Cosmovisione: uno sguardo sul Centro America per capire noi stessi

“Durante il mio soggiorno in Nicaragua mi è capitato di vedere una ragazzina miskita vittima di un malocchio. Che tu ci creda o no, i genitori hanno deciso di mandarla presso la nostra struttura perché, secondo la credenza locale, l’unico modo per interrompere il potere che lo stregone ha sulla vittima è quella di spostare quest’ultima in un altro ambiente, facendo perdere i riferimenti spaziali a chi ha messo in atto la stregoneria”.

Con queste parole, accompagnate ad un misto di incredulità ed interesse da parte del sottoscritto, si è aperta la mia chiacchierata con Jessica, cooperante internazionale, all’epoca dei fatti in Nicaragua. Questo è stato anche il mio primo approccio con la complessa, ed allo stesso tempo affascinante, Cosmovisione mesoamericana. I miskito, la popolazione indigena di casa tra Nicaragua e Honduras contemplano, tra le altre, l’esistenza del malocchio e della stregoneria. Da un punto di vista più filosofico, questa Weltanschauung prettamente centroamericana va intesa come lo “studio” dei fenomeni del cosmo e della realtà nella sua completezza. Secondo la Cosmovisione, infatti, il mondo è stato creato da essenze divine, vere e proprie anime sottili che si sono insinuate dentro ad ogni essere terrestre al momento della creazione. 

Basata tutta su una dualità di fondo e governata da una ricorsiva “legge” dove ogni cosa fa parte di una coppia, è sostanzialmente una concezione della vita ricca di simbolismo, che racconta e soprattutto spiega il rapporto marcatamente metafisico dell’uomo con la natura, in un’armonia con l’ambiente circostante pressoché totale. Ed è proprio la dualità tra macrocosmo, le potenze divine dell’universo e microcosmo, cioè la vita sulla Terra, a risultare di fondamentale importanza per capire questo antesignano Ponte di Einstein-Rosen, dove spazio e tempo sono collegati per fornire la struttura e la spiegazione necessarie della vita.

L’esistenzialismo di base della Cosmovisione è, per forza di cose, parecchio evidente. Trovare una risposta ai grandi interrogativi della vita, riconducendo sempre il tutto al rapporto tra le creature terrestri e la natura, esalta, oltretutto, ancora una volta il doppio che anima la visione centroamericana. Anche l’uomo, in quanto tale, è parte di questo immenso sistema, governato da forze universali sconosciute; anzi, la sua stessa esistenza, come quella di tutte le altre creature, è dovuta proprio a questo processo. Pienamente in linea con la definizione stessa di Cosmovisione e con il suo interessante modo di vedere ed intendere il mondo intero, l’influenza che questa rappresentazione ha sulla vita delle persone ha effetti davvero pesanti, positivamente o negativamente che sia. 

La storia della ragazzina col malocchio è uno dei tanti esempi di quella che, in lingua miskito, viene definita grisi siknis, una forma di psicosi collettiva. Si tratta di una sindrome contagiosa legata alla cultura, in questo caso a quella mesoamericana. All’interno di questa “crazy sickness”, della quale sembrano soffrirne solo giovani donne e ragazze, si riscontrano una serie di disturbi somatici e psichici che acquistano un significato particolare solo ed esclusivamente in un determinato gruppo etnico. Situazioni simili possono avere conseguenze inimmaginabili, considerando che, in questo caso, il malocchio si è manifestato anche con un attacco di convulsioni, digrignamento dei denti e l’impossibilità di articolare le parole. Vista la situazione, la vittima è stata accompagnata prima al pronto soccorso e poi, su consiglio della stessa struttura ospedaliera, indirizzata ad uno sciamano locale, perché ognuno ha un suo ambito di competenza. In casi come questo, allucinazioni visive ed uditive sono certamente l’opera di spiriti maligni che hanno preso possesso della malcapitata vittima, portandola ad uno squilibrio del quale è ritenuto, solitamente, responsabile uno stregone malvagio. Il fatto che in Nicaragua ci sia una relazione vera e propria tra “medicina occidentale” e sciamanesimo è probabilmente la prova empirica e definitiva di come il loro sistema di credenze faccia sempre e comunque riferimento al dualismo di fondo già citato, per dare un senso ai fenomeni e alla realtà che li circonda.

Ed è proprio la realtà che ci circonda ad essere messa, ultimamente, in discussione. I grandi problemi odierni non riescono a trovare una comunità di intenti, creando anzi divisioni e soprattutto fraintendimenti. Attingendo a piene mani dalla fonte della cosmovisione centroamericana, dovremmo adottare una visione totale per spiegare la nostra esistenza, rapporto con la natura compreso. Riscoprendo quanto la nostra vita sia legata a doppio filo con quella di Gaia/pianeta Terra, riusciremo forse a non darci troppo per scontati e a remare tutti nella stessa direzione, proprio come gli sciamani ed i medici mesoamericani, facce contrapposte della stessa medaglia.

 

Milo Salso
Nato a Venezia nel 1987, si laurea in psicologia sociale e del lavoro a Padova. Dal 2015 lavora e risiede a Vienna, dove si occupa di marketing e di project management. Avido lettore, nel tempo libero crea cruciverba a tema libero.

 

[Photo credit Joshua Newton via Unsplash]

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I muri in pietra a secco come medietas tra uomo e natura

In una serie di xilografie l’artista Remo Wolf (1912-2009) raffigura alcuni muretti a secco campestri, in cui l’elemento murario è al centro della rappresentazione, in un gioco di ombre ottenuto dal contrasto tra bianco e nero. Uno degli aspetti che emerge è la compresenza della componente antropica – il muro – e della componente naturale, costituita dalle piante che occupano gli interstizi fra i sassi. Nonostante nelle incisioni la figura umana non compaia, la sua presenza si manifesta nelle differenti tecniche costruttive dei manufatti, mentre la fatica del lavoro promana dalla pesantezza dei massi, disposti da anonime mani contadine. L’elemento vegetale ha un ruolo rilevante nelle immagini, che disvelano la biodiversità tra gli anfratti delle pietre, dove crescono arbusti, muschi, radici e piante rampicanti.

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Attraverso l’alternanza di chiaro e scuro, che intreccia le linee del manufatto e della natura, le xilografie di Wolf invitano a riflettere su valori e funzioni dei muretti in sassi nel paesaggio alpino. D’altra parte, quando si percorrono i sentieri di media montagna, capita di imbattersi in vecchi muri in pietra a secco, che marcano i terreni agricoli, corrono lungo i viottoli di campagna, sostengono i terrazzamenti. Succede di incontrarli anche quando attraversiamo un bosco o siamo in alta quota, e, nel loro stato di abbandono, testimoniano fin dove l’uomo si è spinto per ottenere spazi coltivabili. Sembrano opere d’arte incastonate nel paesaggio alpestre e la loro bellezza risiede nella capacità di evocare un equilibrio fra uomo e natura, tra attività antropiche e ambienti naturali. Eppure, le opere in pietra a secco sono state create principalmente per addolcire i versanti alpini, utilizzando materiale da costruzione trovato in loco, per dissodare terreni agricoli e per riempire pance di gente povera e affamata. 

Come suggerisce Mauro Varotto1, nel contesto paesaggistico i muri a secco dei terrazzamenti montani rappresentano una medietas ambientale, ossia una medietà in cui natura e presenza dell’uomo coesistono in modo armonioso, salvaguardando equilibri idrogeologici, ecologici e produttivi. Appaiono come cerniere relazionali, corridoi di biodiversità interposti tra sistemi diversi e contigui, come il bosco e il campo coltivato. Sono elementi permeabili che segnalano corrispondenze e sovrapposizioni fra cultura contadina e spazio montano. Oltre a ciò, i muri a secco sono elementi di mediazione e cooperazione sociale, poiché non sono mai il frutto del lavoro di un singolo, ma di una comunità che abita e si prende cura di un determinato luogo. Sono beni comuni spesso anche quando sono collocati all’interno di proprietà private, e raccontano una storia di saperi costruttivi tramandati da padre a figlio. 

Quando si affronta il tema della medietà da un punto di vista filosofico, viene in mente che gli antichi greci facevano coincidere la virtù dell’individuo con la ricerca della giusta misura (mesotes) tra gli eccessi. Nell’Etica Nicomachea per Aristotele la virtù consisteva nella disposizione costante a individuare il giusto mezzo tra due estremi. Per quanto la mesotes della virtù antica appartenga a un ambito differente dalla medietas dei muri a secco, risulta interessante notare che il termine greco aretè (ἀρετή, virtù) «deriva dalla radice indoeuropea ar, da cui il latino ars che indica l’abilità a costruire e, più estesamente, l’inventare, il creare. Da qui la parola corrente artigiano, vale a dire colui che possiede una certa maestria – tecnica e insieme creativa» (S. Natoli, Il posto dell’uomo nel mondo, 2022). Dalla radice ar hanno origine altre parole, che richiamano la capacità di mettere insieme, congiungere e armonizzare. Successivamente l’aretè «ha acquisito uno statuto morale: da abilità pratica si è venuta mano a mano disegnando come pratica finalizzata al perseguimento del proprio perfezionamento: da abilità a costruire ad abilità a edificare la vita» (ivi). 

Se da un lato nella parola aretè si trova un nesso fra abilità costruttiva e virtù come disposizione individuale a perseguire il giusto mezzo, dall’altro lato nei muri in pietra a secco e nei terrazzamenti montani si manifesta la capacità di intervenire sull’ambiente a fini produttivi in equilibrio e armonia con la natura. Le abilità nel costruire sono intrinsecamente connesse al nostro modo di vivere e di abitare il mondo, perché solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire2. L’uomo allora dà un senso al costruire solo abitando e prendendosi cura degli spazi di vita. Quando la disposizione a perseguire il giusto mezzo non riguarda l’azione del singolo, ma il modo in cui una comunità abita un territorio, allora è possibile cogliere nel paesaggio i segni tangibili della medietas, come accade nei muri a secco campestri, spazi relazionali tra attività antropica e ambiente naturale.

Umberto Anesi

NOTE
1. Cfr. M. Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, 2020.

2. Cfr. M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, 1976.

[Photo credits:
– immagine di copertina: autore
– prima xilografia: (R. Wolf, Muro a secco, 1997, Xilografia, 348×248 mm, Museo Civico delle Cappuccine, Bagnocavallo) Museo dell’incisione https://www.repertoriobagnacavallo.it/incisori/loadcard.do?id_card=161637 ;
– seconda xilografia: (R. Wolf, Muro a secco, 1997, Xilografia, 350×250 mm, Museo Civico delle Cappuccine, Bagnocavallo) Museo dell’incisione https://www.repertoriobagnacavallo.it/incisori/loadcard.do?id_card=161637 ;
– terza xilografia: (R. Wolf, Muro a secco, 1979, Xilografia, 340×500 mm, Collezione privata) autore].

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Leggere è importante?

È opinione generale che leggere sia importante. Questa posizione è difesa con vigore in particolare dagli addetti ai lavori per cui la lettura è indispensabile: insegnanti, scrittori, librai, giornalisti, o anche soltanto lettori per passione. Ora, è evidente che l’apprezzamento richieda una qualche dimestichezza con la cosa apprezzata, e sarebbe curioso che l’importanza della lettura fosse difesa da un analfabeta; tuttavia questa questione sembra comunque meritare una riflessione, come tutte le affermazioni di questo mondo aventi pretesa di essere “vere”, onde evitare di trovarci nella ambigua posizione di Platone che sostiene che la polis debba essere governata dai filosofi, ma se fosse stato un idraulico probabilmente avrebbe detto che a governare avrebbero dovuto essere gli idraulici1

La lettura ci mette in contatto con diverse visioni del mondo, che spesso nella loro originalità divergono molto dalla nostra e ci aiutano a considerare le cose sotto altri aspetti. In questo senso, la lettura ha un ruolo decentratore nei confronti di chi legge, ed è importante nella misura in cui impedisce al nostro punto di vista di cristallizzarsi, e lo aiuta anzi a rinnovarsi, a diventare agile e leggero di fronte a situazioni complesse, che diventano dei problemi solo quando non siamo in grado di trovare l’approccio migliore per affrontarle. 

Questo rinnovarsi di fronte alle cose della vita per potercisi rapportare al meglio non è dell’ordine del calcolo anticipatore (imparare un metodo), ma piuttosto dell’intuizione, del colpo d’occhio che coglie la specificità e la novità di ciò che ci si presenta davanti. Un metodo infatti funziona quando la materia su cui si applica è la stessa, ed ha la straordinaria qualità di portare sempre al medesimo risultato, come vediamo nelle scienze matematiche. Ma comportarsi in maniera metodica quando la situazione, per essere risolta, richiede di essere capita è fuorviante, perché ha l’effetto collaterale di gettare sabbia negli occhi. Quindi è importante abituarsi ad osservare, e la lettura in questo può aiutare.
A questo proposito è però opportuno tener conto del fatto che un libro è sempre identico a sé stesso, e per questo rischia di cristallizzare attorno a sé anche le interpretazioni che ne vengono date. Questa è la caratteristica dei classici (sia di letteratura che di saggistica), che dovrebbero invece offrire spunti sempre nuovi, presentarsi attuali anche dopo secoli dalla loro stesura. 

Di questo carattere vivente del discorso parla proprio Platone in un celebre passaggio del Fedro: “Discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a sé stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell’indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo” (Platone, Fedro, 277a)

Quello che a Platone preme è che un discorso non si fissi in un insieme di parole statiche, sterili, inerti, ma che veicoli il dialogo tra anime, viventi e mutevoli, che trasmettendosi vissuti si arricchiscono a vicenda e diano luogo a nuova vita. In questo senso la lettura di un libro, a maggior ragione di un grande classico, non è importante in quanto tale, ma solamente se ci dà degli strumenti per rapportarci alle diverse situazioni nelle quali ci imbattiamo, perché quello che conta nella vita è vivere bene. Capita che ce lo dimentichiamo, che ci forziamo a leggere questo o quel libro o che forziamo altri a farlo, perché riteniamo sia un testo fondamentale. Così facendo è come se implicitamente facessimo passare il messaggio che nella vita è importante aver letto questo o quell’autore.

Per concludere, una buona lettura richiede secondo noi un approccio creativo: un libro è interessante non in sé, ma per noi che lo leggiamo, perché quando lo leggiamo prende una colorazione nuova, secondo quello che è il nostro modo di riceverlo. Leggere Dante per leggere Dante non è importante: Dante, in fin dei conti, è morto. Il mondo d’altro canto è sempre vivo. Ciò che rende vivo Dante, attuale, parlante, siamo noi. Per questo motivo crediamo che leggere non sia importante: leggere è utile e un grande piacere se attraverso la lettura sappiamo trarre nuovi spunti per la nostra vita: se non ci dà nulla, se ci pesa, è di gran lunga meglio lasciar stare. Come dice l’ultracitato Pennac, “Le verbe lire ne supporte pas l’impératif”.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Questa simpatica battuta la devo al mio insegnante di filosofia del liceo.

2. lett. “il verbo leggere non supporta l’imperativo” (NdR).

 

[Photo credit Sincerely Media via Unsplash]

 

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La filosofia come prassi al tempo della società dello spettacolo

Guy Debord, nel celeberrimo testo La società dello spettacolo (1967), afferma che nella modernità è fatalmente venuta meno la domanda riguardante i significati ultimi. La società postmoderna è caratterizzata infatti da una fondamentale spettacolarizzazione, la quale si determina dal punto di vista della possibilità di garantire ai suoi adepti il privilegio derivante dal raggiungimento di una condizione di emancipazione sociale che renderebbe meno gravoso il proprio rapporto con l’esistenza. Apparato burocratico capitalistico e società spettacolarizzata sono legati a doppio filo da un intento comune, rappresentando il primo il supporto finanziario e la seconda il cuore pulsante delle nuove modalità di assetto sociale.  

Per il pensatore parigino l’oppressione intrinseca al consumo dei prodotti erogati dall’apparato pubblico si instaura nella promessa di libertà e affermazione di sé rivolti all’uomo comune. Il soggetto è incentivato a fare propri i riferimenti dominanti all’interno del tempo storico, i quali in realtà rappresenterebbero soltanto l’illusione del superamento della sua condizione di anonimato e di svantaggio economico. È importante leggere Debord poiché il suo testo ci fa capire che non bisogna subire passivamente una modalità di esistenza che deve invece essere problematizzata e messa a confronto con il proprio stesso stare al mondo. Il filosofo e cineasta francese mette in opera un processo di sensibilizzazione nei confronti di una forma di oppressione storicamente inedita, che usa il linguaggio dell’intrattenimento per tenere legate le masse a una condizione di anonimato e impotenza connessa a una subordinazione economica in sé insuperabile. Il filosofo francese infatti afferma:

«L’ideologia è la base del pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia» (G. Debord, La società dello spettacolo, 2008).

L’analisi di Debord coglie un aspetto certamente decisivo del mondo contemporaneo, ma la riduzione delle espressione artistiche a prodotto del capitalismo svilisce il significato autentico delle nuove forme culturali. Lo spettacolo reca in sé implicitamente una domanda di senso, un invito a lasciare intatta la fiducia nei confronti di un originario ideale di redenzione. È necessario quindi che gli individui dialoghino con le nuove forme artistiche, superando quella che spesso è una considerazione stereotipata delle forme attraverso le quali l’offerta di intrattenimento si esplica. Bisogna sentirsi parte attiva del delinearsi delle nuove tecniche attraverso le quali lo spettacolo narra la condizione umana. Esso in definitiva rappresenta lo specchio in cui si riflette il mistero stesso dell’esistere. Non bisogna rimanere fermi alla considerazione secondo la quale lo spettacolo sia semplicemente divertimento fine a se stesso, ma considerare i suoi prodotti come riferimenti che descrivono il fondamento tragico proprio della condizione umana. In questo senso Debord afferma che «lo spettacolo è la carta geografica di questo nuovo mondo, carta che ricopre esattamente il suo territorio» (ivi).

L’arte riproducibile modifica lo statuto del reale, aprendo alla necessità di instaurare una comunità fondata su un pensiero che deve diventare critico. L’idea guida delle cosiddette pratiche filosofiche, in questo senso, è che l’adesione alla verità redima l’individuo attraverso una narrazione nuova del posto dell’uomo nel mondo. La filosofia si esplica dal punto di vista di un’istanza che consente di problematizzare il carattere progettuale dei nuovi prodotti artistici. Rifiutarsi di esercitare il pensiero inteso in senso critico nei confronti del presente e in relazione costante all’avvenire significherebbe favorire il perpetuarsi di quello che il filosofo Diego Fusaro ha definito, a più riprese, il pensiero unico dominante del nostro tempo. Debord ci invita a essere meno chiusi e sclerotizzati all’interno di un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti della nostra epoca, e ad assumerci la responsabilità di assumere un comportamento che in quanto tale dimostri il raggiungimento di un livello maggiore di consapevolezza. La condizione dello spettatore passivo deve cedere il passo alla possibilità di mettere in pratica gli insegnamenti che, direttamente o indirettamente, lo spettacolo in quanto tale veicola.

Risulterebbe facile ritenere questo discorso affetto da una costitutiva indeterminatezza: la filosofia può solo interpretare il mondo, ma certamente non cambiarlo, come invece auspicava il Marx dell’undicesima delle Tesi su Feuerbach. Il punto è che il filosofo per espletare la sua funzione deve rendere operativa una libertà di spirito attraverso la quale addivenire all’individuazione delle malattie che riguardano la società in cui vive e rispetto alle quali il senso comune rimane abitualmente legato a una fondamentale passività. La parola filosofia in questo senso farebbe sempre di più rima con follia ma, del resto, Nietzsche non ha affermato, nel Crepuscolo degli idoli, che quello che consideriamo mondo vero altro non è che fiaba?

 

Edoardo De Santis
Dopo la laurea Magistrale in Filosofia ha conseguito vari titoli afferenti le pratiche filosofiche. Ha pubblicato articoli su “Rivista EA”, “Phronein”, “Gazzetta Filosofica” e sulla “Rivista Italiana di Counseling Filosofico”. Ha partecipato come relatore al convegno “Eleatica” nel 2021 e al “Festival Internazionale di Filosofia” di Ischia e Napoli nel 2022 e nel 2023. È stato nominato Esperto del progetto nazionale “Inventio” dell’Associazione Filò (Università di Bologna), mirante a implementare laboratori di pensiero critico negli istituti tecnici e professionali italiani, partecipando alla fase di sperimentazione nelle scuole.

 

[Photo credit Anton Nazaretian via Unsplash]

 

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Digital Gang. Chi ha davvero inventato internet e il metaverso?

Stando a sentire alcuni, la storia delle più grandi invenzioni dell’era digitale potrebbe ispirare una serie tv sulla pirateria intitolata Digital Gang: Bill Gates ai danni di Gary Kildall; Steve Jobs di Douglas Engelbart e William English; Mark Zuckerberg dei gemelli Tyler e Cameron Winklevoos – ok, ma del furto subìto dal povero Giulio Camillo, vogliamo parlarne?!

Camillo era un filosofo italiano vissuto tra il 1480 e il 1544, un nerd totale che aveva dedicato notevoli sforzi alla progettazione del cosiddetto Teatro della Memoria: un teatro di legno diviso in gradinate, passaggi e settori, che davano vita a incroci dove si trovavano porte con impresse immagini che davano accesso a documenti scritti conservati in cassette, scaffaletti o scrigni. Lo scopo era rendere l’intero scibile umano facilmente accessibile, mentalmente come fisicamente: il teatro doveva offrire al visitatore un’esplorazione non solo intellettuale ma anche motoria dell’universo mentale umano, facendone percorrere i meandri e attraversare gli snodi, così da rendere più agevole la memorizzazione dei percorsi del sapere. Il tutto nella convinzione, tipica dell’umanista rinascimentale, che il cosmo mentale corrispondesse fedelmente al cosmo extra-mentale: se passeggiavi in quella strana finzione teatrale era come se stessi passeggiando nel mondo reale. Per raggiungere tale risultato, occorreva rovesciare i canoni teatrali: il visitatore non doveva stare dal lato del pubblico per assistere allo svolgimento di uno spettacolo, ma doveva occupare il centro della scena, agendo in qualità di attore, chiamato a muoversi all’interno di una rappresentazione che gli poteva così girare intorno. Una cosa del genere insomma: https://youtu.be/baO7p3yVYFY .

Tuttavia, a Camillo non bastava ideare simile edificio, cosa che già lo occupava a studiare da matti per preparare documenti e schizzi di ogni tipo, ma voleva a tutti i costi realizzarlo: così, si impegnò – diremmo oggi – in un’intensa attività di fund-raising volta a coinvolgere nell’impresa venture capitalist di alto rango quali Re, Duchi, Marchesi, Condottieri, Governatori e simili. Pare riscosse discreto successo, tanto da riuscire – si narra – a realizzare un primo prototipo della struttura capace di ospitare 1-2 persone: da una lettera del 28/03/1532 scritta a Erasmo da Rotterdam dall’umanista olandese Viglio Zwichem, che lo avrebbe visitato, scopriamo che Camillo chiamava la propria creazione «mente artificiale», «anima artificiale» o «anima provvista di finestre». Bene, ma che c’entra tutto ciò con Digital Gang?

Pensaci bene: Camillo aveva progettato nientemeno che internet, anzi persino il metaverso. Difatti, da un lato internet non è altro che un unico enorme archivio multimediale del sapere umano, da navigare spostandosi da un nodo a un altro e costruendosi così un itinerario personale, anziché semplicemente osservare un percorso dato (un ipertesto non è un testo); dall’altro lato “metaverso” è il nome che oggi diamo alla possibilità che navigare vada oltre allo stare davanti a uno schermo da esplorare cliccando col mouse o dando direttamente ditate, consistendo piuttosto nell’entrarci dentro immersivamente, come se si fosse davvero nel vivo nell’ambiente da esplorare. Insomma, il povero Camillo meriterebbe indubbiamente di fare un giro sul web e godersi un tour nella versione digitale della mente provvista di finestre, per poi indossare un bel visore e muoversi immersivamente nei meandri della mente artificiale: verosimilmente, sarebbe inizialmente entusiasta di fronte al suo sogno diventato realtà, ma poi realizzarebbe stizzito che quello era appunto il suo sogno! Niente profitti né meri ringraziamenti per lui!

Materiale per un’altra puntata della serie, quindi? Tempo per Camillo di far causa per ottenere un bel risarcimento? Se fossi tra i suoi avvocati, in realtà glielo sconsiglierei, perché ripensare oggi alle sue idee visionarie, all’epoca da molti percepite come bizzarre se non deliranti, ci permette piuttosto di avere un piccolo spaccato di come funziona la storia umana: tutto inizia con il sogno di qualcuno, che prefigura qualcosa di estremamente improbabile eppure possibile, prosegue con dei tentativi di dargli corpo, anche soltanto in maniera abbozzata sulla base dei mezzi al momento a disposizione, e culmina con la sua piena realizzazione, magari dopo che quell’idea sembrava sepolta o senza che chi l’ha materializzata sia consapevole del filo rosso che lo lega a quei primi strambi sognatori. Perciò, se da questo momento ti capitasse di dedicargli un pensiero qua e là durante le tue web-scorribande o gite in 3D, sarebbe già un buon modo di rendergli omaggio…

 

Giacomo Pezzano

 

[Photo credit Joshua Sortino via Unsplash]

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La comprensione della storia e la ricerca del consulente filosofico

<p>Immagine di una protesta per l'aborto a Washington</p>

La consulenza filosofica nasce nel ‘9001 per avvicinare la filosofia alla quotidianità di ogni uomo, nasce per essere al servizio del reale e anche nell’analisi della storia non può sottrarsi da questa sua natura.
Studiare la storia dell’uomo vuol dire studiarlo antropologicamente nei suoi mutamenti sociali e culturali, studiare un evento storico vuol dire studiarne la politica che ha segnato quella data popolazione e come questa abbia influito sulle ideologie di quel dato popolo: se si pensa, ad esempio alla seconda guerra mondiale, risulta impossibile non tenere conto della diffusione delle teorie sulla razza ed oggi, se si pensa alla Russia,  risulta impossibile non tenere conto della forte presa della religione e del ruolo politico che gioca nella visione di concetti fondamentali come Patria, Nazione e di popolo straniero.

Se si guarda alla storia con occhio critico si possono rintracciare degli avvenimenti simili nelle epoche, ma dettati da contingenze diverse e in questo senso la consulenza filosofica può essere utile nell’analisi: si possono tracciare delle somiglianze e delle dissomiglianze nelle epoche attraverso un metodo di studio trasversale. Per essere più chiari: i movimenti di protesta delle suffragette verso fine ‘800 ed inizi ‘900 possono essere in qualche modo collegati ai movimenti di protesta delle donne negli anni ’60-70 per il diritto all’aborto. È inevitabile pensare ad un passo indietro nella storia quando la corte suprema degli Stati Uniti a inizio luglio 2022 ha nuovamente negato il diritto costituzionale all’aborto; ciò ha dato vita a nuovi movimenti di protesta per prendere posizione contro questa decisione che in un sol momento ha cancellato anni di lotte e proteste.

La somiglianza tra i due eventi che si può cogliere è la lotta per dei diritti, i quali dovrebbero essere tutelati giorno dopo giorno, perché nessun diritto può essere dato per scontato, come ci è stato dimostrato; la dissomiglianza è nei mezzi e nella comunicazione, nell’espansione del movimento fomentato dalla globalizzazione e da Internet che connette milioni di persone.
Un’altra dissomiglianza potrebbe essere trovata nella velocità con cui questi movimenti si formano e si rigenerano: sicuramente in passato è stata molto più graduale la loro formazione e azione. Ad oggi, grazie all’iper connessione che ci permette di connetterci in qualunque momento ed in qualsiasi luogo, tutto è più istantaneo e veloce (a volte meno pianificato e meno efficace, altre più efficace per il grande numero di persone che vi partecipano e apportano il loro contributo alla protesta).

In pratica, la domanda da porsi è come la consulenza filosofica possa aiutarci nella vita di tutti giorni. Potrebbe sembrare solo un esercizio teorico ma non lo è: avere uno sguardo critico nella vita di tutti i giorni significa comprendere il passato e correggere il futuro; vuol dire domandarci se i valori che la società propina sono equi per tutti e se qualcosa è davvero cambiato rispetto al passato. Il metodo filosofico insegna consapevolezza, apertura e ci spinge ad avere uno sguardo nuovo sul mondo pensandosi moltitudine e non singolarità. Applicando l’analisi fornitaci dalla consulenza filosofica risulta difficile differenziare nettamente la nostra epoca dalle altre. In realtà, infatti – per quanto oggi si parli di accettazione, inclusione e di nuovi diritti per cui combattere – resta un sottofondo culturale difficile da cancellare. Ancora oggi, chi è diverso per etnia o religione o orientamento sessuale spesso è ostacolato in molti ambiti della sua vita, questo anche perché c’è una falla nelle istituzioni democratiche e soprattutto nell’istruzione: se la consulenza filosofica deve guidarci a tracciare analisi trasversali della storia facendo sì che questa si avvicini anche alla nostra vita quotidiana e possa fornici aiuto nella comprensione del presente, l’istruzione dovrebbe a sua volta contribuire fornendo un valido metodo di analisi critica. La scuola dovrebbe essere il luogo del confronto proficuo, il luogo in cui ci si allontana da sé stessi per poter arrivare a comprendere l’altro: l’orizzonte dovrebbe allargarsi e contemplare ogni angolatura del reale, dovremmo imparare a guardarci come parte di una realtà più grande e complessa.

È per questo che la consulenza filosofica potrebbe essere un’utile guida alla comprensione del presente e volgere il nostro sguardo al futuro; senza, però, dimenticare il passato che diventa monito e altrettanto guida.

Francesca Peluso

NOTE
1. Il fondatore della consulenza filosofica come Philosophische Praxis è Gerd. B. Achenbach (1947), il cui intento era servirsi del metodo analitico filosofico per riavvicinare la filosofia ad ogni ambito del reale per farsi ancella della vita dell’uomo e fornirgli un supporto pratico nell’azione.

[Photo credit Gayatri Malhotra via Unsplash]

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Scoprire qualcosa mentre si stava cercando altro: il metodo serendipità

Una sintesi perfetta.
Una sintesi perfetta tra le espressioni latine homo faber fortunae suae e carpe diem.
Il concetto di serendipità, introdotto per la prima volta da Horace Walpole in una lettera del 1754, ha i crismi del valido metodo scientifico e dell’efficace strategia di coping. Ma non solo: cogliere l’attimo in una determinata situazione ci rende non solo artefici del nostro destino, ma ci fornisce anche una prova empirica di aver saputo trovare il bandolo della matassa.
Farlo in maniera consapevole restituisce, infatti, la dimensione dello stupore provato dal grande autore gotico nello scoprire inaspettatamente un dettaglio in un quadro antico. Una piccolezza, a suo dire, entusiasmante.

Tre prìncipi di Serendippo, l’antica fiaba persiana a cui fa riferimento Walpole, racconta di come i protagonisti, partiti alla scoperta del mondo, trovino sul loro cammino una serie di indizi che li salvano in piú di un’occasione. Serendip, antico nome persiano dello Sri Lanka, diventa quindi l’ispirazione per descrivere una piacevole e fortunata scoperta non preventivata.

Quando parliamo di serendipità, parliamo quindi di fortuna? Non esattamente. Perché la serendipità é sì fortuna, ma anche qualcosa in piú. È la risultante di una combinazione di sorte, circostanza e conoscenza pregressa.
Lo studio dal titolo Talent vs Luck: The Role of Randomness in Success and Failure di A. Pluchino, A. Rapisarda ed E. Biondo indaga, in questo senso, la valenza di talento e fortuna. Grazie ad una simulazione computerizzata, i tre ricercatori sono stati in grado di quantificare il ruolo del caso nel raggiungimento del successo di un determinato numero di persone, dotate di un talento distribuito “a campana”, ricalcando l’effettiva distribuzione del quoziente intellettivo nella popolazione attuale. Con queste premesse, nello studio sono stati distribuiti gli stessi capitali iniziali ai soggetti partecipanti i quali – dopo alcuni incontri casuali con eventi negativi (perdita del 50% del proprio capitale) o positivi (raddoppio dello stesso) – hanno mostrato un risultato molto interessante, ossia che quasi sempre le persone che raggiungono il maggiore successo, nell’arco di un’ipotetica carriera lavorativa di 40 anni, sono quelle più fortunate e con un talento poco sopra la media.

Proprio come accaduto ai tre principi, il talento è necessario, ma non sufficiente. Per avere un qualsiasi tipo di successo, sia esso il raggiungimento di un obiettivo o il superamento di un ostacolo, serve anche una dose di buona sorte. Lo studio appena citato ci offre, tuttavia, solamente uno spunto su cui riflettere, volendo effettivamente indagare qualcos’altro. Quello che è stato definito dagli stessi autori come risultato interessante ci aiuta, praticamente, a dimostrare come le fondamenta della serendipità siano una solida realtà e non solamente un’artefatta teoria. L’occasione di trovare una cosa in maniera imprevista, mentre se ne stava cercando un’altra (cioè appunto la serendipità) si concretizza, allora, non solo con fortuna e talento, ma anche e soprattutto grazie ad un socratico spirito critico, “sapendo di non sapere”.

Più volte è stata tirata in ballo la parola talento. Vale a dire? Potremmo forse considerarlo una predisposizione naturale a fare o comprendere qualcosa “meglio” di altri. Questa innata attitudine, coltivata con i giusti mezzi, può portare a risultati strabilianti. Banalmente: non c’è percorso di studi che tenga senza quell’acume in grado di poter dare significato a tutto il materiale raccolto.

Praticamente quello che accadde all’astronomo Wilhelm Herschel che, nel 1781, cercando delle comete, si ritrovò ad osservare, per la prima volta nella storia, il pianeta Urano. L’astronomo tedesco se ne rese effettivamente conto notando l’orbita ellittica del gigante gassoso, tipica appunto dei pianeti e non delle stelle comete, obiettivo iniziale della sua osservazione. La scoperta di Herschel ci dimostra come l’attenta ricerca di effetti non calcolati, utili per portare alla formulazione di nuove teorie, possa essere effettivamente usata dal ricercatore come un paradigma valido scientificamente. Un metodo vero e proprio. 

Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nella vita di tutti i giorni. In situazioni di novità ed incertezza, infatti, la mente è attiva e vigile e, per certi versi, lavora pure meglio. Saper divergere dalle ipotesi iniziali e considerare positivamente soluzioni inedite e non preventivate sono tutte valide strategie di adattamento. In fin dei conti, la capacità di far fronte a determinate situazioni, usando tutte le risorse possibili immaginabili (fortuna compresa), come anche dover risolvere problemi, altro non è che superare una serie di ostacoli per raggiungere un obiettivo. Pensare out of the box, in modo creativo e laterale, aiuta non solo ad allargare gli orizzonti ma anche a riconoscere i colpi di fortuna quando questi si presentano, anzi: quando siamo proprio noi a fare in modo che diventino realtà.

Milo Salso
Nato a Venezia nel 1987, si laurea in psicologia sociale e del lavoro a Padova. Dal 2015 lavora e risiede a Vienna, dove si occupa di marketing e di project management. Avido lettore, nel tempo libero crea cruciverba a tema libero.

[Photo credit Alois Komenda via Unsplash]

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Territorio e paesaggio. Uno sguardo filosofico per una geografia profonda

Che differenza c’è tra territorio e paesaggio? Chiederci come scegliamo di usare un termine piuttosto che l’altro può spingerci a fare interessanti considerazioni sul nostro rapporto con l’ambiente e sulle sottese visioni filosofiche. 

Il significato di territorio ha a che fare con spazi racchiusi in confini, delimitazioni, suddivisione in porzioni; inoltre, il concetto include sempre anche varie operazioni di calcolo: grandezza, produttività, proprietà, redditività. In genere il territorio appartiene a uno o più proprietari e si presta a un certo tipo di sfruttamento.
Il termine paesaggio, invece, richiama in noi un’idea un po’ diversa, innanzitutto connotata esteticamente: è di solito qualcosa di bello da ammirare e questa bellezza si fa garante della sua richiesta di salvaguardia. Un paesaggio è un insieme di elementi naturali e, volendo, anche antropici, che hanno trovato una loro coesistenza armonica e la cui visione si traduce in una fruizione preziosa per gli sguardi umani che lo possono contemplare. Questa armonia si ammira, se ne fruisce attenti a non esaurirla, a non fare dell’utilizzo un consumo, perché il consumo, appunto, consuma, e non rimane granché per chi arriva dopo. La fruizione, diversamente, è un concetto che sottende un approccio meno consumistico e più slegato dalla materia. 

Nei discorsi di politica ed economia la parola territorio risuona insistentemente, molto più di rado si sente parlare di paesaggio. È difficile giustificare lo sfruttamento del paesaggio, sappiamo che la nostra bramosia manipolativa è pericolosa e difficilmente lascia intatto quello su cui mette le grinfie; esso ha bisogno di noi solo come garanti della sua incolumità. Laddove l’urbanizzazione è intensa, però, è difficile trovare paesaggi a cui affezionarsi e per i quali fremere in mozioni di difesa. Il territorio, caratterizzato dalle sue manifestazioni di intensa antropizzazione, si configura come un manto coprente dell’originale geografia dei nostri luoghi di vita. Chi ricorda come erano gli scorci di bellezza nei luoghi del proprio passato, se ha fatto in tempo a conoscerli, quando in quel preciso luogo fisico, conservato oramai solo nella propria memoria, l’intervento urbanizzante non oscurava ancora definitivamente il paesaggio?

Siamo sempre meno propensi a focalizzarci sui significati dei cambiamenti dei nostri luoghi. Il paesaggio ha bisogno di essere guardato e vissuto con sguardo profondo, per sedimentarsi della nostra memoria, affinché noi capiamo la nostra terra in un senso non superficiale, non cancellabile da un momento all’altro. Ma la conoscenza profonda del proprio ambiente richiede tempo e saggezza, mentre l’antropizzazione è veloce, ci promette benessere, ci garantisce di tutto e di più prendendolo da ogni angolo del pianeta. Ad esempio, non ho più bisogno di conoscere la mia terra per sapere come trarre da lei i frutti per il mio sostentamento, capire come adattare i miei bisogni ai cambiamenti stagionali, cogliere lo stato di salute dei suoli, quello delle creature che la abitano, se tanto posso interamente demandare ai processi industriali l’approvvigionamento di cibo. Posso scegliere di non capire niente di tutto ciò e continuare comunque a nutrirmi. Infatti, nella totale distrazione della routine urbana, trascuriamo i mutamenti della geografia dei nostri luoghi e poi accade che, come scrive Barry Lopez: «Se una società si dimentica o non si preoccupa più di dove vive, chiunque abbia il potere politico e la voglia di farlo potrà manipolare il paesaggio per conformarlo a determinati ideali sociali o visioni nostalgiche»; e ancora: «Più una società ha una conoscenza superficiale delle reali dimensioni della terra che occupa, più quella terra sarà vulnerabile allo sfruttamento e alla manipolazione per il guadagno a breve termine» (B. Lopez, Una geografia profonda, 2018). Il problema è che la conoscenza profonda, fatta in prima persona, quella in cui si incorpora il paesaggio in una geografia personale consolidata, richiede tanto tempo e attenzione, risorse di cui siamo sempre più carenti.

Si tratta di un processo di costruzione dei propri luoghi che incalzava anche il filosofo norvegese Arne Næss, con la sua ecosofia, consapevole che l’urbanizzazione, la dipendenza da beni e tecnologie che arrivano da luoghi che non ci appartengono, nonché l’aumento della complicazione strutturale della vita, sono tutti fattori che indeboliscono l’appartenenza a un luogo. 

L’invito, allora, è quello di trovare i nostri paesaggi, esercitarci a creare con essi connessioni intime, costruire una geografia, che è la scienza dei luoghi della terra e delle loro caratteristiche di interrelazione, che sia personale e profonda. Una conoscenza che si connota di una versione fotografica interiore e di tipo estetico del nostro paesaggio, che sia punto di riferimento capace di trasformarsi in campanello d’allarme alla prima minaccia di deturpazione.  Una geografia della fisicità dei nostri ambienti che, una volta consolidata, potrebbe trasformarsi in visione etica e azione politica non appena ve ne fosse urgenza.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit pine watt via Unsplash]

 

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Eraclito, Buzzati e il divino a portata di mano

A volte leggendo un autore capita di sentirsi come sopraffatti dalla bellezza e dalla profondità dei suoi scritti, e sembra di trovarsi di fronte a qualcuno di eccezionalmente dotato, dalle qualità superiori alle nostre, quasi facesse parte di un’altra dimensione, quasi vivesse in una realtà diversa dalla nostra. Forse è per questo che ci affascinano gli aneddoti sui grandi uomini del passato: contribuiscono a ridimensionare l’immagine che abbiamo di loro e a farceli sentire più vicini alla normalità.

Uno degli aneddoti più eloquenti a nostra disposizione riguarda Eraclito. Si racconta che dei visitatori venuti ad Efeso per sentirlo parlare, una volta bussato alla sua porta, rimasero interdetti constatando che questi si scaldava vicino al fuoco. Vedendo la loro titubanza, egli li incoraggiò così: «Entrate, gli dèi si trovano qui come dappertutto!»1. Non conosciamo la reazione dei visitatori, ma ciò che conta è che il vedere quell’enorme pensatore in un contesto così banale, così indegno per qualcuno del suo calibro, abbia prodotto una sorta di turbamento in loro, che lo figuravano intento in chissà quali elucubrazioni metafisiche.

La visione del saggio “fuori contesto” produce uno choc, ed è questa la cosa affascinante. Eraclito afferma che gli dèi sono anche lì, nel più banale dei contesti. Perché i visitatori sono turbati? Il fatto è che nell’immaginario collettivo il filosofo, l’artista, il letterato – insomma colui che dedica la sua vita a produzioni fuori dal comune, nel senso più letterale di questa espressione – in qualche modo disdegni le esperienze per così dire banali e si preoccupi di vivere soltanto quelle cariche di senso, che esulerebbero dal quotidiano perché rare e di difficile accesso. Lo choc dei visitatori è quindi prodotto dal contrasto tra quest’idea e la constatazione che Eraclito non sta vivendo nulla di straordinario. Eraclito, dal canto suo, risponde loro bonariamente che lo straordinario non è da qualche parte al di là delle esperienze quotidiane, e che ciò che fa la differenza sono la sensibilità e la penetrazione dello sguardo, la capacità di coglierlo nei contesti quotidiani, perché, in fin dei conti, la vita si svolge giorno per giorno, e dà agli ospiti l’insegnamento che forse erano venuti a cercare, ma che probabilmente non colgono.

La filosofia tende all’astrazione perché il suo sguardo è universale e vuole cogliere il mondo nella sua totalità, non lasciandone fuori alcun aspetto. Tuttavia il mondo prende significato in quanto è vissuto da noi, ed il vissuto è sempre legato al contesto, alla situazione particolare in cui ci troviamo. Il filosofo riesce a non perdere mai di vista questa lezione, ed è anzi consapevole che le grandi verità si nascondono nelle piccole cose, che come tali passano inosservate e richiedono una grande sensibilità per essere colte. Non è senza consapevolezza che Eraclito stesso afferma che «La natura ama nascondersi» (Eraclito, Frammenti, B123 D-K), o che Aristotele ci dica che la filosofia nasce dal sentimento della meraviglia di fronte a ciò che abbiamo davanti2.

Vi è un altro autore, più vicino ai nostri tempi, che sembra volerci persuadere con forza che lo straordinario si nascondono nei contesti più comuni. Si tratta dello scrittore, giornalista e pittore bellunese Dino Buzzati. Profondamente convinto che il misterioso abiti ed animi il mondo e sia sempre dietro l’angolo, nei suoi racconti egli mette in scena gli avvenimenti più surreali e paradossali, a volte anche incomprensibili, partendo da situazioni assolutamente banali ed apparentemente prive di qualsiasi interesse filosofico: una passeggiata nel bosco si trasforma nella più grande delle avventure, una semplice visita medica diventa un’angosciosa odissea verso l’ignoto e la consapevolezza della propria impotenza, una normalissima nuvola ci mette di fronte alle nostre debolezze più recondite, la quotidiana ricerca di un parcheggio finisce col liberarci definitivamente dalle nostre gabbie mentali3.
Insomma, pare che in molti cerchino di suggerirci che il sale delle cose si trova proprio davanti a noi, dentro le pieghe, e che si tratti soltanto di saperlo e di volerlo cogliere.

Concludiamo riportando una singolare esperienza capitataci di recente. Leggendo Le avventure di Pinocchio, il testo all’improvviso si è arrestato e nella pagina successiva continuava un romanzo a noi ignoto. Il fatto, che di per sé può sembrare ridicolo, ci ha però riportato alla mente la vicenda di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Proveremo quindi a recuperare il libro sconosciuto e vedremo dove ci porterà.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Questo aneddoto ci è trasmesso da Aristotele, Le parti degli animali, libro I, cap. 5.

2. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro A.
3. I racconti cui facciamo riferimento sono, nell’ordine: Il borghese stregato, Sette piani, Le tentazioni di Sant’Antonio, Il problema dei posteggi in Sessanta racconti, 1958.

 

[Photo credit Stefan Widua via Unsplash]

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Filosofia da tastiera

Questo è il primo articolo che scrivo utilizzando il mio nuovo PC. Come prevedibile, questo vuol dire che ci metterò il doppio del tempo: il computer è più piccolo del suo predecessore, la tastiera idem, i tasti sono leggermente sfalzati e alcuni hanno del tutto cambiato di posizione. Il corpo ha ormai memorizzato i movimenti, scrivo senza guardare dove metto le dita, e gli automatismi mi portano a cercare l’invio dove ora c’è la A accentata, o la freccia in alto dove ora incontro il tasto del maiuscolo. La tastiera non ha pietà di me, e mi osserva beffarda arrancare per apprendere nuovi automatismi, per adattarmi alla sua disposizione. Per imparare.

È stato Alan Turing, il geniale matematico che decrittò Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale e che è a ragione considerato uno dei più brillanti matematici del secolo scorso, a coniare il termine learning machine, ovvero “macchina che impara”. Da bravo padre dell’informatica, Turing aveva teorizzato quella tipologia di algoritmi euristici denominati “algoritmi genetici” che sono alla base della moderna intelligenza artificiale, una serie di quesiti a risposte multiple (brutalmente riassumibili nella formula “se x allora y”) che permette ai software di memorizzare pattern logici, riconoscerne di analoghi e imparare a risolvere problemi sulla base dell’esperienza appresa.

Senza andare a cercare meraviglie moderne come i computer quantistici, anche il mio PC è nel suo piccolo una learning machine, che si struttura diversamente a seconda delle abitudini e delle preferenze dell’utente. Eppure, alle prese con il nuovo acquisto, sono io che mi sento una learning machine, io che percepisco di stare adattandomi alla macchina, capirne il funzionamento, insegnare nuovamente alle mie dita dove sono i tasti giusti, imparare le specifiche del nuovo sistema operativo, sempre più intuitivo ma comunque percepito come più complesso rispetto a una vecchia versione che era ormai diventata un’estensione del mio pensare e del mio lavorare.

Ecco, forse sta qui il cuore del problema: più che uno strumento che uso, il computer monopolizza la mia attività fin quasi a diventare una parte di me. Quando provo a scrivere a penna ormai mi sembra di essere un neanderthal che impugna una clava, e ne condivido la grazia e la leggiadria. Mi è poi diventato impossibile andare da qualunque parte senza quell’onnipresente surrogato del PC che è il cellulare, altra potentissima learning machine che mi condiziona molto più di quanto non faccia io con essa. La possibilità di usare il navigatore per arrivare a destinazioni sconosciute senza studiarsi una cartina, di cercare rapidamente su internet qualsiasi informazione mi serva, di leggere il giornale, consultare l’agenda, scambiare comunicazioni con famiglia, amici e lavoro, consultare orari di negozi e cinema, giocare, controllare il meteo, fare di conto e quant’altro tutto su uno stesso strumento ha radicalmente trasformato le mie abitudini e il mio modo di vedere il mondo e muovermici dentro.

Più ci penso, e più realizzo che la learning machine nel mio rapporto con le tecnologie digitali sono proprio io. Sono io che volta volta devo imparare a modificare la mia vita e le mie abitudini in funzione di un nuovo computer, un nuovo telefono, una nuova app, una nuova risorsa tecnologica di cui non sapevo di avere bisogno ma che diventa indispensabile. Sono io che vengo “riprogrammato” per essere compatibile con i nuovi sistemi.

Purtroppo, però, come intelligenza artificiale non risulterei un buon acquisto: ci metto decisamente troppo a sviluppare nuovi automatismi, sono talmente refrattario alle novità che ancora uso un’agenda cartacea, e da bravo essere umano ho una garanzia limitata data da un hardware in progressivo deterioramento. Dovrò accontentarmi di essere una fallace e imperfetta intelligenza organica in mezzo a sempre più perfette macchine che, loro sì, imparano velocemente.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christin Hume via Unsplash]

 

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