Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottometta per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto la nozione di diritto e quella di forza sono nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

banner-riviste-2023

Alla ricerca dei confini del paesaggio attraverso Wittgenstein

Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein pone la tautologia e la contraddizione come situazioni-limite del discorso sensato, ossia come confini non valicabili dell’espressione linguistica del pensiero, perché al di là di essi vi sarebbe semplicemente non-senso. Esse rappresentano quindi i casi marginali della dicibilità; mentre nello spazio tra questi due termini è concepibile una descrizione articolata del mondo.

La tautologia ripete sempre l’identico (piove o non piove) e si dice che è incondizionatamente vera, perché non ha alcuna condizione di verità. Invece, la contraddizione pone e toglie contemporaneamente qualcosa, sotto il medesimo rispetto (piove e non piove) e per questo si dice che non è vera sotto nessuna condizione. Né tautologia né contraddizione sottostanno a delle condizioni, come invece accade alle proposizioni sensate, impedendo di istituire relazioni determinate ad altro. Secondo Wittgenstein questa posizione di confine conferisce ai due termini il carattere di essere privi di senso e tuttavia non insensati, poiché essi continuano ad appartenere al linguaggio, essendo il modo in cui esso dà segno del proprio estinguersi. Nella tautologia e nella contraddizione il dissolversi di ciò che può essere detto, e di come può essere detto, delinea la funzione ambivalente di queste due situazioni: da un lato delimita il dicibile e dall’altro lato si rivolge a ciò che non può essere detto perché semplicemente si mostra. I confini possono significare non solo le frontiere di sensatezza del mondo, ma anche luoghi di indagine, in cui esplorare, oltre il dicibile, quello che non può essere comunicato ma solo mostrato.

Senza approfondire ulteriormente le questioni del Tractatus, tautologia e contraddizione, in quanto limiti del discorso sensato ma non insensate, portano a riflettere e ad insistere sui margini di senso del nostro modo di esprimerci per comprendere il mondo, muovendosi nelle periferie dove forse la sensatezza viene meno ma si intravedono nuove opportunità di ricerca. In questa prospettiva, parallelamente alla funzione-limite di tautologia e contraddizione nel linguaggio, si potrebbe domandare quali sono i confini del paesaggio e quali sono le condizioni di possibilità dei nostri spazi di vita in quanto strutture di senso di una medietà equamente distante dal difetto e dall’eccesso. Se il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni che lo vivono, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni, si può provare a delineare i poli di una zona temperata, entro la quale si esprimono i contesti di vita delle persone, manifestazione della varietà dei patrimoni culturali e naturali e fondamento delle loro specificità.

Come la tautologia, a un livello generale, si associa all’idea di ripetizione della stessa cosa o del medesimo segnale che ha come effetto la realizzazione del massimo ordine, perché in essa non c’è posto per l’irrompere di eventi casuali o disturbanti, nell’ambito del paesaggio l’identità, portata alla sua estrema declinazione, richiama la pretesa di immutabilità di un territorio e della comunità che lo abita. Si parla, ad esempio, di società tradizionali che tramandano pratiche e comportamenti culturali definitivamente codificati. Si parla anche di purezza e incontaminatezza di ambienti naturali e sociali da preservare, che presuppongono un modello archetipo ed edenico. Si pensi, infine, al concetto di tipicità, utilizzato oggi in diversi ambiti tra cui il cibo e l’architettura, come espressione e garanzia di persistente autenticità.

Dall’altra parte dell’identità sta la contraddizione, dove qualcosa è posto e tolto contemporaneamente: tutto pretende di comunicare con tutto e il risultato è il massimo della casualità e del movimento. Le relazioni con ciò che è diverso proliferano incontrollate e le connessioni che è possibile istituire sono tutte equivalenti, spegnendo sul nascere l’emergere di un senso. All’interno del discorso sul paesaggio, la contraddizione viene rappresentata da luoghi che sono non-luoghi, come quegli spazi della provvisorietà descritti da Marc Augé (aeroporti, parchi-divertimento, centri commerciali…), attraverso cui non si possono decifrare relazioni sociali, storie condivise o segni di appartenenza collettiva. I non-luoghi sono incentrati soltanto sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata da impermanenza, transitorietà e individualismo.

Tra la monotonia dell’identità e la cacofonia della diversità assoluta, risuona la polifonia del paesaggio. In mezzo a questi due poli risiedono dunque le zone temperate dove si creano le condizioni di possibilità per la costituzione di paesaggi vivibili. Eppure, come la tautologia e la contraddizione fanno parte del discorso sensato, in quanto segni limitanei del suo estinguersi, anche identità e non-luoghi appartengono al paesaggio. Questa posizione di confine conferisce ai due termini di essere le frontiere della vivibilità dei luoghi e tuttavia non invivibili. Essi allora ci invitano a insistere sugli spazi di senso marginali, ma non per questo insensati, e sul senso degli spazi marginali, ma non per questo emarginati.

Umberto Anesi

[Photo credit Qingbao Meng via Unsplash]

banner-riviste-2023

Giordano Bruno e la metafora dell’asino

Prigionieri del ritmo incalzante della vita, quante volte lasciamo che fatti ed eventi che dovrebbero esigere la nostra attenzione passino inosservati o ci lascino indifferenti? Probabilmente non ce ne accorgiamo perché ci siamo assuefatti al modus vivendi dell’inerzia mentale: non vogliamo perdere tempo e allora scegliamo di non voler sapere e ci accomodiamo nello stato della “beata ignoranza”. Forse lo facciamo per una questione di quieto vivere o forse perché abbiamo bisogno di anestetizzarci emotivamente, dal momento che la vita già “ci regala” preoccupazioni in abbondanza.

Il filosofo nolano Giordano Bruno, nella Cabala del Cavallo Pegaseo (1585), definiva questa forma di ignoranza «asinità di semplice negazione», ritenendo che sia propria di coloro «che non sanno, non presumono di sapere» e nondimeno vogliono sapere (cfr. G. Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico, 1985)

L’asinità di semplice negazione è una sorta di moderno analfabetismo di ritorno, da cui ciascuno di noi può essere affetto quando, pur essendo in grado di comprendere, valutare e agire scientemente, per pigrizia intellettuale o per non affaccendarci in problemi che crediamo non ci riguardano, disconnettiamo la ragione e da animali pensanti regrediamo allo stato di asini insipienti, «che tutte le facoltà dell’anima uniscono nella sola capacità di ascoltare e credere» (ibidem).
Così ci disabituiamo a pensare autonomamente e diventiamo bisognosi di una guida spirituale o di un leader carismatico che pensa e decide per noi. Deleghiamo la nostra libera facoltà di ragionare e di agire a delle autorità che ci sovrastano, alle quali, come asini consenzienti, crediamo e obbediamo.
Quante volte ci siamo fatti abbindolare dalle cangianti tendenze della moda, dalla legge del mercato o dagli influencer del momento, che ci instillano gusti che non sono i nostri e bisogni che non abbiamo? E noi, similmente a marionette, mettiamo nelle mani altrui il senso e la direzione della nostra vita, perché non abbiamo elaborato un pensiero nostro, non sappiamo cosa vogliamo, cosa sia giusto o vero, perché, in realtà, non ci soffermiamo a guardare dentro noi stessi, dal momento che farlo costa fatica e coraggio.

L’asinità ha anche il volto della presunzione. Lo sapeva bene Bruno che aveva dovuto scontrarsi con i dogmatici saccenti del suo tempo, che aveva etichettato come «asini per cattiva disposizione». I saccenti, ingabbiati nei “paraocchi mentali” di una dottrina, presumono di essere i depositari dell’unica e incontestabile verità e dunque di non avere più nulla da imparare. E, ostentando un’intransigente quanto sterile superiorità intellettuale, si sentono autorizzati ad avversare, perseguitare e condannare chi è portatore di opinioni differenti dalle proprie.

Bruno aveva coraggiosamente affrontato anche la stolta follia degli «asini per divina acquisizione», gli ignoranti per fanatismo religioso, i suoi carnefici. Il fanatismo religioso non solo riduce la capacità di pensare allo stato di quiescenza, ma inebetisce finanche la coscienza morale. Per cieca fedeltà, il fanatico religioso obbedisce acriticamente all’autorità divinizzata di un leader (politico o religioso) anche quando gli ordina di violare la dignità altrui, trucidare e condannare a morte il cosiddetto nemico, che ha commesso il “reato” di pensarla in modo diverso o che ha manifestato apertamente il suo dissenso.

Ogni giorno i telegiornali ci sbattono in faccia fatti di insensata brutalità, perpetrati dagli uomini contro l’umanità tutta, in nome di un Dio che dice sante le guerre e meritevoli del paradiso gli assassini autorizzati per fede, o a causa di un despota che dispone della legge e della giustizia arbitrariamente. E noi? Non possiamo stare a guardare con un atteggiamento di imperturbabile irresponsabilità. La denuncia di Bruno va oltre il suo tempo e continua a condannare l’asinità che ancora oggi ha il volto negativo dell’arroganza e della stoltezza, dell’inoperosità e dell’indolenza. Ogni qualvolta deleghiamo o lasciamo correre, rinneghiamo la nostra natura di animali pensanti e ci imbestiamo, e, a causa dell’ottusità, diventiamo responsabili così che ricadono su di noi quelle colpe per i mali del mondo che accolliamo agli altri.

Bruno, però, individua anche un’asinità positiva, un antidoto contro quella insana e folle: l’asinità sensata. Quest’ultima, a differenza dell’altra, ha il volto dell’umiltà, perché è constatazione che siamo fallibili e non onniscienti, che rispetto alla verità siamo sempre mancanti, che c’è sempre da imparare. L’asinità sensata è inquieta, non sta comoda nello stato di mancanza, anzi è esortazione costante alla ricerca, impegno quotidiano alla riflessione per l’azione, apertura al dialogo e al confronto. È quel saper di non sapere che allerta la ragione e la coscienza morale a essere vigili, a non perdere di vista i fini, a prestare attenzione a ciò che accade e a farsene carico responsabilmente. È quel bisogno di interrogare per comprendere che ci salva da ogni errore e conflittualità.

Finché rimarremo connessi con la nostra ragione, rimarremo connessi con la nostra umanità, la sapremo esprimere al meglio e faremo del nostro mondo un posto migliore.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit hay s via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Ecolinguistica e globalizzazione nella prospettiva di Arran Stibbe

L’ecolinguistica, un campo di studi sviluppatosi negli ultimi decenni, analizza le interazioni tra la lingua umana e l’ambiente. Il concetto basilare è che non solo l’ambiente influenza l’evoluzione del linguaggio, ma che anche il linguaggio influisce sul modo in cui noi umani percepiamo e interagiamo con l’ambiente. La disciplina è andata costituendosi duranti gli anni ’90 del secolo scorso ed è ancora in fase di definizione. Non c’è infatti ancora pieno consenso tra gli studiosi rispetto alle caratteristiche, alle metodologie, agli obiettivi principali e ai possibili contributi che essa può fornire alla sostenibilità ambientale.

Il Professor Arran Stibbe è una delle figure più eminenti all’interno dell’ecolinguistica. Nell’articolo Ecolinguistica e Globalizzazione (Ecolinguistics and Globalisation 20121, mia traduzione dei seguenti passi), egli analizza gli impatti della globalizzazione sulla lingua. È interessante notare come con “globalizzazione” Stibbe si riferisca a un fenomeno che ha caratterizzato non solo gli ultimi decenni ma l’intera evoluzione umana. Nel testo, infatti, egli indica tre “ondate” di «globalizzazione significativa dal punto di vista linguistico». La prima è costituita dalle migrazioni delle popolazioni orali dalla loro originale “bioregione” a nuovi territori. Con il termine “bioregione” si intende «una regione che ha un particolare tipo di ambiente e caratteristiche naturali» (Cambridge Dictionary). Quando una popolazione si insedia in una bioregione, afferma Stibbe, essa sviluppa degli specifici strumenti linguistici che le permettono di adattarsi a quel particolare ambiente. È proprio per questo, sostiene l’autore, che la specie umana è stata in grado di spargersi così velocemente sulla superficie della Terra. Non solo: questa caratteristica spiega anche il degrado ambientale causato dalle popolazioni che migrarono repentinamente da una bioregione a un’altra senza così avere il tempo di adattare la propria lingua ai nuovi spazi.

La seconda “ondata” di globalizzazione, da un punto di vista ecolinguistico, è identificata da Stibbe nell’invenzione della scrittura. Questo cambiamento epocale da cultura orale a scritta ebbe due principali conseguenze: in primo luogo, fissò le narrazioni orali in strutture rigide, meno duttili alla mutevolezza degli ambienti; in secondo luogo, permise alle lingue delle popolazioni dominanti di diffondersi nel mondo e prendere il posto di infinte lingue locali. A detta di Stibbe, quando società dominanti conquistano o invadono culture non belligeranti, «le lingue che codificano le relazioni con l’ambiente si estinguono, e culture che avevano vissuto sostenibilmente nello stesso luogo per centinaia di anni vengono perdute». Da questa consapevolezza si è sviluppata tra gli ecolinguisti l’urgenza di occuparsi maggiormente della diversità linguistica e, conseguentemente, della biodiversità culturale.

Giungiamo dunque alla terza “ondata”, quella che poi ci riguarda più da vicino dal momento che prende in considerazione l’attuale globalizzazione, quella di cui sentiamo parlare tutti i giorni. Secondo Stibbe, nei tempi più recenti, abbiamo assistito alla «diffusione translinguistica di larga scala di particolari discorsi» come quello del progresso, del neoliberalismo, della crescita economica e del consumismo. Ciò ha avuto due conseguenze principali: da una parte, le narrazioni egemoniche hanno preso il posto di quelle locali nei media e nei sistemi educativi, minando quella preziosa interconnessione tra la diversità geografica e culturale; dall’altra, come nel caso dell’imperativo della crescita infinita, l’essenza dominante delle narrazioni egemoniche «contribuisce direttamente al comportamento ecologicamente distruttivo». In particolare, Stibbe identifica alcuni dispositivi linguistici che hanno un impatto negativo sul nostro rapporto con l’ambiente. Quello della “cancellazione”, per esempio, è il modo in cui vengono rimossi dal piano del discorso aspetti dell’esistenza che in realtà sono fondamentali. Stibbe sostiene che è l’intero mondo naturale ad essere stato rimosso dalla nostra quotidianità, o, quando non del tutto rimosso, a essere stato distorto. Basti pensare, per esempio, alle confezioni che si trovano al supermercato in cui sono rappresentati maiali, galli o mucche che pubblicizzano prodotti con la loro stessa carne.

Da questo breve assaggio dei temi e dei metodi dell’ecolinguistica emerge in modo chiaro che un approccio meramente tecnologico alla crisi ecologica non è sufficiente: la lingua plasma il nostro modo di interagire con il mondo, le nostre stesse azioni, e perciò non possiamo esimerci dall’analizzarla e metterla in discussione. Un buon esercizio può essere, per esempio, quello di osservare criticamente pubblicità, ma anche film, videoclip, riviste e addirittura libri per bambini (tendiamo infatti a sottovalutare il loro potere!) e cercare di comprendere quali sono i pilastri culturali su cui si sviluppano i loro linguaggi. Cogliere creativamente questa sfida all’interno della nostra società, e al contempo farsi ispirare da quelle culture le cui lingue sono riuscite ad adattarsi ecologicamente, è un buon primo passo per affrontare i complessi problemi che viviamo oggigiorno.

 

Petra Codato

NOTE
1.
 https://eprints.glos.ac.uk/1913/1/Ecolinguistics%20and%20Globalisation.pdf .

 

[Photo credit Esther Tuttle via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Filosofia-game. Cercasi beta tester

Senza destinatario, uno scritto rimarrebbe un insieme di lettere allineate prive di significato: un testo è scritto per essere letto, è co-prodotto da scrittore e lettore. Ovvio, no? Forse non in filosofia.

Pensa ai tipici testi d’esame o ricerca, come monografie e paper, in cui l’attenzione riservata al lettore è quasi zero: poiché la sua eventuale presenza non farebbe la differenza per la presunta verità di ciò che va discutendosi, si può scrivere senza prevederne l’esistenza, tanto all’esterno quanto all’interno del testo1. Nel publish or perish della competizione accademica, le idee «diventano professionalmente valide soltanto se scritte», ma in modo tale che «quando vengono pubblicate, sono stampate e rilegate non per essere lette, ma semplicemente per essere state scritte» (I. Bogost, Alien Phenomenology, or What It’s Like to Be a Thing, 2012). Confessa: quante volte con simili testi hai avuto davvero l’impressione che l’autore avesse pensato di rivolgersi a chi legge, cioè di scrivere per e a te?

Parlare ai famigerati “addetti ai lavori” usando il tipico linguaggio-in-codice (continentale o analitico che sia) diventa così uno stratagemma per mascherare l’effettiva mancanza di considerazione del lettore: l’esperto con cui il testo starebbe interagendo finisce per essere un lettore tanto generico e indeterminato da coincidere con lo scrittore stesso! Nella bolla filosofica di Twitter, mi sono imbattuto in diverse lamentele sugli esempi fatti quasi di passaggio dai filosofi per essere più esplicativi e concreti: essi non farebbero altro che esemplificare la condizione privilegiata dello scrivente filosofo accademico (bianco-abile-anglofono-cisgender-eterosessuale-benestante-…) di turno. Se – poniamo – un paper spiega il concetto di sublime richiamando la sensazione provata in cima al Burj Khalifa di Dubai, chi non si è mai trovato in simile situazione (come me) non può sentirsi davvero preso in considerazione dal testo e interagire mentalmente con esso: ne viene escluso. Indubbiamente ci sono esclusioni ben più peggiori ma se qualcuno si dedicasse un giorno a raccogliere e analizzare le tipologie di esempi presenti negli scritti filosofici, potrebbero davvero saltarne fuori delle belle – o brutte.

Ora, inclusività o meno, il punto-chiave rimane: in filosofia oggi è realmente troppo facile rimanere presi dal che cosa, senza curarsi davvero dell’a chi dello scrivere. Per certi versi, è inevitabile: persino lo scrittore più accorto, consapevole e creativo ha dei limiti, e – piaccia o meno – a un certo punto dovrà fare delle scelte e muoversi entro certi vincoli. Uno scritto filosofico non può presentare casi costruiti su misura per ogni lettore, capaci addirittura di variare di volta in volta: oltre a un “super-autore”, occorrerebbe un “ultra-testo”, che all’avvio della lettura consentisse di settare parametri come genere, età, provenienza, residenza, riferimenti musicali, oggetti preferiti e chissà cos’altro. Una filosofia on demand capace di incorporare opzioni, incroci, sovrapposizioni, diramazioni, ecc.: “ciao, vuoi che questo testo parli a un filosofo, una filosofa, unə filosofə, …? Scegli e cominciamo!”. Se pensi che ciò rappresenterebbe la morte della Vera Filosofia™, ti tranquillizzo: niente di simile sarà mai possibile!

Te lo avrei detto davvero, se non esistessero già i videogame! Infatti, ciò che non possiamo fare scrivendo un testo filosofico tradizionale potremmo magari cominciare a farlo “scrivendo” un “testo” filosofico digitale, dinamico e interattivo: una filosofia-game, una filosofia-Bandersnatch. Per i filosofi pronti a raccogliere la sfida, si aprono almeno tre scenari – ma che dico: tre livelli!

Livello1 (principiante). Sei tra gli irriducibili del medium alfabetico? Prova a contaminare la scrittura filosofica old-style con forme e modi da videogame, dando vita a testi scritti “come se” fossero dei videogame, almeno finché possibile, con l’intento di offrire immersività e interattività q.b. a chi legge.

Livello2 (esperto). Riconosci il bisogno di rialfabetizzazione ma non ti senti in grado di reimparare da zero? Candidati a entrare in un team di autori di videogiochi per esplorare letteralmente nuovi mondi, accogliendo l’idea che la filosofia futura possa essere non solo scritta a più mani, ma persino altro dalla scrittura.

Livello3 (campione). Senti di potercela fare a passare dal linguaggio-in-codice al linguaggio-codice? Inizia a programmare in prima persona e contribuisci a dar forma alla filosofia futura, prodotta e diffusa (anche) tramite videogame. Coraggio, puoi contare su chi si è già lanciato nell’impresa2: nella follia, non si è mai soli!

Io, per ora, sono alle prese col livello da principiante: vuoi fare da beta tester? Bastano 4 minuti…

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Cfr. A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, Milano 2020, pp. 153-156, 170-172.

2. Cfr. S. Gualeni, Virtual Worlds as Philosophical Tools: How to Philosophize with a Digital Hammer, Palgrave, London 2015.

 

[Photo credit Lorenzo Herrera via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Humboldt e il rapporto dell’essere umano con la natura

Che cos’è la natura per gli esseri umani? Uno sfondo di appartenenza co-originaria di tutto ciò che appare, noi inclusi, o un’antagonista da domare? Uno scenario di contemplazione a cui ricorrere appena possibile o un enorme contenitore di beni da prelevare bramosamente? Potremmo dire che l’umanità nella storia ha formulato e messo in atto un po’ tutte le risposte, ma le problematiche ecosistemiche che ci troviamo a fronteggiare rendono evidente che il secondo tipo di risposta sia stato il più gettonato.

All’origine del nostro rapporto con la natura, predatorio o ecologico, sta una scelta filosofica. Domandarsi che posto abbiamo nel mondo naturale, quali diritti di usufruirne e, soprattutto, quali limiti, è indubbiamente un ragionamento di tipo esistenziale-filosofico. Dunque, ricercare i fondamenti dei diversi modi di pensare la natura significa visitare la storia della scienza e della filosofia per scoprire i pensatori che hanno fatto della loro visione della natura un riferimento culturale epocale. Prendiamo, ad esempio, Cartesio: scienziato e filosofo, fu un attento osservatore di fenomeni, ma il suo approccio era di tipo meccanicistico e riduzionista. Ciò significa che ogni elemento naturale andava studiato scomponendolo, come si farebbe come una macchina. La sua propensione alla frammentazione fu tale che con lui la materia (res extensa) e l’immateriale (res cogitans) si separarono drasticamente. La visione meccanicistica della natura ebbe molta fortuna tra vari scienziati che succedettero a Cartesio.

Un importante oppositore di questa visione, invece, fu Goethe: la sua propensione al tutto e alla fusione tra arte e scienza fece di lui un importante sostenitore del primato dell’unità sulle parti. L’organismo è più della sua scomposizione in pezzi. Questo pensiero fu determinante nell’influenzare un importantissimo scienziato dell’800, un altro tedesco, sfortunatamente poco conosciuto in Italia: Alexander von Humboldt (una sua preziosa biografia è L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, di Andrea Wulf, Luiss, 2017). Assiduo frequentatore della natura, viaggiatore temerario e fine scienziato, Humboldt fece delle sue ricerche un capolavoro di visione filosofica della natura come “tutto armonioso” in cui niente è slegato dal resto. Teoria ed osservazione in prima persona erano per lui inscindibili. Riuscì per primo al mondo a scalare la vetta di 6310 metri del Chimborazo, vulcano dell’Ecuador (allora considerato il monte più alto del mondo). Un record sancito senza alcuna attrezzatura tecnica e rischiando la vita. Ma l’esperienza fu totalizzante per Humboldt, che lì ebbe la sua folgorazione: tutto è connesso e la natura è un organismo vivente.
Humboldt era anche un vero maniaco dei dettagli: annotava tutto e i suoi vari libri pubblicati segnarono per sempre la carriera di altri studiosi. Tanto per fare un esempio, Darwin si imbarcò sul Beagle perché conosceva Humboldt a memoria ed era desideroso di solcare le sue orme. Thoreau fu un grande ammiratore delle opere di Humboldt e ancora oggi, fortunatamente, rimane un autore molto letto.

Lo sguardo di Humboldt fu prezioso anche come antesignano dell’ecologia. Già a inizio ‘800 fu in grado di scorgere i segni del degrado ambientale provocato dall’azione umana. La sua attenzione alle dettagliate relazioni tra le parti lo portò a vedere come la deforestazione avesse effetti enormi sull’ambiente. Aveva capito che tutto il delicato equilibrio della vita si erge sulla diversità, i cui più acerrimi nemici siamo noi. Aveva addirittura colto i problemi globali legati alle monoculture, notando come le coltivazioni imposte dai colonialisti europei impoverivano le popolazioni locali del Sud America. La sua visione influenzò personalità come il rivoluzionario Bolivar o il secondo presidente degli USA, Jefferson, che furono suoi personali amici. Conobbe bene anche Napoleone, che invece lo detestava per la sua caratteristica di rifuggire qualunque possibilità di manipolazione. Per Humboldt la scienza era al servizio della natura e non della politica, come era invece per Napoleone. Humboldt arrivò a influenzare anche il filosofo Schelling nella formulazione della sua visione filosofica di unità tra Io e natura. Suggestionò i poeti Romantici e, ad esempio, Coleridge e Wordsworth furono suoi grandi ammiratori. Un intenso filone filosofico e letterario fece propria la lezione di Humboldt, ma non bastò a salvare il mondo.

L’impennata scientifica esordita a fine ‘800 diede un impulso così forte all’industrializzazione che la natura ancora di più diventò giacimento di risorse da spremere senza senno. Popolazione in aumento, relativi bisogni di sostentamento e possibilità tecnologiche sempre crescenti hanno decretato la vittoria dei fautori della dominazione della natura. Adesso siamo convinti che doveva per forza andare così, come se il progresso sia inevitabilmente legato al consumo sfrenato. La cecità con cui proseguiamo in quest’opera dissennata non ci fa nemmeno intravedere quell’altra visione, quella di una scienza rispettosa che si unisce alla poetica contemplazione del Tutto, così come ce l’hanno lasciata in eredità personalità quali Humboldt. Una visione che, se avesse prevalso, forse ci avrebbe portato a un’idea di progresso maggiormente ecocompatibile.

L’umanità ha oramai scisso se stessa dalla natura e, poco filosoficamente, continua a pensare che il suo destino sia slegato dal Tutto.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit David Marcu via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

La responsabilità tra Tolstoj, Manson e Godard

«[…] e, quel che è peggio, la causa di tutto quanto sono io, io che non ho colpa alcuna!» (L. Tolstoj, Anna Karenina, 2017).

È il lamento che risuona nelle pagine di apertura di Anna Karenina. Le infedeltà di Oblonskij sono appena state scoperte dalla moglie, provocando uno scompiglio non da poco; e ciononostante il lettore è mosso da una certa simpatia verso questo libertino un po’ pingue, dal corpo ben curato, che tende le braccia al servo Matvej affinché lo vesta. Forse il motivo è da ricercarsi proprio nelle parole dell’aristocratico russo, e in particolare in quel contrasto, decisamente significativo, tra i concetti di “causa” e di “colpa”: Oblonskij è consapevole di aver provocato con le sue bugie uno scisma familiare, ma non si colpevolizza, anzi afferma vigorosamente la sua innocenza ed è possibile che qualche lettore, e qui viene il bello, gli dia anche ragione.

Il “caso Oblonskij” è solo un esempio tra i molti (letterari, cinematografici, artistici) che si possono citare di (presunta) responsabilità non colpevole: possiamo riconoscere di essere la causa di qualcosa, cioè ammettere di aver giocato un ruolo in un certo evento per il solo fatto di aver compiuto delle azioni, qualsiasi esse fossero; e allo stesso tempo rifiutare di farci inchiodare nel ruolo di “cattivi della situazione” che hanno agito con l’unico scopo di causare intenzionalmente del male. Si tratta della stessa idea implicita nella cosiddetta presunzione di non colpevolezza, principio giuridico che conferma, in certa misura, la validità della distinzione tra colpa e responsabilità allusa dal personaggio tolstojiano.

Se puntare automaticamente il dito non è una strada di analisi sempreverde, anche a tentare un confronto aperto con la realtà, di indagine della complessità, sfugge ancora il concetto di responsabilità: che cosa indica esattamente questo termine, e quali nuovi orizzonti o ruoli potrebbe inglobare? È possibile ripensare un’idea di responsabilità da abitare concretamente, ogni giorno?

Secondo Mark Manson, blogger, scrittore e imprenditore americano, la responsabilità è potere esistenziale, inteso come effettiva possibilità di influire sul proprio benessere, anche e soprattutto in quei frangenti che appaiono fuori controllo. Non è vero, dice Manson, che ci sono cose che non possiamo cambiare: è inutile crogiolarsi nell’autocommiserazione e ripetere “non posso farci niente, non l’ho deciso io”. Decido sempre io, in un certo senso: «scegliere di non interpretare coscientemente ciò che accade nelle nostre vite è pur sempre un’interpretazione. Scegliere di non reagirvi è comunque una reazione» (M. Manson, La sottile arte di far quel che ti pare, 2017).
Non si può cambiare la situazione, ma si può cambiare se stessi in quella situazione; ogni cosa può sempre caricarsi di una certa luce piuttosto che di un’altra. Il che non significa, ribadisce il blogger americano, essere ossessivamente positivi e negare il male esistenziale, ma assumersi la responsabilità di se stessi di fronte ad esso; non significa rifiutare le emozioni negative, ma assumersi la responsabilità di elaborarle, per quanto tempo si possa impiegare, per quanta fatica e passi indietro si debbano affrontare, per poter scegliere con consapevolezza l’atteggiamento che può garantire maggior benessere.

La responsabilità verrebbe allora a coincidere con il potere di cambiare (in meglio) la vita di tutti i giorni. Con questo non si vuole negare l’imprevedibilità della vita e le sue istanze incontrollabili; di continuo avvengono cose che non abbiamo scelto… ma su cui sì abbiamo scelta: è possibile cambiare approccio a qualsiasi situazione, che l’abbiamo voluta o meno; ed è vitale farlo, perché cambiare punto di vista vuol dire di fatto integrare la propria visione della realtà con qualcosa di nuovo, arricchendosi anche in modi inaspettati. Assumersi la responsabilità di se stessi, sempre, vuol dire letteralmente farsi carico del proprio io: scegliere di stare bene, o se non di stare bene almeno di sfruttare l’occasione per aggiungere alla propria cassetta degli attrezzi uno strumento nuovo e crescere come esseri umani.

L’idea di accettare tutto e sfruttare ogni occasione per crescere spiritualmente e vivere più pienamente è presente anche nei film di Godard: «Io credo che siamo sempre responsabili di quello che si fa, e liberi», riflette Nana in Questa è la mia vita, e continua: «Alzo una mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Dimentico di essere responsabile, ma lo sono. In fondo le cose sono come sono e nient’altro».
Oblonskij del resto concretizza questa idea in una vera e propria filosofia esistenziale: ammette di aver avuto un ruolo nel dolore della moglie e riconosce responsabilità e conseguenze ad esso connesse, e tuttavia non si colpevolizza ma sceglie come reagire, in una piena consapevolezza di se stesso.

Cecilia Volpi

[Photo credit Sander Sammy via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Visioni dell’amore: il confine dei corpi tra Platone, Klimt e Munch

Parlare di amore è complicato eppure lo si è sempre fatto; tra le discipline che più hanno contribuito alla discussione sull’amore troviamo l’arte e la filosofia. In filosofia, già con Platone, leggiamo spiegazioni su questo sentimento, soprattutto attraverso il mito, a cui spesso ricorre il filosofo ateniese. Tra i miti troviamo quello dell’androgino, raccontato da Aristofane nel Simposio platonico.

Chi è l’androgino? In origine esistevano tre generi, secondo questo mito: quello femminile, quello maschile e quello androgino, che aveva sia caratteristiche maschili che femminili. Gli androgini erano figli della luna, figure rotonde, con dorso e fianchi formanti un cerchio, quattro mani, quattro gambe e sopra il collo due facce simili in tutto e parti della stessa testa. Gli androgini tentarono di scalare il cielo per assalire gli dèi e, a causa di queste intenzioni superbe e della loro forza, Zeus decise di separarli in due così da indebolirli. Ciascuna metà, però, aveva nostalgia dell’altra e la cercava. Così sarebbe nato l’amore: una ricerca della metà perduta. Una ricerca, però, vana perché ciò che le metà desidererebbero sarebbe il ritorno all’unità originaria, che non sarà mai possibile. Ed è proprio per questo che, quando si ama, l’anima dell’uno desidera dell’altro qualcosa che non sa esprimere, eppure «vaticina ciò che desidera e lo manifesta per enigmi» (Platone, Simposio, 191d). L’amore è quindi il desiderio dell’intero, della fusione con l’altro, dell’androgino.

Come fosse fisicamente l’androgino è ben spiegato da Platone e numerose sono le sue rappresentazioni artistiche. Quello che vediamo in queste ultime è l’indefinitezza dei confini dei due corpi: essendo uno solo l’androgino, non si capiva dove finisse un corpo e dove l’altro, dove finisse la parte maschile e dove quella femminile. I confini sono poco chiari, i due corpi sono fusi, non divisi.

L’indefinitezza dei corpi è come quella che si ha in un abbraccio. Se pensiamo a L’abbraccio o al Compimento (1905-1909) o a Il bacio (1907-1908) di Gustav Klimt, notiamo che i confini tra i corpi degli amanti sono come quelli descritti da Platone: incerti, evanescenti e labili. Nonostante, attraverso piccoli dettagli visivi, siano rese evidenti le differenze tra il mondo dell’uno e dell’altro amante, viene rappresentata la loro fusione, una fusione in un luogo astratto mostrata attraverso da un abbraccio etereo e tenero. Lei, con gli occhi chiusi e un volto estatico, è simbolo di un totale abbandono all’unione.

Anche Munch rappresenta un bacio tra due amanti, ma ciò che trasmette è totalmente diverso. Egli non ha intenzione di mostrare la tenerezza quanto, invece, l’angoscia. Osservando la sua opera Il bacio (1897), lo spettatore non vorrebbe immedesimarsi nei due amanti ma piuttosto allontanarsi da essi, scappare attraverso la finestra che fa da sfondo e che illumina il quadro. Quello che vede è sì una fusione, ma una fusione inquietante. Strindberg, di fronte all’opera di Munch, scrisse che la coppia rappresenta «una fusione di due esseri umani, dei quali il più piccolo, nelle sembianze di una carpa, sembra pronto per divorare il più grande» (S.W. Cordulack, Edvard Munch and the Physiology of Simbolismo, 2022). Questa è anche un’estasi ma «sembrano un orecchio abnorme… sordo nell’estasi del sangue» (ibidem).

I confini di questi due amanti sono davvero difficili da riconoscere perché l’amore, per Munch, rappresenta la perdita della propria identità e della propria persona, il divenire un’unica forma indefinita. Se amare significa perdere la chiarezza di sé, però, per Munch l’amore non può che essere qualcosa da cui fuggire.

L’amore, quindi, non è solo unione di menti, ma può esserlo anche di corpi. I confini tra due persone svaniscono e diventano quasi inesistenti di fronte alla volontà, e forse alla necessità, di questa fusione. I confini e i conflitti dei due corpi creano armonia, esattamente l’armonia dell’androgino, nell’opera di Klimt, e creano, invece, inquietudine nell’opera di Munch. Platone, Klimt e Munch ci presentano visioni dell’amore; noi dobbiamo capirne limiti e possibilità, per applicare la riflessione alla quotidianità, per trovare la nostra prospettiva. Dobbiamo confrontarci con le visioni altrui, per cercare o creare la nostra, nell’abisso delle emozioni.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Marco Bianchetti via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Non si vive senza gli altri. Per una cultura dell’incontro

«Una certa “saggezza” ci trae in inganno sulla pace quando, per salvaguardare le apparenze dell’intesa, ci nasconde la realtà delle tensioni o coltiva l’indifferenza come condizione della tranquillità. […] Nel primo caso è un calmante, nel secondo un astensionismo» (M. de Certeau, Il tempo dei conflitti, in “Paris-Match”, 20 aprile 1963).

La pace, invece, chiama in causa, richiede l’assunzione di responsabilità e, soprattutto, evoca e riconosce l’eterogeneità per rivelare e accogliere anche ciò che di “altro” c’è nell’altro. A distanza di quasi sessant’anni dalla pubblicazione de Il tempo dei conflitti, la forza visionaria delle parole dello storico, linguista e antropologo francese Michel de Certeau, e la sua lettura della storia, rimangono invariate e continuano a interrogare.

A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, stagione di lotte rivoluzionarie e reazionare, il gesuita francese in quell’articolo offrì in particolare un contributo significativo per ripensare il conflitto nel suo valore simbolico, condannandone violenza e livore ideologico. Per lui il conflitto non è un momento palingenetico e di dinamismo storico, è bensì innanzitutto la concreta esperienza di un limite che, in una visione esistenziale e comunitaria, è rappresentato dal «reciproco rispetto».

«Esistere – scrive – significa ricevere da altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile, la presenza di altre libertà» (ibidem).

Non si vive senza gli altri. E non si vive neppure fuggendo dal confronto con gli altri.
In questa prospettiva, il conflitto appare quasi come inevitabile e irriducibile. È una iniziazione all’esistenza di sè e dell’altro. È un principio dinamico in vista di un incontro, di una conoscenza reciproca e della possibile convivenza. Lo s-contro è, invece, afflitto da un determinismo oppositivo. Quella “s” funziona quasi come un acceleratore dell’impatto, lo rende ineluttabile. È la logica del far prevalere la propria idea e la propria esistenza sugli altri. Un assoluto che in quanto tale non conosce limiti. Lo scontro è nutrito da un delirio narcisista che priva la storia di eteronomia e dell’esperienza dell’incontro. Questo è il passaggio determinante e decisivo verso la fine di tutto.

Lo spettro della bomba atomica – che ritorna oggi a minacciare e a sovrastare i nostri orizzonti ricordandoci che il genere umano ha la piena possibilità di distruggere se stesso – cristallizza questa follia. Lo scontro è la cifra di questo nostro tempo. Un atteggiamento divisivo che il politologo statunitense Samuel Phillips Huntington (1927-2008), definiva «scontro di civiltà», ma che coinvolge anche i micro-sistemi. Lo scontro spezza la trama di relazioni, le divide, le separa, le inganna, le logora, le ammalora; le mina nei legami, nei vincoli di fiducia; le alimenta di sospetto, le rende confuse, equivoche, competitive, irresponsabili, liquide.

Ci siamo avvicinati a un limite oltre il quale fare un passo in avanti equivale a sprofondare nell’abisso: come ci si orienta in questo contesto?
Non penso ingenuamente a un mondo pacificato senza conflitti o contrasti, ma a un mondo che sperimenti la possibilità e l’opportunità di una “cultura dell’incontro” nella quale il principio dinamico siano il dialogo e non la violenza; il riconoscimento e non il predominio; l’alterità e non l’omologazione.

Una lucida agenda di lavoro, in questo senso, è proposta da Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti. Il nucleo centrale del testo è rappresentato dalla fratellanza e dall’amicizia sociale che, nel lessico politico, trovano il loro corrispettivo nella parola “interdipendenza”. L’idea dell’interdipendenza fra persone e popoli e l’immagine profetica della fratellanza e dell’amicizia sociale (non come sentimenti, bensì come dati di fatto), capovolgono la logica dell’apocalisse oggi imperante – una logica che, abbiamo detto, annulla il mondo – e diventano un forte messaggio di libertà, corresponsabilità, uguaglianza e giustizia. Scrive Antonio Spadaro su La Civiltà Cattolica: «La fratellanza non brucia il tempo né acceca gli occhi e gli animi. Invece occupa il tempo, richiede tempo. Quello del litigio e quello della riconciliazione. La fratellanza “perde” tempo. L’apocalisse lo brucia. La fratellanza richiede il tempo della noia. L’odio è pura eccitazione. La fratellanza è ciò che consente agli eguali di essere persone diverse. L’odio elimina il diverso. La fratellanza salva il tempo della politica, della mediazione, dell’incontro, della costruzione della società civile, della cura. Il fondamentalismo lo annulla in un videogame» (A. Spadaro, Fratelli tutti. Una guida alla lettura, 4088, 2020, IV).

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Warren Wong via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

Dal relativismo culturale all’idea di bene

Quando i nostri comportamenti rientrano nei canoni di ciò che è culturalmente condiviso, la maggior parte della persone si sente tranquilla. È come se fosse stato rispettato un codice indiscutibile e inviolabile, volto a renderci persone migliori. Si tratta di leggi non scritte, ma tramandate nel tempo e rese salde dall’esperienza di chi ci ha preceduto. La cultura del luogo dove siamo nati, quei valori etici condivisi, sono un materasso morbido e avvolgente che ci accoglie, ci rassicura nel buio e attutisce i colpi quando, stanchi della faticosa convivenza con altre persone, ci stendiamo sopra. Eppure, proprio come un materasso, questo bagaglio di valori e regole che abbiamo ricevuto, per quanto confortevole e sicuro, tende ad assopirci. Dopo che il Zarathustra di F. Nietzsche ebbe ascoltato il discorso di un saggio, che era grandemente onorato e ricompensato per i suoi discorsi sul sonno e sulla virtù, disse:

«Adesso capisco chiaramente che cosa un tempo si cercava innanzitutto, quando si andava in cerca di maestri della virtù. Un buon sonno si cercava e, a questo fine, virtù oppiacee» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1976).

Il pericolo a cui allude il filosofo è proprio quello di fossilizzare la nostra vita su schemi vecchi e stereotipati, di ritenere giusti e virtuosi a priori alcuni comportamenti, senza considerare la situazione reale in cui essi avvengono. Ciò che ieri appariva giusto, oggi potrebbe non esserlo più perché la vita è in continuo cambiamento, la vita è viva, noi siamo vivi. «Guardali questi buoni e giusti!», continua Nietzsche, «Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente – ma questi è il creatore. Compagni per il suo viaggio cerca il creatore e non cadaveri, e neppure greggi o fedeli. Compagni nella creazione cerca il creatore, che scrivano nuovi valori, su tavole nuove» (ibidem).

Un incontro inatteso, una periodo difficile, un viaggio, una discussione ci inducono a considerare prospettive differenti, distogliendoci così da ciò in cui avevamo sempre creduto. Improvvisamente si palesa davanti a noi uno scenario nuovo, mai preso in considerazione. Non si tratta di rinnegare la propria cultura, ma di guardarla per la prima volta con occhio critico, riconoscendone i pregi, ma rivelandone anche i difetti. Ci sono persone che si ritengono giuste e rette perché perpetuano per tutta la vita azioni e comportamenti ereditati, senza fermarsi a riflettere sul peso che essi hanno ora e sugli effetti che producono in questo preciso momento storico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Quello che ci viene chiesto è un salto di qualità. Ci viene chiesto di alzare un piede e appoggiarlo sul primo gradino di una nuova scala di valori, spesso in salita che potrebbe condurci alla ricerca di ciò che è realmente e universalmente Bene. Il disvelarsi del Bene è un processo attivo, esso non si esaurisce in una lista di comportamenti e soprattutto non si riceve in eredità. All’idea del Bene si tende costantemente, è una strada da percorrere lungo tutta la vita e la persona virtuosa è proprio quella che si incammina.

Platone ci mette in guardia rispetto alla nostra cecità nei confronti del Bene. Secondo il filosofo greco, il Bene è l’idea somma, è come il Sole, è il valore più alto cui ogni essere umano possa tendere e prescinde da qualsiasi cultura e da qualsiasi luogo. È universale. Le nostre anime, egli dice, hanno visto il Bene prima di incarnarsi in un corpo. Il dovere morale allora, è proprio quello di ri-conoscerlo, e lo possiamo fare solo se usciamo dalla caverna, dall’oscurità. L’uomo virtuoso è colui che ricerca, continua il filosofo, che fa della sua vita un faticoso cammino razionale verso l’idea del Bene e, una volta ri-conosciuto, lo incarna giorno dopo giorno nella propria vita (cfr. La Repubblica, libro VII, Milano 1981).

Io sono altresì convinta che ognuno di noi possa attingere al Bene, non solo attraverso la razionalità, ma attivando facoltà che spesso vengono messe in secondo piano. Se ci si dispone all’ascolto di se stessi, dell’altro e della vita, ad esempio, il Bene lo si può intuire e quindi impegnarsi a realizzarlo. Ciò che è bene, inoltre, può essere avvertito in modo empatico nelle emozioni forti che alcuni comportamenti suscitano. Un gesto d’amore, una vicinanza, un aiuto inatteso possono rivelarci il Bene più di molti ragionamenti. Quello che conta è essere disposti a riconoscerlo e permettere che esso ci modifichi.

Erica Pradal

[Photo credit Volkan Olmez via Unsplash]

banner-riviste-2022-giu