzò Eichmann fu invece la fine della guerra: «l’8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania, fu per lui un tragico giorno soprattutto perché da quel momento non avrebbe più potuto essere membro di questo o di quell’organismo […] non avrebbe più ricevuto direttive da nessuno […] in breve, gli aspettava una vita che non aveva mai provato»3. Eichmann era diventato una non-persona, egli non era più in grado di agire spontaneamente e individualmente, non possedeva gli attributi del pensiero e del ricordo. Per gli esseri umani, infatti, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquistare stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade. «Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti»4. Solo il bene è profondo e può essere radicale; il male è quindi banale.

L’invito che Arendt ci fa è quello di prestare attenzione a quando aderiamo o non aderiamo a un’indicazione solo perché così ci è stato riferito, a quando decidiamo di obbedire senza porci alcuna domanda, a quando siamo talmente asserviti a quella che per noi è la normalità da non essere più in grado di individuare le situazioni nelle quali è venuto meno il tempo della riflessione e quello della scelta: in breve, “la banalità del male” ci ricorda la necessità del pensiero.

 

Chiara Frezza

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 201627, p. 259.
2. Cfr. H. Arendt, G. Scholem, Due lettere sulla banalità del male, Nottetempo, Milano, 2007.
3. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., p 40.
4. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2010, p. 81.

lot-sopra_banner-abbonamento2021

Una citazione per voi: Schopenhauer e la vita come sogno

 

• LA VITA E I SOGNI SONO PAGINE D’UN SOLO LIBRO •

 

Tra gli autori che più e meglio hanno parlato del sogno troviamo Arthur Schopenhauer, che nel suo capolavoro – Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) – ci offre un interessante punto di vista. In un intrico di argomentazioni sul nesso tra rappresentazioni vere e astratte, Schopenhauer ci conduce ad una domanda spinosissima: «non potrebbe essere tutta la vita un sogno?», un interrogativo che richiama quello di Cartesio delle Meditazioni metafisiche. Se però il filosofo francese intendeva risolverlo nella degradazione del sogno a mera illusione, Schopenhauer approderà all’esatto opposto.

Anzitutto, ciò che possiamo sostenere è che il ricordo del sogno sia meno nitido e a fuoco della realtà, ma non che il sogno stesso sia meno concreto di quella. Non sono valide, inoltre, né la visione di Kant – che voleva il sogno meno autentico perché regolato dalla casualità –né la prospettiva empiristica di Hobbes, secondo cui il sogno differisce dalla vita in virtù della rottura che lo caratterizza al risveglio. Diventa allora legittima un’altra ipotesi: non sarà che non c’è rottura e alterità alcuna tra le due dimensioni? Balza agli occhi del filosofo tedesco come si dia quest’affinità strettissima, della quale non si deve aver motivo di vergogna come vorrebbero razionalismo e logocentrismo. Anzi, come hanno sostenuto in tanti – da Platone fino allo Shakespeare de La tempesta – potremmo pensare che il mondo reale sia avvolto come un sogno da un Velo di Maya, e che noi stessi non siamo altro che «il sogno di un’ombra». Leggiamo la celebre immagine che a tal proposito ci offre Schopenhauer:

«La vita e i sogni son pagine d’un solo e medesimo libro. La lettura condotta con continuità e coerenza si chiama vita reale. Quando però l’ora consueta della lettura (il gioco) giunge al termine e viene il tempo del riposo, noi spesso continuiamo a sfogliare il libro e ad aprire, senza ordine e continuità, una pagina ora qui ora là»1.

È vero, nella vita c’è più rigore che nel sogno e ci sembra che le due realtà siano a se stanti in virtù dell’evento del risveglio, che segna il passaggio da una vita mnemonica ad una mondana. Ma, guardando più da vicino, ecco che cogliamo l’illusione nella realtà così come scorgiamo un senso perfino nell’incubo più assurdo. Qui una pagina più ordinata, causale e rigorosa, ma non meno velata dal gioco delle apparenze; lì una pagina creduta caotica ma che di fatto è scritta nei caratteri di un disordine ordinato; qui un capitolo dall’ampio sviluppo, che trova il suo epilogo al momento della morte; lì uno breve, che inizia e finisce nell’arco di una notte.

 

Nicholas Loru

 

NOTE:
1. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, Torino 2013, I, §5, p. 47.

lot-sopra_banner-abbonamento2021

Hybris alimentare: mangiare carne secondo Plutarco

Se qualcuno ancora pensa che la questione del non mangiare carne animale sia una moda nata non più di qualche decennio fa, occorre che sia prontamente smentito. Sono molti gli intellettuali della storia che hanno deciso di privarsi della carne o che si sono dichiarati pubblicamente contrari, tra cui Tolstoj, Leonardo, Darwin, Gandhi, fino a Plutarco e ancora prima a Pitagora.

Al tema Plutarco, autore e filosofo greco del I secolo d.C, ha dedicato tre scritti contenuti nei Moralia, gli scritti morali. I componimenti, secondo la lettura che ne dà il critico Dario Del Corno, intendono «promuovere una rivalutazione dell’universo animale, che sia ispirata da criteri di giustizia, comprensione e solidarietà, tali da contrastare nell’abitudine degli uomini gli impulsi allo sfruttamento e alla crudeltà» (Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, Adelphi 2001, p. 34). I tre scritti non possiedono un piano omogeneo e affrontano la questione con una propria prospettiva, uno stile e un espediente narrativo diversi.

Il primo, Sul mangiare carne, è una polemica contro l’uso alimentare della carne, avvalorata anche dalla teoria pitagorica della metempsicosi1 (ma senza elevarla ad argomentazione principale). Nel secondo, Gli animali usano la ragione, la cosa interessante è che a perorare la causa sia un maiale, uno dei compagni di Ulisse trasformato in animale da Circe, Grillo, che della sua nuova condizione non si dispiace poi tanto. L’ultimo s’intitola Tra gli animali sono più intelligenti i terrestri o gli acquatici? ed è un dialogo sul modello platonico tra più personaggi. L’idea di Plutarco qui è che gli animali siano dotati di ragione, benché “imperfetta” rispetto a quella dell’essere umano, e che tra i tanti animali esiste semplicemente una differenza di grado.

Ciò che colpisce, soprattutto i più scettici, è che se non si sapesse nulla di Plutarco e ci si tuffasse nella lettura, si potrebbe anche pensare che sia vissuto poco tempo fa. Il motivo è la straordinaria attualità delle sue principali argomentazioni.

La prima riguarda l’uso smodato della carne da parte dei suoi contemporanei, una vera e propria «hybris alimentare» come la definisce ancora Dario Del Corno, scrivendo che Plutarco manifesta il suo sgomento nel trovarsi «al centro di un’attualità devastata dal delirio del consumo […] un’epoca che ha scelto di abbandonare la via maestra della natura e della misura, lasciandosi travolgere dall’ansia dell’eccesso» (ivi, p. 17). In sostanza, ci dice il pensatore greco, siamo ben lontani da quegli esseri umani che si nutrivano di animali per necessità e che la fame portava a fare qualcosa di contrario alla loro natura. «Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo siete spronati ad avere sete di sangue, voi che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza?» (ivi, p. 57). E ancora: «ancora più terribile è vedere […] che gli avanzi sono più abbondanti di quanto è stato consumato. Queste creature dunque sono morte inutilmente!» (ivi, p. 60). Plutarco punta il dito contro i suoi contemporanei e li taccia di tracotanza (hybris): non uccidete per necessità ma per diletto, «per mangiare in modo più raffinato», un atto insolente, ingiusto, eccessivo, ingiustificabile. Sono parole scritte quasi duemila anni fa ma si sposano perfettamente nel mondo contemporaneo occidentale in cui finisce nel cestino quasi il 40% di quello che si produce a livello alimentare2.

Ma perché dovrebbe essere “ingiusto” cibarsi di carne? E qui arriviamo alla seconda argomentazione di Plutarco, secondo il quale gli animali sono dotati di ragione, sebbene non come quella dell’essere umano che è perfezionata «dalla cura e dall’educazione». Chi più chi meno, così come tra noi umani, gli animali hanno ragione, provano sensazioni, hanno coraggio, amore, viltà, socialità, paura, astuzia, stoltezza. Lo asserisce facendo numerosissimi esempi in tutti e tre gli scritti, echi di neonata zoologia. Ma Plutarco va anche oltre: gli animali sono più virtuosi degli uomini, ed ecco perché il greco Grillo preferisce la sua forma di maiale. Sono più virtuosi dell’uomo perché «la vita di noi animali è governata in genere dai desideri e dai piaceri necessari, mentre con quelli non necessari ma soltanto naturali abbiamo un rapporto che non conosce sregolatezza né eccesso» (ivi, p. 92). La soddisfazione dei piaceri dunque non ha a che fare con la violenza. «Se poi credete che non si debba chiamarla ragione né intelligenza,» conclude il filosofo «è il momento di cercare un nome più bello e più onorevole per definirla» (ivi, p. 98).

«Non è semplice estrarre [dall’essere umano] l’amo del mangiare carne, impigliato e conficcato com’è nella brama del piacere» scrive Plutarco; ma nel 2021, quando il consumo di carne è così strettamente legato anche alla crisi climatica e sociale che ne consegue, vale la pena renderlo un costante argomento di conversazione.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.La reincarnazione, la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro.
2.Si riporta una delle innumerevoli fonti. L’industria della carne si pregia di essere la virtuosa in termini di sprechi: solo il 5% di ciò che viene buttato dal consumatore. Sarebbe utile consultare qualche dato sullo spreco durante la filiera, anche se l’utilizzo degli scarti di macellazione come ossa, teste, organi ecc. vengono effettivamente reimpiegati in altre industrie.

[Photo credit unsplash.com]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

Una citazione per voi: Blaise Pascal e la canna pensante

 

• L’UOMO È UNA CANNA PENSANTE •

 

La definizione di uomo offerta da Pascal si inserisce in questo passaggio tratto da i suoi Pensieri:

«L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale».

Questa è una delle frasi, la più famosa, che Blaise Pascal (1623-1662) ci consegnò verso il termine della sua esistenza, conclusasi a soli 39 anni. Vissuto nella Francia del XVII secolo, in un arco di tempo così breve riuscì a esprimere il suo genio lasciando al mondo opere sia scientifiche che filosofico-teologiche.

Precocemente orfano di madre, fu istruito dal padre che poté coltivare il fenomenale talento del figlio, soprattutto per la matematica e le scienze in generale. Pubblicò la sua prima opera a 19 anni, ne seguirono molte altre, nonostante i frequenti problemi di salute che lo portarono alla morte precoce nel 1962. La sua ultima opera, della quale possediamo gli scritti originali, fu pubblicata postuma poiché non riuscì a terminarla. Per questo, tutti i suoi appunti furono organizzati e pubblicati con il nome di Pensieri, invece che con un titolo che rendesse l’idea del progetto finito, cioè quella di scrivere un’apologia del cristianesimo.

In questa meravigliosa raccolta troviamo le vette del pensiero filosofico e teologico che Pascal raggiunse consapevole che la malattia lo stava per sottrarre al mondo. La sua riflessione si muove tra ragione e sentimento, nell’ottica di persuadere i lettori alla ricerca sotto scorta della fede come unica forma sensata del vivere umano. È proprio la ricerca di senso che muove gli esseri umani, i quali, nonostante non siano altro che canne, sono delle canne pensanti, il che li rende gli esseri più dignitosi proprio davanti la morte. Infatti, l’universo un giorno ci inghiottirà, ma esso non saprà nulla di tutto ciò, mentre noi, pur soccombendo, sapremo di essere annientati. Il paradosso della nostra forza è anche la nostra debolezza, e viceversa. La coscienza, insomma, racchiude tutta la dignità umana, qualcosa di unico e speciale che per Pascal va devoluto alla ricerca ponderata, tra ragione e sentimento, della via verso Dio. Ferma è da parte sua la condanna della vita dedita ai divertimenti e alla vanità («non nella durata e nello spazio che non sapremmo riempire»), tutti moti di inutile irrequietezza, che ci distraggono dalla statica postura che si addice a una vita appartata, nel silenzio e nello studio. Le distrazioni ci impediscono di vedere esposta la nostra fragilità, ma anche di dare degno svolgimento a quella facoltà così unica che solo gli umani detengono.

Così, questo paradossale binomio “fragilità-pensiero” si condensa dentro l’immagine della canna pensante, che, povera, tende a fluttuare ad ogni colpo di vento, quando invece dovrebbe sforzarsi di resistere al divenire per fissarsi umilmente sulla sua precaria singolarità, pensando a Dio e alla promessa di salvezza, in conscia attesa della falce che la mieterà.

 

Pamela Boldrin

 

banner-riviste-2023-aprile