Il linguaggio osceno della comunicazione politica populista

Se c’è una cosa che tutti sicuramente impariamo durante la nostra esistenza è che l’oscenità rappresenta qualcosa che stimola contemporaneamente disgusto e interesse. E in fondo, forse, anche piacere. Dall’osceno nasce un nuovo linguaggio simbolico, che viene impiegato per creare un’inedita rappresentazione dell’umanità e della società. Anche grazie al processo di mediatizzazione e piattaformizzazione, tipico del terzo millennio, si può notare come l’oscenità sia diventata via via la forma-regina del linguaggio politico, in particolare quello populista. Analizzando la persona politica di Trump, ad esempio, Žižek, a ragion veduta, afferma:

«Attraverso tutte le sue scioccanti volgarità, sta dando ai suoi seguaci una narrazione che ha un senso – molto limitato e contorto, nondimeno un senso – che ovviamente funziona meglio della narrativa della sinistra moderata. Le sue spudorate oscenità servono come segni di solidarietà con le cosiddette persone comuni (“vedi, sono come te, siamo tutti uguali sotto la pelle”) […]» (S. Žižek, Hegel e il cervello postumano, 2020).

In questo modo l’oscenità è veicolo e strumento non solo di solidarietà, ma anche e soprattutto di riconoscimento. Il senso di riconoscimento, come quello di appartenenza, è essenziale a tutti gli uomini, a tutte le autocoscienze, come direbbe probabilmente Hegel. Tutti desiderano essere inclusi da qualche parte e in qualche cosa. Allora, la politica populista, che forza sul concetto di somiglianza, tende a sfruttare in maniera continuativa, quasi estenuante, un linguaggio performativo tale da ricreare un’immagine organica di popolo, e quindi un’identità collettiva.

Il leader politico populista, attraverso la tecnica della disintermediazione, si racconta come un cittadino ordinario, esattamente come i propri elettori, sia nei suoi discorsi sia nei suoi gesti. Egli ha il carisma e la capacità di intercettare l’umore del suo elettorato, per riproporlo allo stesso in una chiave che nella maggior parte dei casi viola le più basilari norme di decenza, giacché egli parla come parlerebbe il popolo. Il linguaggio osceno sperimentato dalla comunicazione populista instilla il seme dal quale nasce l’idea che il leader politico è e fa ciò che il popolo vuole che sia e che faccia.

Il sentimento del popolo, o meglio risentimento, viene raccolto e politicizzato dalla dinamica populista, la quale, quasi mai lo risolve. Il populismo, infatti, si nutre delle falle che si manifestano all’interno del sistema democratico, tenta sempre di mantenerle e sa che per sopravvivere ha bisogno di un’Opinione Pubblica che percepisca costantemente l’instabilità e il pericolo della crisi.

L’oscenità, non solo piace, ma si eleva a sacro e a pubblico:

«Le oscenità non si limitano più agli scambi privati, esplodono nello stesso pubblico dominio, permettendomi di soffermarmi sull’illusione che sia tutto solo un gioco osceno mentre io rimango innocente nella mia intima purezza» (ibidem).

Il popolo crede, perché la politica populista viene coltivata quasi come se fosse una missione di fede, in cui il focus è tutto concentrato sul popolo “vero”, che di conseguenza legittima il potere d’azione del leader stesso. Così, l’osceno populista agita gli elettori contro dei “nemici”, li fomenta contro un malessere che un Altro ha creato. “Nothing’s your fault. It’s them, it’s them, it’s them, probabilmente Trump tornerà a ripeterlo agli statunitensi e al mondo, dopo il recente annuncio della sua ricandidatura alle primarie del 2024. 

Nel frattempo, tutti noi, che formiamo la camaleontica Opinione Pubblica, possiamo riflettere su quanto l’oscenità sia oscena, specialmente nel momento in cui produce discorsi e gesti conflittuali e primitivi di “un me contro un te”, perché essi inevitabilmente ci conducono ad un esito di poteri totalmente asimmetrico. La deriva verso cui si spinge e ci spinge la comunicazione populista, come una bomba, allora, può essere disinnescata dall’uso ragionato e ragionevole del senso di riconoscimento che in modo positivo include, ossia ci dà l’opportunità di percepirci e sostenerci a vicenda anche nella nostra diversità e pluralità, e non elude.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Jon Tyson via Unsplash]

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Informare a tutti i costi? I confini etici dell’informazione mediatica

Nel 2000 il telegiornale nazionale israeliano (Israeli Broadcasting Authority) trasmise in prima serata un video, in cui venne mostrato integralmente lo stupro di una donna al fine di sensibilizzare il pubblico ad un fenomeno allora sempre più diffuso nella società israeliana. Una tale scelta è lecita, oppure avrebbe dovuto essere censurata? Quali sono i limiti della libertà di espressione?

Gli argomenti a favore della trasmissione del video sono molteplici. In primis, per dirla con le parole di un grande difensore ottocentesco della libertà, John Stuart Mill, «il divieto pubblico di esprimere un’opinione è un delitto contro l’intera umanità». Il comportamento della tv israeliana potrebbe essere poi giustificato sostenendo l’importanza di informare il pubblico su un fatto accaduto. I cittadini hanno il diritto di essere messi al corrente di ciò che succede intorno a loro così da diventare consapevoli dei pericoli che li circondano. Inoltre tale visione, secondo l’emittente, dovrebbe avere un valore pedagogico, utile per far riflettere gli spettatori sulla gravità dell’evento.

È evidente che un video, così come un’immagine, ha un impatto emotivo sulle coscienze più forte del semplice linguaggio verbale. L’altra faccia della medaglia, d’altronde, è che un certo tipo di filmato potrebbe ledere la sensibilità dei telespettatori, in modo particolare dei minori (ricordiamoci che siamo in prima serata!). Inoltre, teniamo conto del fatto che questa donna, prima ancora di essere la vittima di atroci violenze, è una persona, la cui dignità viene lesa riducendola ad un mero strumento di comunicazione. Rispetto a ciò dovremmo forse prestare ascolto a Immanuel Kant e alla sua celebre formulazione dell’imperativo categorico: «Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai semplicemente come mezzo».

Bisogna oltretutto tener presente il fatto che episodi di violenza di questo tipo, mostrati ad un largo pubblico, potrebbero generare un effetto contrario come l’emulazione (per così dire “la violenza genera violenza”). In merito a ciò, parafrasando Hannah Arendt, non rischieremmo forse di giungere a “banalizzare il male”? Essendo sottoposti continuamente a immagini di un certo tipo la violenza rischia di diventare routine. E allora l’indignazione, a cui mira l’emittente, non verrebbe compromessa?

Non si può non considerare che un video di questo tipo potrebbe essere scambiato per mero intrattenimento. L’emittente potrebbe sostenere che sia il pubblico stesso a richiedere la trasmissione del filmato; ma sono davvero gli spettatori a scegliere cosa guardare oppure sono i media stessi a influenzare le nostre preferenze? La tv potrebbe ribattere che si è pur sempre liberi di cambiare canale. Tuttavia il problema resta: di chi è la responsabilità della trasmissione? Del pubblico stesso, che attraverso lo share manifesta l’interesse, o dell’emittente che la manda in onda? E se a prevalere fosse l’interesse economico?

In fondo il pubblico è un’entità eterogenea e variegata; da un lato ci sono persone già sensibili a questo tema, a cui la visione non recherebbe alcun giovamento, dall’altro chi è già tendente a comportamenti violenti potrebbe prenderne esempio o entusiasmarsi.

Pur salvaguardando la libertà di espressione, temi sensibili come lo stupro, potrebbero essere trattati in altri modi come, ad esempio, promuovendo anche mediaticamente dei dibattiti e delle testimonianze per sensibilizzare le persone in tal senso. In sintesi, il focus della questione sembrerebbe essere il confine tra la libertà di informazione – che ha anche carattere pedagogico – e la censura di contenuti violenti. Pertanto è auspicabile proporre possibili modelli di intervento, tenendo in mente «una regola fondamentale: attendersi il peggio, e annunciarlo francamente, e nello stesso tempo contribuire alla realizzazione del meglio».

Innanzitutto, il problema della censura potrebbe essere ovviato attraverso l’autodisciplinamento dei media stessi. Riguardo a ciò, sarebbe importante attuare una rilettura dei codici deontologici di chi si occupa di informazione, che spesso non vengono considerati con sufficiente attenzione. Sarebbe consigliabile inoltre potenziare, o eventualmente istituire, degli enti nazionali o internazionali super partes – sul modello dei comitati bioetici – composti da diverse figure professionali (filosofi, sociologi, esperti di etica della comunicazione, psicologi, etc.).

Naturalmente, le precedenti misure non potranno essere del tutto efficaci senza l’introduzione, nel percorso di formazione dei cittadini, di un’educazione all’utilizzo delle tecnologie e dei media. Tali problemi, tra l’altro, non sono estranei al nostro quotidiano: siamo al centro di questo dibattito, sia da spettatori che da attori. Non siamo forse responsabili a nostra volta della visualizzazione e condivisione di certi contenuti, che ogni giorno incontriamo sui social media?

“Mi piace”, “Condividi”, “Blocca”, “Segnala”: non sono forse queste le azioni da non sottovalutare? In fondo basta un click. La scelta è nostra.
Elena Soppelsa, Ludovica Algeri, Francesca Steffenino, Stefano Strusi, Lorenzo Milano e Leonardo Diddi
Corso Etica Applicate – Università di Pisa 

 

Bibliografia:
– O. Ezra, Freedom of Expression in Academia and Media, in Moral Dilemmas in Real Life, Law and Philosophy Library, vol. 74. Spriger, Dordecht 2006.
– M. Horkeimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, tr. it. a cura di E. Vaccari Spagnol, Biblioteca Einaudi, Torino 2000.
– I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2017.
– J. S. Mill, Sulla libertà, a cura di G. Mollica, Bompiani, Milano 2000.

Sul tema dell’informazione si è confrontato anche un altro gruppo di studenti dell’Università di Pisa in questo articolo.

Libertà di espressione in ambito accademico

Il professor Ezra Ovadia dell’Università di Tel Aviv ha redatto nel 2006 un articolo partendo da un dibattito tenutosi all’università ebraica di Gerusalemme. Il dibattito ruotava intorno ad un controverso corso, dal titolo Feminism Rejected, tenuto nel 2000 da Martin Van Creveld, esperto di Storia militare. Il professore aveva espresso le proprie opinioni riguardo la superiorità dell’uomo sulla donna e aveva spiegato le ragioni per cui il movimento femminista non avesse ottenuto risultati significativi e fosse quindi da ritenersi fallimentare. Ovadia ha evidenziato come il contenuto del corso potesse essere considerato fonte di denigrazione e incitamento all’odio. Il corso violava, inoltre, il principio di dignità umana, un principio che per la sua stessa natura deve essere riconosciuto ad ogni uomo in quanto parte costituente dell’umanità a prescindere da ogni differenza. È doveroso a questo punto analizzare l’eventuale legittimità di un corso di questo genere partendo dalla libertà di espressione in ambito accademico: la libertà deve essere assoluta, arrivando a comprendere la possibilità di tenere corsi discriminatori ed offensivi, oppure è opportuno limitarla con accorgimenti e restrizioni nel rispetto della dignità della persona al fine di salvaguardare e garantire la civile convivenza? Nel suo articolo Ovadia riporta opinioni opposte sul tema della libertà di espressione. Da una parte l’opinione del filosofo britannico John Stuart Mill, favorevole ad una totale libertà di espressione poiché le posizioni dominanti al momento o politicamente corrette potrebbero essere errate e l’esclusione di altre teorie potrebbe portarci a non riconoscere l’opinione corretta. Sempre secondo Mill, inoltre, l’opinione comune e quella divergente potrebbero non essere abbastanza persuasive e potrebbe diventare necessario fare una sintesi tra le due posizioni. Inoltre, il dibattito con coloro che sostengono posizioni palesemente sbagliate serve a rafforzare le nostre opinioni: potremmo esserci dimenticati il perché avevamo originariamente sostenuto quella posizione e lo scontro con un’opinione divergente ci aiuterebbe a confermare la nostra scelta.

All’opposto di tale posizione, riporta Ovadia, si schiera la ricercatrice australiana Katherine Gelber, esperta nel campo della libertà di parola e della regolamentazione del discorso pubblico. Secondo la Gelber è necessario limitare la libertà di espressione in ambito universitario dato che lo status di accademico conferisce un prestigio e un’autorevolezza che non possono essere appannaggio di opinioni troppo controverse.

Tenuto conto del dibattito riportato da Ovadia, l’ipotesi di censurare a priori il corso rischierebbe di ledere la libertà di insegnamento e con essa la libertà di espressione. Nell’intento di eliminare dall’approfondimento scientifico ogni argomento considerato scomodo e urticante si correrebbe il rischio di commettere gli stessi errori perpetrati a suo tempo da sistemi dittatoriali, come ad esempio quello dell’Italia fascista quando ai professori universitari fu chiesto di giurare fedeltà al regime.

Una soluzione immediata potrebbe concretizzarsi nella possibilità – da parte dello studente – di rinunciare a priori alla frequenza del corso rivendicando così la propria libertà di scelta e di ascolto. Sarebbe invece più auspicabile considerare la necessità di organizzare corsi accademici sotto forma di lezioni interattive che da un lato contribuirebbero ad impedire intenzioni o azioni propagandistiche a sostegno di una qualche ideologia, dall’altro permetterebbero punti di vista divergenti utili allo studente e al docente per esprimere il proprio pensiero nella più totale sicurezza e nel più indiscusso rispetto.

A prescindere dall’esito della questione trattata, il dibattito è molto attuale in particolare nella società occidentale che ha fatto della tolleranza, almeno formale, la sua cifra distintiva. Ogni giorno i media offrono idee sempre più controverse e politically incorrect da parte di politici e opinionisti desiderosi di imporsi nel saturo mercato dell’informazione. Solo posizioni particolarmente esagerate e caricaturali riescono ad emergere dal continuo flusso informativo indifferenziato. Questi problemi interessavano già l’epistemologo Karl Popper, che nel 1945 proponeva il cosiddetto paradosso della tolleranza: una società estremamente tollerante a tutte le idee è destinata a collassare poiché le idee intolleranti finiranno per trionfare e porre fine alla tolleranza stessa. Per Popper è quindi necessario un certo margine di intolleranza contro coloro che si proclamano apertamente intolleranti e discriminatori. Facile è segnare come intolleranti posizioni esplicitamente eversive o violente, mentre ben più complesso è definire il raffinato e argomentato maschilismo del professor Van Creveld. Come evidenziato da Ezra Ovadia, al docente è offerto un ben remunerato posto in una università pubblica, la più antica dello Stato di Israele. In tal modo lo Stato stesso finisce per legittimare posizioni contrarie alle più elementari norme del diritto contemporaneo. Il problema, quindi, è anche quello di dare una definizione ontologica del concetto di intolleranza, rapportandola al contesto socio-culturale occidentale e vederne i presupposti e gli effetti.

Costruire un mondo dove le differenze biologiche sono fonte di discriminazione è effettivamente pericoloso poiché potrebbe giustificare ogni sorta di discriminazione di qualsiasi tipo, ad esempio nei confronti dei calvi, bassi, sordi, ovvero dell’intero genere umano. Al fine di impedire un simile accadimento è auspicabile un agire collettivo che prenda forma e acquisti progressivamente forza entro la collettività stessa.

 

Ilaria Billeri, Daniela Lucatelli, Pierluigi Bolioli

 

Ilaria Billeri, 22/05/1972 Pontedera, laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Pisa, docente di Lingua e Letteratura Inglese e francese, attualmente allieva magistrale del Corso di Laurea in Filosofia e Forme del Sapere, autrice di componimenti poetici editi in riviste e collane di poesia e narrativa.
 
Daniela Lucatelli, Viareggio. Laurea in Lettere presso l’Università di Pisa. Insegnante di Lettere. Attualmente iscritta al corso di laurea in filosofia e forme del sapere a Pisa.
 
Pierluigi Bolioli, dottore magistrale in storia, studente della laurea magistrale in filosofia.
 
[Photo credits: unsplash.com]
 
Sul tema dell’informazione si è confrontato anche un altro gruppo di studenti dell’Università di Pisa in questo articolo.

La pragmatica come interpretazione del linguaggio dei Social Network

L’utilizzo del web 2.0 e dei Social network è sempre più massivo e le informazioni a disposizione non sono quantificabili; è una realtà disorientante, come cercare di navigare nella giusta direzione sopra una zattera in mezzo all’oceano, il rischio di sprofondarci è altissimo.

La questione di avere una bussola che ci aiuti a navigare in modo intelligente tra le mille forme di conoscenza che vi troviamo, è una necessità sulla quale si discute da qualche anno: c’è sempre più difficoltà nel distinguere una notizia falsa (bufala) da una vera, non solo da parte del singolo utente ma anche di accreditate testate giornalistiche.

La diffusione indiscriminata delle informazioni nel web ci rende sempre più difficile il lavoro di distinguere una informazione corretta da una sbagliata. Un atteggiamento critico è fondamentale, ma sembra assente in molte persone che si nascondono dietro ad un monitor e che interagiscono all’interno dei Social Networks assumendo delle vere e proprie cattive abitudini, come la mancata argomentazione, l’assenza di fonti, la pretesa di verità, insieme ad una certa aggressività.

Marina Sbisà, professoressa di Filosofia del Linguaggio all’Università di Trieste, grazie agli strumenti filosofici della pragmatica, ci offre una nuova chiave di lettura di tutti quegli enunciati che vengono formulati nei post e commenti in Facebook. Un commento diventa veicolo di conoscenza e per una grande quantità di utenti non si pone il problema di verificare la fonte o l’autorevolezza di chi promuove tale conoscenza.

Alla base della pragmatica c’è l’idea che l’uomo nel momento in cui parla non sta emettendo semplici suoni, ma agisce: il dire diventa un fare. John L. Austin, considerato tra i maggiori esponenti della pragmatica, mette in evidenza la stretta relazione tra il parlare e il contesto in cui viene fatto. L’ambiente in cui siamo immersi non è secondario in quanto influisce profondamente nel linguaggio, conferendo significati diversi a seconda della situazione in cui ci si trova a parlare.

Quando un giudice emette una sentenza, le sue parole hanno valore legislativo, possono condannare una persona a dieci anni di carcere. Si può vedere come le frasi di una persona che ha una certa carica e autorevolezza siano vincolate al contesto in cui vengono emesse. Anche l’esempio della promessa è utile per capire che quando parliamo stiamo facendo qualcosa, ad esempio prendiamo un impegno verso un’altra persona e prendere un impegno significa agire. Tutti i giorni compiamo degli atti linguistici. Austin ne distingue tre tipi: l’atto locutorio, ovvero del formulare una frase di senso; l’atto illocutorio che veicola l’intenzione della persona che parla; ed infine l’atto perlocutorio dove l’intenzione del parlante si realizza attraverso il dire. A noi interessa in particolare l’atto illocutorio.

Della teoria di Austin, Marina Sbisà pone l’attenzione sulla comunicazione implicita degli atti illocutori, ovvero tutte quelle informazioni che possiamo dedurre da una frase, parlata e scritta, già presenti in essa ma non ancora esplicitate. Ci sono due forme: la presupposizione, ad esempio dire «non pubblico più selfie», presuppone che il parlante in passato abbia pubblicato almeno un selfie; e l’implicatura, che invece suggerisce un’informazione, prendiamo l’esempio della credenza: affermare «sta bene anche se ha fatto il vaccino», suggerisce la credenza da parte dell’autore che i vaccini possano far male.

Molte delle frasi e commenti che possiamo trovare in Facebook, vengono espressi come giudizi veri, presuppongono l’autorevolezza di chi li emette e spesso implicano molte discriminazioni. L’atto di riconoscere l’autorevolezza di chi sta facendo affermazioni permette implicitamente il loro diffondersi come forme di conoscenza. I like e i followers sono gli strumenti di tale diffusione, in quanto esprimono l’assenso ad un post o un utente, e la loro quantità diventa proporzionale alla loro credibilità.

La credibilità di un’informazione dovrebbe dipendere dall’argomentazione e dalla fonte, e questo avviene solo saltuariamente nei Social, mettere in discussione l’altro significa essere in disaccordo, ed eliminare un’opinione diversa con un click è diventato facile, come scrivere un insulto e offendere senza alcuna remora.

Oltre all’aggressività, secondo la Sbisà, un altro comportamento rischioso è l’instaurarsi di relazioni affiliative. Gli utenti sono generalmente portati ad iscriversi a gruppi e pagine fan, favorendo l’esclusione di chiunque abbia un’idea diversa. Chiudersi dentro gruppi affiliati, lascia fuori punti di vista diversi che potrebbero mettere in crisi alcune conoscenze che si tende a dare per assodate a favore di un illusorio senso di sicurezza e stabilità.

L’atteggiamento critico deve mettere in crisi ciò che solitamente diamo per scontato, per aprire alla vera conoscenza, per uscire dalla caverna di Platone e vedere il mondo sotto una luce diversa.

Un suggerimento che ci proviene da Marina Sbisà è di esercitarci a riconoscere in modo consapevole tutte quelle presupposizioni e implicature che si nascondono dietro agli enunciati nel web e che favoriscono la diffusione di pregiudizi, discriminazione ed ignoranza. Insegnare ai giovani a sviluppare un atteggiamento critico potrebbe essere un primo passo verso questa direzione, per imparare in futuro a puntare la luce sulle verità e lasciare nell’ombra tute le falsità che ogni giorno minano le fondamenta del sapere.

 

Elisa Raimondi

Mi sono laureata in filosofia a Venezia, e non ancora stufa di questa meravigliosa materia ho iniziato a frequentare il Master in consulenza filosofica. Ho deciso di studiare, scrivere e lavorare con passione. Il mio obiettivo a lungo termine è diventare la versione migliore di me stessa.

BIBLIOGRAFIA
P. Labinaz, M. Sbisà, Credibilità e disseminazione di conoscenze nei Social Networks, Iride 2017
J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Milano 2012

 

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